Giorno 33
17 NovembreMAIA
Dicono che certe cose, quando succedono, te le senti dentro.
E io me la sentivo tutta quell'ansia che mi corrodeva lo stomaco, e se n'era accorta anche mia madre che, dopo avermi vista camminare su e giù per la cucina, mi aveva vietato di farmi un caffè che, secondo lei, avrebbe solo peggiorato la situazione.Alla fine il caffè me l'ero fatto lo stesso, cercando di non sopperire sotto i colpi della notte passata quasi insonne.
L'ansia era aumentata da quando avevo messo i piedi fuori dal letto ma questo non escludeva il fatto che era rimasta lì per tutta la notte, facendomi tornare i soliti incubi e facendomi svegliare ogni mezz'ora.
Uscii di casa e, camminando, non smisi di torturare la frangetta della sciarpa con le dita. Mantenni per tutto il tragitto lo sguardo a terra, mascherato da una calma apparente.
Poi svoltai l'angolo e non mi sembrò vero.
Non mi sembrarono veri quei nastri rossi e bianchi che tagliavano la strada, chiusa al traffico. Non mi sembrarono vere le sagome disegnate a terra col gesso bianco, lo stesso gesso che avevo strinto fra le dita per anni, di fronte a lavagne e professori; simbolo di cultura, sapere e istituzioni sicure.
Può davvero del gesso essere simbolo di conoscenza e allo stesso tempo tracciare le sagome della morte? Mischiarsi al sangue di qualcuno che non avrei voluto conoscere?È solo sangue, come quello di tutti gli altri; come il mio e come il suo.
Respira lentamente, ancora non lo sai cosa è successo, sicuramente non sono fatti tuoi, non sarà te che feriranno quegli uomini in divisa.
«Signorina, mi perdoni ma non può passare di qui, la strada è chiusa» disse un giovane carabiniere, gli occhi gentili e il sorriso di chi ha appena iniziato a lavorare.
«Cosa è successo?»
Si grattò il retro del collo in imbarazzo «Un'autobomba signorina»
Assimilai passivamente l'informazione e non me lo chiesi il perché, non ci riflettei nemmeno su quello che mi aveva appena detto, non ci pensai al fatto che non si era mai sentito dire di un'autobomba che esplode qui, in questa città così civile e tranquilla. Non mi chiesi molte cose, domande a cui sarei riuscita a rispondere anche da sola.
«Ci sono feriti?» chiesi inconsapevole della risposta.
«Questi sono dati riservati, non mi è permesso dirle niente»
«Andiamo, la prego, sono solo un'abitante del quartiere, vivo qui da sempre»
Lui fece un cenno con la testa perché tutti sanno come funziona nei quartieri popolari: tutto è uguale, tutto è famiglia. Non c'è un bambino senza nome o un matrimonio senza data. Volenti o nolenti, si sa tutto di tutti.
Si chiamano quartieri popolari proprio perché ci vive il "popolo", quello ignorante e nella maggior parte dei casi estremamente povero. E quel carabiniere, come gli altri, in fondo, mi guardava dall'alto in basso, pensando che fossi solo una delle tante giovani madri o la figliola di un portuale qualsiasi, che non si sarebbe potuto permettere l'appartamento in centro se non con il piccolo spaccio.«Due ragazzi, sono fratelli, ma sono già stati trasportati in ospedale»
La leggera brezza ghiacciata si trasformò in un mare in tempesta, tanto violento da smuovermi tutta, da far ribaltare lo stomaco, attorcigliare l'intestino e affogare il cuore.
L'acqua salata scivolò su tutte le ferite aperte, lasciate a seccare al sole.
Strinsi le mani in un pugno e mi morsi il labbro inferiore per non urlare, poi mi voltai e gli occhi cominciarono a pizzicare. Quando le lacrime mi bagnarono il collo capii che stavo piangendo.
Ignorai il tono preoccupato con cui il giovane in divisa si rivolse a me e ricominciai a camminare, veloce, verso la fermata del pullman più vicina.

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ADESSO CHE NON CI SEI
Romance(IN CORSO) Maia ha diciannove anni ed è irreparabilmente infelice, non accetta niente della vita in cui è rinchiusa e, come spesso accade ai giovani, ogni occasione è buona per criticare tutto ciò che non va, ignorando l'esistenza del lato positivo...