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La mente dell'essere umano è una strana, meravigliosa, tempesta sinaptica.
Se pensate ai giorni che avete trascorso su questo pianeta da quando siete in grado di ricordare, vi accorgerete che i momenti che vi hanno segnato la vita si dividono in due grandi categorie: indimenticabili e traumatici.
Pensate a me. Il giorno in cui ho conosciuto Rachel scorre chiaro nella mia mente, come il migliore dei film romantici.
Al contrario, il mio cervello lampeggia solo miseri fotogrammi se provo a riesumare l'istante in cui ho saputo della morte dei miei genitori.
Il cervello è questo: una straordinaria macchina dotata di uno straordinario sistema di autodifesa.
Se dovessi spiegarlo in parole povere, direi che ricorda i momenti più belli per vivere e cancella i peggiori per non morire.
In quel momento, sperai con ogni mia forza che quel processo funzionasse alla perfezione anche per me. Ne avevo bisogno, un disperato bisogno.
Distolsi lo sguardo.
"Cosa c'è là dietro?" disse Rachel. Le tremava il labbro inferiore, come se avesse già capito. In fin dei conti, più il tempo in sua presenza trascorreva, più le nostre menti trovavano frequenze attraverso le quali unirsi.
"Elja." Zeta mi riportò in quel posto, in quella città dove non avrei mai voluto trovarmi. "Cos'hai visto?"
Ci sono momenti in cui parlare non serve più a niente.
Feci un passo indietro, lasciando che Rachel, Zeta e Trix vedessero ciò che le parole non avrebbero potuto descrivere.
Com'è quel detto, «un'immagine vale più di mille parole»? Chiunque l'abbia detto aveva ragione da vendere.
Videro ciò che avevo visto io, e quando mi guardarono riconobbi lo stesso, incolmabile, vuoto che sentivo gravare sui miei occhi.
Decine e decine di corpi ammassati uno sopra l'altro, come sacchi di sabbia in un cantiere.
Uomini, donne, bambini, anziani. Tutto, nei loro corpi, urlava disperazione.
Erano morti cercando di fuggire dalla città, non era difficile accorgersene.
In quel momento, centinaia di domande infestavano la mia testa, ma una grande certezza mi attraversava il cuore.
È vero, forse le nuvole rappresentavano la fine del mondo che conoscevamo, ma non erano loro la più grande minaccia verso la nostra specie. Ci stavamo uccidendo da soli.
Cambiammo direzione e svoltammo in un altro vicolo.
Potevo percepire la voglia di mettere fine a quello scempio che ognuno di noi emanava, e non potevo credere che ci fossimo fatti attirare come dannati topi in quella gigantesca trappola a scatto.
Cercai la mano di Rachel e lei me la strinse forte. Non l'aveva mai fatto prima.
"Quanto manca alla metropolitana?" chiese Zeta, cercando di strappare quell'imperforabile silenzio che era calato su di noi.
Trix volse lo sguardo verso di lui. Aveva gli occhi lucidi, ma la voce era determinata.
"Non più di un chilometro. Dovremmo vederla a momenti."
Ascoltavo il ritmico scalpicciare dei nostri passi quando sentii che qualcosa non tornava.
Come se ai nostri se ne fossero aggiunti altri, molti altri.
Ruotai la testa alle mie spalle, ma non vidi niente. Lanciai un'occhiata ad Anubi, ma non sembrava avvertire pericoli, per cui mi tranquillizzai.
Arrivammo sotto ad un piccolo cartello che esponeva fieramente una fiammante "M", e percorremmo il sottopassaggio.
Contrariamente a quanto pensavo, la metropolitana era vuota.
Per l'ennesima volta, quegli stupidi campanelli d'allarme che nascondiamo gelosamente nel più remoto anfratto del cervello presero a suonarmi come quelli delle renne natalizie.
Per l'ennesima volta, non li ascoltai.
Lo fece Rachel al posto mio.
"C'è troppo silenzio, qui." sbottò. Come vi ho già detto in precedenza, avevo imparato a dare ascolto a tutto ciò che stuzzicava il suo sesto senso, e quella volta non sarei stato da meno, se ne avessi avuto il tempo.
Ma il tempo non mi bastò.


The EndDove le storie prendono vita. Scoprilo ora