Ventiquattro

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Giorno 41
25 Novembre

MAIA

'Sembra che tu debba tornare qui, hai dimenticato la tua sciarpa' era ciò che recitava il messaggio, nero su bianco.

Il nome Alec brillava sullo schermo. Un fulmine a ciel sereno.

Cominciai a camminare nervosamente per la stanza, impaurita e piena di vergogna. Ricordavo nitidamente l'ultima volta che ci eravamo visti: su un letto a spogliarci di ogni vergogna, di ogni spazio d'aria a dividerci. Poi lui se ne era andato ed io ero stata lasciata da sola a riempire i vuoti delle mie centomila domande.

Mi chiesi come si fa a trovare il coraggio giusto, la spinta perfetta per fare ciò che abbiamo paura di fare. Non l'avevo mai capito e forse non lo avrei capito mai. Potevo solo lasciare che l'ansia mi corrodesse la bocca dello stomaco.

Che figura di merda, ma che ci vado a fare? Per farmi ridere in faccia? , pensai mordendomi le unghie e sferrando un calcio alla borsa abbandonata a terra ai piedi della scrivania bianca, unico ricordo degli anni del liceo.

Nei momenti d'ansia, all'epoca, mi ripetevo semplicemente "dai, ce l'hanno fatta tutti, perché non ce la dovresti fare?"

Ma non mi era mai capitato di avere un qualcosa con un ragazzo e di morire d'ansia all'idea di doverlo rivedere dopo averci pomiciato una sera a casa sua. Non erano il tipo di cose che succedevano ad una Maia sedicenne.

La mia bella cotta per il ragazzino della scuola ce l'avevo avuta, ma lui non mi aveva mai rivolto nemmeno uno sguardo, figuriamoci baciarlo mezza nuda.

Cercai di prepararmi un discorso che avesse un filo logico nel vano tentativo di evitare momenti di silenzio o di balbettamenti alla ricerca delle parole giuste. Parole che poi mi venivano sempre in mente solo dopo che la conversazione era conclusa.

Il pensiero di doverlo guardare negli occhi mi destabilizzava, soprattutto se lui avesse sfoggiato quel suo solito sorrisino da "vediamo ora dove arrivi. Sicuramente non alla mia altezza".

Alla fine mi decisi a dare un'ultima occhiata veloce allo specchio di fronte al letto, solo per constatare che i miei capelli erano un casino come sempre e il mio abbigliamento non dei più sensuali, afferrai la borsa da terra ed uscii di casa.

Il primo piano dell'ospedale, dove Mex era stato trasferito, era molto più accogliente del secondo, almeno lì non si aveva l'impressione che tutti stessero per dare l'ultimo saluto ai propri cari prima di passare a vita migliore.

Al primo piano c'era ancora tanta speranza.

Tenni lo sguardo rivolto verso il basso mentre percorrevo il corridoio, osservando le mie suole muoversi sul pavimento di gomma. Feci un cenno con la testa dal basso verso l'alto a Luca, a mo' di saluto. Lui mi rivolse un sorriso forzato, riconoscendo la mia espressione tirata che emanava ansia e insicurezza da tutti i pori. Mi lasciò fare, anche quando la mia mano, appoggiata alla maniglia della porta, esitò un momento prima di abbassarsi. Entrai senza fare rumore e trattenendo l'aria, quasi a nascondermi dai suoi occhi, una trappola da cui ormai non potevo più fuggire.

Lui mi sorrise spavaldo e io mi trattenni dal mollargli uno schiaffo sulla guancia ricoperta da una barba cortissima, di cui non si era preoccupato.

Mi fermai in fondo al letto stringendo in un pugno i manici della borsa.

«Sono qui, adesso voglio la sciarpa»

Scosse la testa e strinse la sciarpa rossa a sé. Con un movimento veloce della testa indicò la scomodissima sedia di plastica alla sua destra, ordinandomi di sedermi. Non mi opposi, mi accasciai su di essa e guardai le mie mani giunte appoggiate sulle gambe.

«Ti ho sentita ogni volta da quando mi hanno trasferito, sai? Pensavi fossi scemo?» chiese senza lasciare troppo spazio al silenzio.

«No, pensavo ti avrebbe fatto piacere una cosa così, senza impegni» risposi tutto d'un fiato, i miei occhi finalmente piantati nei suoi, in cui trovai una casa sicura.

«Ti definiresti una cosa senza impegni tu?»

Alzai le spalle «Mi era sembrato di capire che per te fossi solo questo»

«Perché non capisci mai un cazzo»

Spalancai leggermente gli occhi. La rabbia cominciò a farsi spazio a gomitate, lottando contro il dolore che, improvvisamente, le sue parole mi avevano provocato e che si mangiava tutte le parole che avevo in gola.

Gli occhi cominciarono a bruciare.

«E allora fammelo capire no? Dimmi cosa sono per te, così io mi comporto di conseguenza»

Lui notò il luccichio dei miei occhi ma non arrestò la sua invettiva.

«E certo, tu così te la giochi sul sicuro. Se ti facessi la stessa domanda, mi risponderesti?»

«No, non penso»

«Brava, allora perché mi fai una domanda del cazzo così?»

Ora basta, tirami i capelli, sputami o riempimi di calci e botte, ma non mi parlare più così. Non come se io non ci fossi stata, come se non mi importasse di averti accanto. Sono qui, stronzo, ch'hai qualcuno che lotta per te, che ti vuole per la merda che sei. Lo capisco, che non sono quello che volevi, ma non t'ho mai lasciato solo.

Il nodo alla gola si sciolse e la mia bocca si aprì per liberare tutto il veleno che avevo addosso.

«Mex, che vuoi? Perché noi possiamo anche fare finta di nulla, dimenticarci di tutto e continuare ognuno per la propria strada come fanno tutti i ventenni di questo mondo, ma entrambi sappiamo che l'età per queste cose ce l'abbiamo solo su carta. Siamo già grandi da un pezzo io e te. Te lo voglio dire chiaramente, io da qui non ci esco più»

Non mi accorsi nemmeno di quello che avevo detto; che in realtà eravamo ancora dei ragazzini me ne sarei accorta più tardi, perdendo tutto quello che avevo da perdere.

«Ti penti di qualcosa?» mi chiese senza sorridere.

«Io mi pento sempre di un sacco di cose, non vuol dire nulla» sibilai.

«E allora anche io ti voglio dire una cosa chiaramente, visto che sei così grande»

Sussultai «Cosa?»

«Che se è me che vuoi, mi devi prendere così come sono»

La sua espressione di indurì ancora di più, forse era davvero pronto a concedersi a qualcuno, prendendosi così a carico la paura di non essere accettato.

Non risposi. Mi avvicinai al suo letto e tesi la mano verso la sciarpa.

«Io di rimpianti non ne ho bimba» sussurrò in un ultimo tentativo di farmi parlare.

«La sciarpa» ordinai mantenendo un'espressione rigida, tradotta anche nel linguaggio fisico dalle mie spalle dritte e dal mio collo allungato.

Mi passò l'accessorio di lana rossa e io mi concessi un sorriso riconoscente.

«Grazie mille»

«Figurati»

Cercò i miei occhi ma io mi ero già avviata verso l'uscita.

Cosa stai facendo? Non sei stronza quanto lui, tu sei quella migliore.

Mi fermai all'improvviso, girai la testa ed accontentai i suoi occhi che, di nuovo, inglobarono il colore scuro dei miei.

«Mex?»

«Oh»

«Domani posso tornare?»

«Sì bimba, penso proprio di sì »

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora