Se vi dicessi che sono un ragazzo coraggioso, vi direi una menzogna grossa come una casa; forse come un paio di condomini, a dire il vero.
Per fare un esempio, sono aracnofobico.
E, lo capite anche da soli, avere paura dei ragni non è una delle virtù più adatte per uno che vive nel bel mezzo di una campagna umida e calda come il ventre di un orso.
Ma se vi dicessi che mi piacciono i misteri, beh, allora dovreste credermi sulla parola.
Io amo i misteri. Quando sento l'odore stuzzicante e subdolo del mistero, io mi ci butto a capofitto.
E lo feci anche quella volta.
La città, della quale non nominerò il nome cosicché possiate immaginarla come meglio credete (sempre che questo diario giunga nelle mani di qualcuno), era una vera metropoli, con tutto ciò che ne deriva: edifici enormi proiettati verso l'infinito, milioni di persone, di auto e di mezzi pubblici. Un grande caos per uno come me, una salvezza per molti.
Io e mio fratello vivevamo in campagna dalla nascita, la mia famiglia da generazioni. Avevo messo piede in città solo una decina di volte.
Rachel era nella mia situazione, un'umile ragazza che era stata cresciuta più dalle volpi che dalle serie tv.
Quasi temevamo la città, ma le parole sputate fuori dallo scanner radio, scambiate velocemente fra forze dell'ordine spaventate, dicevano a caratteri cubitali: VENITE A VEDERE CHE DIAVOLO SUCCEDE IN CITTÀ, STOLTI.
Noi stolti non lo eravamo, ma cavolo quanto desideravamo conoscere il nemico che stava per arrivare dal cielo.
Ora sono sicuro che starete leggendo queste parole mentre pensate «Accidenti che razza di idioti» oppure «Ma Rachel non ha dei genitori che la chiudono in casa in un momento come quello?» ed io vi risponderò che non eravamo idioti e che no, Rachel era rimasta sola, come me e Zeta. E non sentitevi in colpa per esservi chiesti che fine avesse fatto la sua famiglia, perché è una domanda che sorge spontanea. Risponderò ai vostri quesiti in seguito.
Fatto sta che non avevamo padroni. Eravamo tre ragazzi ed un cane e nessuno aveva il potere o il diritto di dirci cosa fare.
Così facemmo di testa nostra.
Tornammo in casa e raccogliemmo tutto ciò che poteva tornarci utile.
C'era qualcosa che mi rimbombava nella testa, e quel qualcosa mi intimava di uscire immediatamente da quello che per ventidue lunghi anni era stato il mio nido e di non tornarci più.
Quel qualcosa doveva averlo sentito anche Rachel, perché mi guardò con la ferrea e malinconica determinazione di chi sa che deve fare un grande passo, con tutti i sacrifici che esso comporta.
E, in qualche modo, "quel qualcosa" lo aveva percepito anche Anubi, che raschiava contro la porta.
Zeta aprì la porta e Anubi schizzò fuori.
Ho sempre pensato che i cani avessero qualcosa in più.
STAI LEGGENDO
The End
Science FictionQuesta storia comincia dalla fine. La fine di tutto. "Immaginatevi di svegliarvi un giorno e di scoprire che il mondo che conoscete è finito. Questa è la mia storia." #2 in Fantascienza [12.04.2016]