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Quando ero piccolo mia mamma mi ripeteva spesso una frase.
«Gli uomini sono come le meduse: vanno dove li porta la corrente.»
Pensateci. Pensate alla società che conoscete, che presumo simile a quella in cui vivevo io.
«Quell'attore famoso porta i jeans a vita bassa? Accidenti, devo farlo anche io.»
«Quel cantante ha detto che il cielo è infinito? Diamine, l'ho sempre detto.»
«Quel politico odia le donne? Che schifo le donne.»
Ecco cosa è la società. Un dannato gregge di pecore.
Un antropologo francese che visse a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, Gustave Le Bon, sosteneva che i singoli componenti di una massa di persone acquistassero una sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere a quella massa.
Credo che in questo momento vi stiate chiedendo se ciò che ho vissuto mi abbia reso pazzo; vi giuro che no, non sono pazzo, anzi.
Ciò che voglio dire è che quella mattina avevo capito una cosa. Avevo capito che, se volevamo sopravvivere, dovevamo uscire dal gregge.
Seguire le altre persone significava creare un'alleanza, è vero, ma significava anche andare tutti incontro alla stessa sorte: morire sotto il fuoco cadenzato dell'esercito.
Mi svegliai con una nuova consapevolezza. Non sapevo dove andare, non sapevo in che modo, ma sapevo come potevamo sopravvivere: distinguendoci.
Guardai l'orologio. Erano quasi le sei di pomeriggio.
Svegliai gli altri e ci preparammo ad uscire dall'ascensore. Rachel mi aiutò a togliere la spranga, poi premette il tasto di discesa.
Qualcosa mi diceva che fuggire dai sotterranei era un buon modo per evitare i militari.
La porte si aprirono cigolando, e rivelarono un ambiente buio e inospitale.
"Benvenuti sottoterra." dissi, ironicamente.
Rachel si guardò intorno e schioccò la lingua. "Cerchiamo di restarci il meno possibile." disse.
Camminammo sui binari della metropolitana. Io e Jeffrey facevamo strada con una torcia, mentre Zeta e le ragazze ci coprivano le spalle. Anubi procedeva silenzioso al mio fianco.
Sentii un rumore e mi bloccai, imitato dagli altri.
Trattenni il fiato, sentendo la pulsazione cardiaca danzarmi nel petto. Spensi la torcia. Il rumore si ripeté. Mi ricordava il suono spezzato di un neon difettoso.
Il respiro trattenuto a stento cominciò a tremarmi in gola. Sapevo cosa stava per succedere.
Ci avevano trovati.
Sollevai silenziosamente la mitragliatrice in direzione del rumore. Se la penombra mi avesse offerto abbastanza aiuto, avrei sparato senza esitare.
Qualcosa si mosse. Sentii le lacrime affiorarmi e ricordai quando, da piccolo, ero terrorizzato dal buio.
Adesso non avevo coperte sotto cui nascondermi. E i miei genitori non sarebbero arrivati ad abbracciarmi. Improvvisamente, sentii la loro mancanza. Credo che quello sia stato il momento in cui ho realizzato pienamente che non li avrei mai più rivisti. Se non fossi stato spaventato, avrei pianto per loro.
Il rumore si presentò per la terza volta. Più vicino.
Capii che, se non avessi agito subito, ci avrebbero sparato per primi. Accessi la torcia.
Il cono di luce proiettò lunghe ombre intorno a noi e poi puntò su ciò che ci attendeva nelle tenebre.
Un topo. Era solo un maledetto topo. Senti Jeffrey ridere, seguito da Zeta.
"Me la sono fatta sotto." disse mio fratello. Sorrisi anch'io. Buon sangue non mente.
Superato il piccolo roditore, ci avvicinammo ad una luce rossa.
Il generatore di emergenza illuminava una piccola scritta al di sopra di una porta: EXIT.
Spinsi il maniglione antipanico e ci trovammo in una stanza completamente spoglia, fatta eccezione per una struttura in acciaio che conteneva una scaletta.
Salii per primo, seguito da Jeffrey. Quando fummo in cima, con un intenso lavoro di squadra e la collaborazione di Zeta, riuscimmo a tirare su Anubi.
Una volta arrivati tutti, ci guardammo intorno.
Eravamo spuntati nel garage di un condominio, dietro a due furgoni bianchi.
Regnava un silenzio di tomba. Raggiungemmo le scale e salimmo fino in cima. Contai ventidue piani, ma penso fossero di più, perché quando arrivai all'ultimo ero stremato.
"Potremmo sistemarci qui per la notte." disse Trix. "Sono scappati tutti, è completamente disabitato. Inoltre, avremmo abbastanza tempo per levare le tende, nel caso decidessero di fare irruzione qua dentro."
Eravamo tutti d'accordo.
Mi avvicinai alla porta dell'appartamento di sinistra, pensando a come forzarla.
Non ce n'era bisogno: gli inquilini se n'erano andati senza nemmeno chiuderla.
Osservai l'interno dell'abitazione. Era in ordine, confortevole. Sembrava che i legittimi proprietari dovessero rincasare dal lavoro da un momento all'altro.
Vidi Rachel con una foto incorniciata fra le mani e mi avvicinai.
"Stai bene?"
Lei annuì, ma sapevo che mentiva.
"Vieni con me." le dissi.
Prima di entrare nell'appartamento, avevo visto una porta che dava sull'esterno. Precedendo Rachel, la aprii. Ci trovammo su un terrazzo ampio e deserto.
La portai fino all'estremità, dove il vento che sferzava i nostri corpi sembrava essere l'unica forza ad impedirci di precipitare duecento metri più in basso.
Guardammo all'orizzonte. Le nuvole torreggiavano sulla campagna dove fino a poche ore prima si era consumata tutta la nostra vita. Il poco sole che riusciva ad attraversarle ci accarezzava i volti con un piacevole tepore.
Alte colonne di fumo si levavano in diverse zone della città, accompagnate dagli incessanti ululati delle sirene e dalle raffiche di proiettili. Potevo sentire il rumore della mia mente che si sgretolava nella sua incessante corsa verso la follia. Rachel disse qualcosa. Non ero nemmeno sicuro che lo stesse dicendo, perché sembrava avermi letto nel pensiero.
"Sembra che la guerra più grande sia là fuori, ma non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella che imperversa qui." disse, toccandosi il cuore.
La presi per mano. Lei mi guardò. Un raggio di sole le colpiva gli occhi, facendoglieli brillare come pietre preziose. La sua pelle chiara aveva assunto il colore del tramonto, mentre i capelli mossi dalla brezza le ricadevano dolcemente sulle spalle. Eravamo vicini, così vicini che potevo sentire il suo respiro unirsi al mio.
È vero, forse i nostri cuori erano attraversati da una spietata consapevolezza di morte, ma noi eravamo ancora quei due perditempo con il vizio di intercettare le chiamate dei vicini.
"Se un giorno tutto questo sarà finito e noi ci saremo ancora, ti confesserò una cosa" le dissi.
"Quel giorno ti confesserò la stessa cosa anche io." rispose.
Le sue labbra piene si incresparono in un sorriso, ed io persi per un attimo la cognizione del tempo e dello spazio.
Uno sparo, molto più vicino degli altri, spezzò quella magia.

The EndDove le storie prendono vita. Scoprilo ora