Ventotto

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Giorno 46
30 Novembre

MAIA

Corsi in macchina, strofinai le mani una contro l'altra e accesi il riscaldamento. Il cellulare nella tasca del mio cappotto iniziò a suonare e, dopo aver guardato il nome illuminato sullo schermo, risposi riluttante.

«Dimmi»

«So che hai finito di tenere a bada i mocciosi, vieni da me»

«Mex, devo tornare a casa da mia madre»

«Sopravvivrà due ore senza di te»

Sbuffai, non aveva senso ribattere, l'avrebbe avuta comunque vinta lui, tanto valeva che lo accontentassi subito.

«Se mi fai venire lì per una cazzata ti giuro che mi arrabbio»

Lo sentii ridere «Muoviti»

Nel tragitto dai condomini di lusso a quelli un po' più sciupati dal tempo e trascurati, dove entrambi abitavamo, iniziò a diluviare. Le strade cominciarono ad allagarsi, un problema che in quella città persisteva da sempre ma che non era mai stato risolto.

Parcheggiai poco lontano dal condominio in cui abitava Mex e i pochi metri che percorsi furono abbastanza per farmi inzuppare d'acqua dalla testa ai piedi. Sentii l'aria fredda sulla cute bagnata, e goccioline d'acqua scivolare lungo il collo, bagnando la maglietta sotto al cappotto. Maledissi la sua testardaggine e la mia inclinazione a seguirlo sempre, qualunque cosa facesse.

Varcai la soglia sbuffando infastidita e scuotendo la manica del giaccone nell'estremo tentativo di togliermi la pioggia di dosso, mentre lui mi guardava divertito.

«Sei uno stronzo, un fottuto stronzo, anche perché tanto lo so che non hai niente di così importante da dirmi, ma mi hai fatto bagnare lo stesso»

«Spero di poterti far bagnare un sacco di altre volte» ammiccò.

«Sei proprio un coglione, dai su, dì quello che mi dovevi dire, mi sto innervosendo»

Mi tolsi il cappotto marrone e lo guardai «Oh e avrei bisogno di un phon, grazie»

Scomparve in un'altra stanza per poi tornare stringendo in mano un phon nero cosparso di scritte rosa e brillantini. Lo guardai perplessa e lui scosse la testa.

«Non guardarmi così, è di Sara»

Annuii e, mentre mi asciugavo, lo lasciai parlare.

«Fra quattro giorni la svegliano, vorrei che tu venissi con me»

Inarcai un sopracciglio «Tutto qui? Non potevi mandarmi un messaggio?»

Mi guardò torvo e si sedette sul divano nero di pelle «Maia, è importante»

«Il fatto che io ci sia o che la risveglino?»

«Entrambi»

Scossi la testa «Continuo a non capire perché dovrei venire anche io»

«Perché tu la conosci, e conosci anche me. Sei l'unica amica che potrebbe avere qui»

«Non penso che voglia vedermi»

Mex mi guardò e fece un lieve cenno con la testa, poi iniziò a parlare prima che io potessi cambiare discorso.

«È venuta a cercarti, non è vero?»

Annuii «E io l'ho mandata via»

Lasciai l'asciugacapelli sul tavolino da caffè e mi sedetti sul divano accanto a lui.

«Mi dispiace di non averla aiutata, di non averti aiutato. Pensavo che sarebbe stata l'ennesima stronzata che ci avrebbe trascinato di nuovo in un mare di problemi»

Si rilassò sul divano e allungò un braccio sullo schienale dietro di me «È per questo che poi sei venuta all'ospedale?»

Abbassai lo sguardo «In principio sì, mi sentivo in colpa»

«Quindi non sei tornata per me?» chiese in modo calmo e controllato.

Aspettai qualche secondo prima di rispondere, scartai le bugie e i discorsi complicati che non ci avrebbero portato da nessuna parte. Optai per una verità limpida ma filtrata, attenta alle parole che scivolano veloci come ti fa fare il muschio sulle rocce.

Lo guardai, non devi ridere, non mi prendere più in giro.

«Non volevo più vederti perché un po' mi vergognavo di quello che era successo la notte che ho dormito qui, io sono stata immatura e tu ne hai approfittato. Quando Sara si è presentata a casa mia chiedendomi aiuto perché tu avevi bevuto più del solito io ho rifiutato. Lei insisteva ma io non potevo farlo, non potevo presentarmi a casa tua e dirti cosa era giusto e morale fare e cosa invece no»

«Lei se n'è andata e io ho pensato che avevo fatto finalmente la cosa giusta» lo guardai «Volevo aiutarti, lo volevo davvero, ma non potevo ripresentarmi a casa tua e non sapevo nemmeno se mi avresti ascoltato. Il giorno dopo ho provato a chiamare sia te che Sara ma nessuno dei due rispondeva, così ho deciso di venire direttamente qui e quando sono arrivata la macchina carbonizzata stava sempre lì vicino al marciapiede, la zona era transennata...»

La mia voce si fece più flebile,

«Un carabiniere mi ha detto quello che era successo e sono andata direttamente all'ospedale. Non ho mai smesso, non vi ho mai lasciati soli»

Aspettai che mi urlasse in faccia quanto ero stata stronza a non aiutare sua sorella, quanto ero codarda perché avevo provato a nascondermi da lui in ospedale e quanto ero bimbetta perché mi ero lasciata abbindolare per una notte, Non lo fece, non fece assolutamente niente se non guardarmi mentre io cercavo di evitare il suo sguardo.

Con il pollice e l'indice mi afferrò il mento immobilizzando il mio volto sui suoi occhi. Le scintille salirono lungo la schiena e iniziarono a scoppiettare dappertutto.

Appoggiò l'altra mano sulla mia coscia mentre faceva scorrere la prima sul mio collo e avvicinava il suo volto.

Basta scherzi, fermati dove sei. Non ti avvicinare più per farmi del male.

La sua mano salì lentamente accarezzando la pelle coperta dai jeans e si fermò sul mio fianco. Con un gesto trascinò il mio corpo sulle sue gambe e, una volta a cavalcioni su di lui, cercai di mantenere un'espressione seria e non dischiudere le labbra.

Il mio stomaco era in fiamme e sentivo le guance bruciare. Fuoco su fuoco.

Le sue dita sfiorarono il mio collo un'ultima volta e la sua mano tatuata scese lungo la mia schiena per poi fermarsi sul mio fondoschiena, mi avvicinò ancora un po' al suo busto finché i nostri petti non si toccarono. Lasciò andare un respiro di sollievo e la sua espressione si fece meno tesa.

Le sue braccia circondarono i miei fianchi e la sua testa si appoggiò sul mio petto mentre mi stringeva a sé.

«Grazie per essere tornata» sussurrò fermo in quella posizione stranamente piacevole.

Il fuoco non diminuì ma trovò il suo equilibrio e io ricambiai l'abbraccio accarezzandogli piano la testa.

I sentimenti nascosti fanno male anche ai cuori forti come i nostri. Se mi stringi un po' più forte forse mi dimentico di tutti gli abbracci che mi hanno negato.

Mi ha abbracciato perché sono un'amica. La sua amica. La sua.

Mi convinsi che una sterile amicizia era tutto ciò che volevo da lui, che mi andava benissimo anche così. Bastava che continuasse ad abbracciarmi, ad accarezzarmi, a farmi sentire importante. Bastavano le scintille, le stelle nello stomaco, non importava il fuoco, l'inferno che mi si scatenava dentro.

Non doveva sempre essere passione, bastava l'amore delicato dell'amicizia.

Appoggiai le labbra sulla sua fronte e sperai che quel momento non finisse in un'altra lite o in un altro errore da commettere ed espiare, il giorno seguente.

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora