Giorno 14 (parte 1)
28 OttobreMAIA
Piegai accuratamente tutte le maglie a maniche corte che Angy mi aveva portato in ospedale dopo aver saputo che il mio ricovero sarebbe durato più di mezza giornata, infilai la mia felpa grigia preferita e chiusi il borsone per poi buttarlo, con poco riguardo, sul pavimento ai miei piedi.
Mi sedetti sul bordo del letto lasciando che le gambe penzolassero nel vuoto mentre aspettavo che il dottor Valli tornasse con tutti i miei documenti e i fogli da firmare per le dimissioni.
Pensai agli ultimi quattro giorni e al fatto che, in fondo, lasciare quell'ospedale mi dispiaceva, anche se non lo volevo ammettere, anche se avevo giurato che lo avrei odiato.
In quei giorni la routine era stata sempre la solita, giorno dopo giorno.
Sveglia alle 9.00, colazione alle 9.30, la psicologa dalle 11.00 alle 12.00, pranzo, visita di Angy dalle 14.30 alle 16.00 e lo scorbutico, tatuato, atletico, fastidioso, tamarro alle 18.00 sul balcone polveroso dell'ala est.
Ci mangiavamo a parole ogni volta, io e Mex, cercando di infastidirci a vicenda. Un continuo scambio di domande e risposte, talvolta irritanti.
Nonostante tutto però, riuscii a cavargli di bocca qualche informazione a proposito di lui, di ciò che odiava, di ciò che amava e dei suoi tatuaggi, mescolato a qualche discorso sul femminismo che io riuscivo a mettere in mezzo ogni volta.
In qualche giorno avevamo sfondato le barriere l'uno dell'altro senza accontentarci mai e scavando sempre un po' più a fondo. Forse però avevamo superato pure il limite perché ogni volta non ci bastavamo mai, non ci bastava il tempo, l'aria che ci circondava, le frasi incensurate delle nostre anime affamate.
Era proprio questo il motivo per cui avevo deciso di non dirgli che mi dimettevano, che tornavo a casa. Sarebbe finita lì fra me e lui, avevo deciso così. E siccome non mi interessava la sua opinione al riguardo pensai che dirgli addio sarebbe stata solo una perdita di tempo.
Preferivo non guardarlo negli occhi salutandolo per l'ultima volta, preferivo scappare come una codarda, perché tanto lo sapevo bene anche da sola che i suoi occhi neri mi avrebbero pietrificato e ammaliato lentamente, costringendomi a non andarmene, a stare lì, con lui.
Il dottor Valli entrò nella stanza a passo felpato.
«Allora Maia, siamo pronti a lasciare questo ospedale?» annuii in silenzio cercando di essere il più convincente possibile.
L'uomo cominciò a farmi tutte le raccomandazioni ricordandomi come e quando prendere le medicine e le vitamine, medicare le ferite e andare tre volte a settimana dal signor strizzacervelli.
Non smisi un attimo di annuire tenendo lo sguardo fisso sulla penna infilata nel taschino del camice bianco e sulla cartellina che stringeva al petto, quella in cui dovevano stare tutti i miei fogli.
«Posso firmare?» chiesi impaziente.
«Certo, adesso puoi firmare» rispose allungandomi i fogli e una penna.
Le mani tremavano mentre sentivo che mancava qualcosa: un addio che rimbombava nella testa e faceva vibrare la mia cassa toracica ammaccata.
Una volta che mi ebbe salutato lasciandomi tutti i numeri di telefono necessari in caso di bisogno, afferrai il mio borsone e uscii dalla mia stanza percorrendo il corridoio.
Decisi di prendere le scale e riuscii a scendere fino al primo piano senza troppi sforzi. Il vero fastidio arrivò dal primo piano al piano terra, sia fisico, che mentale quando mi accorsi di avere davanti la sorella di Mex.
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ADESSO CHE NON CI SEI
Romance(IN CORSO) Maia ha diciannove anni ed è irreparabilmente infelice, non accetta niente della vita in cui è rinchiusa e, come spesso accade ai giovani, ogni occasione è buona per criticare tutto ciò che non va, ignorando l'esistenza del lato positivo...