Tre

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Giorno 3
12 Ottobre

MAIA

Alla testa che gira, lo stomaco pieno di liquidi e il senso di nausea dopo una sbornia c'ero abituata, forse più di quanto mi piaceva ammettere e quella mattina feci del mio meglio per ignorarli tutti, quei sintomi.

Appoggiai i piedi sulle mattonelle fredde della mia camera da letto, mi sforzai di camminare fino alla cucina, mi feci un caffè e aprii le persiane verdi scolorite dal salmastro.
Persi un po' di tempo raggomitolata su una sedia godendomi i raggi del sole mattutini che filtravano dal vetro della finestra e mi riscaldavano la pelle ancora abbronzata.

L'orologio segnava le 10.30 e in mezz'ora sarei dovuta essere in biblioteca poiché iniziava il mio turno. Cercai di fare tutto il più velocemente possibile evitando i vecchi scatoloni pieni di libri impilati nel corridoio e i vestiti sgualciti e sempre umidi ammucchiati vicino alla lavatrice che, come al solito, perdeva acqua e sapone.

Alla fermata di via Mazzini il pullman ripartì proprio nel momento in cui svoltai l'angolo con il fiatone e le gambe doloranti a causa della corsa. Imprecai e mi passai una mano fra i capelli sentendo con i polpastrelli il finissimo strato di sudore che si era creato sulla fronte.

Dopo aver ripreso fiato cominciai a camminare a passo veloce, come se la strada si fosse potuta accorciare man mano che i miei passi diventavano più veloci e più violenti contro l'asfalto crepato.

All'entrata della biblioteca evitai la scrivania della responsabile del mio settore che avrebbe sicuramente dato di matto per i miei dieci minuti di ritardo e, dopo essermi passata una mano sul viso ed essermi tirata indietro i capelli che mi ostacolavano la vista, mi sedetti finalmente alla mia scrivania ed accesi il computer per poi iniziare ad archiviare alcuni vecchi libri.

Il tempo sembrava non passare più ma in qualche modo arrivarono anche le 12.30, l'ora della pausa pranzo.

Essendo uscita di casa in fretta e furia quella mattina non ero riuscita a prepararmi niente da mangiare e dovetti accontentarmi di passare il tempo libero a disposizione seduta sugli scalini freddi dell'edificio a guardare i piccioni che di tanto in tanto trovavano qualche briciola al suolo.

Anche in quel momento il tempo sembrava non passare più mentre la fame mi faceva attorcigliare lo stomaco.

Mezz'ora dopo decisi di andare a prendere un caffè, sperando che quello potesse risolvere il problema con il mio stomaco a digiuno. Mi alzai pulendomi i jeans, scesi gli ultimi scalini bianchi consumati dal tempo e quando rialzai la testa una figura catturò il mio sguardo.

Se ne stava lì, appoggiato ad un palo della luce, il cappuccio nero a coprirgli la testa rasata e una sigaretta fra le labbra che faceva penzolare fra un tiro e l'altro.

Mi guardava come si guardano i nemici, che vanno studiati da cima a fondo cercando, nell'ignoto più totale, ogni punto debole, ogni particolare azione quotidiana utile alla loro neutralizzazione. 

Il nemico si osserva prima di affrontarlo di petto, il nemico si capisce, si ammira, si studia come si studierebbe un idolo, il resto viene da sè. Una volta che ti sei calato nei suoi panni lo potrai distruggere poiché quello che pensa lui passerà prima dalla tua testa e dalla tua psiche. Il rischio però, è sempre quello di perdere davvero la propria identità.

I panni del nemico vanno indossati con una certa risolutezza, sempre accompagnata dalla consapevolezza che i propri panni, quelli veri, quelli tuoi, stanno sempre sotto, come una seconda pelle. Se cedi al pensiero di essere sempre stato come il nemico, il rischio è quello di perdere la tua vera identità e forse niente potrà riportarti la persona che eri.

Mex mi guardava come se volesse indossarli davvero i miei panni, ma restava comunque dall'altro lato della strada mantenendo la sua identità, facendomi capire che stavamo su due mondi diversi.

La terra mi trema sotto ai piedi se mi guardi così, perché poi lo so che tu mi capisci davvero. E sarò io a venire da te Mex, perché sono nata insoddisfatta, infelice e ingrata, non ci riesco io a stare nei miei panni, mi attraggono sempre di più quelli degli altri.

Mi avvicinai attraversando la strada e calciando qualche sassolino scuro sull'asfalto.

«Cos'hai da guardare?» domandai con diffidenza.

Alzò le spalle ma tenne le labbra ferme attorno alla sua sigaretta.

«Puoi anche rispondermi sai?»

Fece un ultimo tiro ed esalò il fumo, sbuffai scocciata .

«Ho capito» gli diedi le spalle e senza guardare feci due passi immettendomi in strada.

Non vidi la macchina scura che stava arrivando alla mia sinistra, come non vidi Mex buttarsi in mezzo alla strada, come non sentii le sue mani spingermi in avanti, fuori dalla traiettoria della vettura che mi sembrò accelerare invece che fermarsi.

Sentii però il dolore acuto della pelle che si lacerava al contatto con l'asfalto, il rumore sordo del parabrezza che si crepava sotto al peso di un corpo, i miei respiri spezzati intervallati da gemiti di dolore.

E anche in quel momento il tempo passava troppo lentamente, i miei movimenti erano troppo lenti e le bruciature causate dall'asfalto mi impedivano di raggiungere il cellulare nella tasca posteriore.

Capii in un secondo momento che quello che era stato investito era lui, era Mex.

Giaceva sulla strada a qualche metro di distanza da me e il sangue scarlatto che gli colorava la faccia appariva ai miei occhi come un chiaro campanello d'allarme che, nonostante il mio corpo danneggiato, mi spingeva a strusciare verso di lui, lasciando alle mie spalle una scia di sangue.

Sentii la polvere e lo sporco sotto le mie dita mentre mi trascinavo verso il corpo di Mex, ancora vivo sull'asfalto.

Al suo fianco sembrava tutto più reale, anche quel sangue che ci circondava, che ci macchiava i vestiti e scivolava sulla nostra pelle come acqua. E mentre toccavo il suo viso livido lasciai che le lacrime mi bagnassero il collo e la maglietta.

Le mie dita fredde trovarono presto il suo polso per cercare un flebile battito e la mia testa si appoggiò sul suo petto macchiando il cotone nero della sua felpa.

Mosse le palpebre un paio di volte prima di chiuderle definitivamente e rilassarsi al suolo. Lo seguii poco dopo in quel nero che si portava via tutto, il suo viso di sangue, il suo polso silenzioso, i respiri spezzati, il dolore totale.

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora