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Ho sempre dato un particolare peso ai sogni.
Credo che rappresentino la congiunzione fra la realtà e l'avvenire, una sorta di premonizione. Quel che so è che la parte non cosciente del nostro cervello percepisce più di quanto voglia farci sapere, come se la nostra testaccia si divertisse a conservare dei segreti.
Quella notte dormii con un solo occhio, tanto era il timore che la porta di ingresso venisse sfondata improvvisamente. Però riuscii a sognare.
Sognai di essere in un parco, un parco in cui mi si avvicinava una donna incappucciata. Il sole mi impediva di vederla in faccia, ma sapevo esattamente di cosa si trattava: del mio subconscio.
«Attraverso le siepi c'è un cancello verde in ferro battuto.» disse.
Non avevo idea di cosa quella frase significasse e glielo feci presente, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.
Lei scomparve. Davanti a me c'era uno strettissimo passaggio creato fra due alte siepi.
Imboccai il sentiero e, dopo alcuni passi, mi accorsi che quest'ultimo cominciava una lieve discesa verso il basso.
A qualche metro di distanza, scorsi il cancello verde. Si aprì. Ne uscì un ragazzo, anche lui incappucciato.
Indossava un felpa a triangoli gialli, rosa e neri, e puntava dritto nella mia direzione.
Ci incrociammo a metà strada. Quando pensavo ormai che mi avrebbe superato nella più totale indifferenza, mi cinse un braccio.
Non alzò la testa, ma lo sentii dire qualcosa.
«Non fidarti della K.»

Aprii gli occhi. Doveva essere molto presto, perché gli altri dormivano ancora e dalle tende filtrava pochissima luce. Ci eravamo sistemati come potevamo; Rachel e Trix dormivano nel letto matrimoniale, Jeffrey sul divano in salotto ed io e Zeta sul divano-letto nella stanza degli ospiti. Avevamo sbarrato la porta di ingresso con un pesantissimo mobile di mogano.
Avevo in bocca il sapore di... un sogno? Improvvisamente ricordai.
Non fidarmi della K? Che diavolo significa?
Con gli occhi puntati sul soffitto, passai in rassegna tutto ciò che mi ricordasse la lettera "K", ma non mi venne in mente un granché.
Mi alzai e scostai leggermente una delle pesanti tende che coprivano la vetrata. Anubi mi si avvicinò. Guardai in basso.
Stava arrivando un blindato dell'esercito. Era un furgone più basso e largo di quelli classici, con ruote così larghe che non mi sarei stupito a vederlo procedere lungo un muro perfettamente verticale.
Pensavo che ignorasse completamente il nostro palazzo così come aveva fatto con gli altri, ma non fu così.
Il veicolo inchiodò proprio sotto ai miei piedi e fece scendere otto militari con le armi spianate.
"Oh, merda..." dissi.
Stavano venendo a prenderci.
Il primo istinto fu quello di gridare, ma mi resi conto che, se fossimo stati silenziosi, i soldati non avrebbero raggiunto subito il nostro piano e avrebbero controllato appartamento per appartamento. D'altronde non erano al corrente della nostra presenza.
Svegliai gli altri e ci preparammo alla fuga. A differenza della sera precedente, spostammo il mobile in mogano come se fosse una piuma.
"E adesso dove andiamo?" chiese Rachel. Dubbio lecito, dal momento che non potevamo né scendere, né salire.
Non c'era via di fuga. Dovevamo affrontarli.
Guardai Jeffrey.
"Sono in otto. Come pensi che si muoveranno?" gli chiesi.
"Si divideranno a coppie di due. In quel modo controlleranno due piani a volta."
Sembrava che anche nel palazzo si fosse attivato un generatore di emergenza, poiché l'ascensore alle nostre spalle, fino a quel momento in disuso, tornò attivo.
Zeta mi toccò una spalla.
"Ho un'idea." disse.
Era un'idea grandiosa, ma la fortuna avrebbe dovuto aiutarci.
Chiesi a Jeffrey un fumogeno ed una granata. Nel cinturone della sua uniforme li aveva entrambi. Mi spiegò come usarli e per un istante mi sentii il folle protagonista di un dannato videogioco.
Ma sapevo che nella vita reale era molto più probabile saltare in aria per un errore.
Attesi di sentire il rumore dei soldati al piano terra, poi tolsi la linguetta del fumogeno. Aprii la porta dell'ascensore e lanciai il piccolo cilindro rosso all'interno, poi premetti il tasto "0".
Le porte interne dell'ascensore si chiusero e la cabina scese.
Guardai il piccolo display con il numero del piano e lo intepretai quasi come un conto alla rovescia.
5...4...3...2...1...
Era arrivato.
Mi immaginai i volti dei soldati trasformarsi in un ghigno sorpreso, convinti di veder uscire un perfetto idiota dalla cabina.
Me li immaginai spalancare la porta di colpo e aprire il fuoco nel fumo, meravigliati per essere caduti in trappola.
Sentii gli spari impazzare. Era il momento. Se avevamo fatto bene i nostri conti, adesso erano avvolti dalla nube tossica del fumogeno, completamente disorientati.
Tolsi la linguetta dalla granata e guardai in basso, attraverso la tromba delle scale.
Un fumo denso si innalzava verso di noi.
Lasciai cadere la granata.

The EndDove le storie prendono vita. Scoprilo ora