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Per una qualche ragione intrinseca al modo in cui le cose vanno nella vita, ognuno di noi si accorge di quando la resa dei conti si avvicina.
Quando la fanghiglia scivolosa e ripugnante della galleria fu sostituita dal pavimento di linoleum, capii che, in un modo o nell'altro, la nostra ora era arrivata.
Presi la mano di Rachel e sentii le sue dita avvolgere le mie.
Intrecciare le mani con lei era una sensazione unica, indimenticabile. Era come se gli spazi fra le mie dita fossero stati creati per essere riempiti dalle sue.
Lei mi guardò come faceva sempre quando capiva di essere oggetto dei miei pensieri: arrossendo.
Era una ragazza strana. Meravigliosamente strana, intendo.
"Dove andiamo?" chiesi.
Johan alzò la testa, con lo sguardo corrucciato.
"C'è una sola strada, immagino. Bisogna salire." disse.
"E una volta in cima?" chiese Rachel.
"Che Dio ci aiuti." si limitò a rispondere lui.
Percorremmo un corridoio illuminato dalla debole luce di lampade al fosforo, muovendoci con estrema lentezza.
Un rumore mi spezzò il fiato.
Proveniva da una decina di metri di distanza, dove il corridoio si piegava a gomito.
"Soldati." sussurrò Johan.
Eravamo le folli pedine di un gioco che non potevamo vincere. Un gioco che era appena iniziato.
Ci guardammo intorno. Le pareti di cemento, lisce a parte una piccola rientranza appena prima che il corridoio svoltasse, non offrivano alcun riparo.
Dovevamo trovare un'idea, e anche in fretta.
Guardai Anubi e mi venne in mente qualcosa.
"Johan." dissi. "Nascondiamoci in quella rientranza. Cogliamoli di sorpresa."
Mi chinai vicino ad Anubi e gli sussurrai un comando nell'orecchio. Lui mi lanciò un'occhiata divertita - vi giuro che mai come quel giorno fui sicuro che avesse colto le mie intenzioni - e si accucciò in centro al corridoio.
Io, Johan e Rachel ci stringemmo all'interno della rientranza.
Sentii le voci dei soldati. Erano due. Sempre più vicini.
Svoltarono l'angolo.
Si immobilizzarono.
"Ma che cazz..." disse il più basso. Guardavano Anubi, evidentemente stupiti dalla sua presenza in quel luogo inespugnabile.
Non gli concedemmo il tempo di farsi altre domande.
Li eliminammo agilmente, come se non avessimo fatto altro per tutta la vita.
Adagiammo i corpi a lato del corridoio e proseguimmo. Mentre camminavo, mi accorsi di una targhetta rimasta impigliata nella cerniera della mia tuta durante l'attacco ai due soldati. Recava una scritta.

SA319

Il percorso procedeva in una sola direzione, senza possibilità di sbagliarsi.
I successivi trenta minuti non ci riservarono sorprese.
Alla fine del corridoio, ci trovammo di fronte ad una porta blindata.
"E adesso?" chiese Rachel.
Johan imprecò. Eravamo chiusi fuori. O dentro, dipende dai punti di vista.
"Credo che passare attraverso questa porta sia l'unico modo per raggiungere l'Osservatorio." disse, con una smorfia.
Una pulsante sensazione di claustrofobia cominciò a scorrermi nelle vene.
"Diamine, qualcuno uscirà prima o poi da qui." dissi.
Johan annuì, ma lo vidi preoccupato.
"Per quanto possa aiutarci prenderli di sorpresa, non riusciremo mai a farli fuori tutti prima che qualcuno dia l'allarme." disse.
Aveva ragione.
Rimanere bloccato mi indisponeva. Volevo porre fine a tutto quello, trovare un senso all'apocalisse, riabbracciare mio fratello e tornare a vivere una vita normale insieme a Rachel.
Perdonate la mia insolenza, ma ne avevo le palle piene.
"E va bene." dissi. "Coglierli di sorpresa non ci aiuterà più. Facciamo in modo che siano loro a farci entrare." dissi.
Mi rivolsero sguardi interrogativi.
"Johan, tu eri un marine, giusto?" chiesi. Rispose affermativamente.
"Ottimo. Quindi hai praticità con il linguaggio militare. Ci fingeremo soldati, mentre Rachel e Anubi ci aspetteranno più indietro. Con un po' di fortuna, ci crederanno."
Il mio piano era un azzardo, una follia. Supponendo che i soldati non si conoscessero tutti personalmente, avevo l'intenzione di fingermi uno di loro e di avere così accesso all'Osservatorio.
Affiancato da Johan, bussai alla porta.
In quegli istanti d'attesa, mi venne in mente un curioso aneddoto.
Conoscete la roulette russa?
È un gioco d'azzardo che, in passato, andava molto in voga negli ambienti criminali.
Il gioco consiste nel posizionare un solo proiettile in un revolver, ruotare velocemente il tamburo, chiudere l'arma da fuoco senza guardare e puntarla verso la propria testa, premendo il grilletto.
Ciò significa che, se la camera di scoppio è vuota, è il nostro giorno fortunato.
C'è una versione leggermente più audace di questo gioco, che consiste nel lasciare una sola camera di scoppio vuota.
Vale a dire che, se il fortunato giocatore sei tu, cinque volte su sei passi a miglior vita.
Quello era il gioco che stavo facendo io.
Di fronte a quella dannata porta, avevo appena puntato la metaforica pistola alla mia tempia.
A quel punto, bisognava solo capire se, una volta premuto il grilletto, la testa mi sarebbe esplosa.
Attesi circa dieci secondi senza respirare, dopodiché uno scatto metallico mi annunciò l'arrivo di qualcuno.
Un soldato aprì la porta.

The EndDove le storie prendono vita. Scoprilo ora