Ventisei

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Giorno 43
27 Novembre

MAIA

Mia mamma diceva sempre che certe situazioni vanno risolte e basta, non si può aspettare che le risolva qualcun altro, tanto non lo farà nessuno al posto tuo. Angelica sembrava aver preso la lezione alla lettera perché se ne stava giù, appoggiata al muro grigio nell'androne del mio palazzo marcio, piangendo e citofonando, nella speranza di parlarmi.

«Penso che dovresti farla salire, sta lì da un'ora» sentenziò mia madre preoccupata per quella ragazza che ormai era come una seconda figlia.

«Falla entrare, tanto sennò finisce che fracassa quel dannato campanello»

Mi sedetti a capotavola e l'aspettai. Era così che andavano risolti i problemi: seduti uno di fronte all'altro, rovesciando sul tavolo tutta la verità, tutte le opinioni e tutte le insicurezze.

La ragazza bionda varcò l'ingresso di casa con un fazzoletto usato stretto fra le mani, tirò su col naso e si sedette vicino a me.

«È da ieri sera che ti chiamo, sei una stronza»

«L'ultima volta che ho controllato la stronza eri tu»

Mia madre si affacciò dal corridoio «Angelica vuoi un caffè bello caldo?»

Lei scosse la testa «No, Marica, va bene così»

Scomparve, lasciandoci di nuovo al nostro confronto.

«Mi dispiace, avrei dovuto semplicemente ascoltarti, so che certe cose non le racconti facilmente. Voglio sapere la storia, tutta»

Le sue scuse bastavano, bastavano sempre, come il mio perdono, anche se più raro.

Le raccontai di ogni incontro all'ospedale, del libro, di quel primo bacio, di quella notte diventata rimorso, del nuovo ricovero all'ospedale , di Sara, delle mie prime visite nascoste e delle ultime alla luce del sole.

Lei disse che dell'autobomba sapeva tutto. Lei il coraggio di guardare il telegiornale ce l'aveva ancora ma non mi aveva mai detto niente perché aveva il sospetto che in me fosse scattato qualcosa, qualcosa che mi avrebbe legato al ragazzo che avevano cercato di far saltare in aria.

«Adesso però voglio quello che non mi hai detto Maia, voglio che tu mi dica cosa provi, non mi interessa sapere qual è il suo colore preferito»

Alzai le spalle «Cosa vuoi che ti dica? Sto bene, in genere»

«Maia, questa è una risposta perdi-tempo»

Le risposte perdi-tempo o prendi-tempo erano classiche risposte prefabbricate che dicevano tutti quando non avevano davvero altro da dire, quando volevano prendere tempo o quando volevano tagliare un discorso.

«Sto una merda, Angy, proprio una merda»

«Continua» sussurra gettando il fazzoletto nell'immondizia.

«Il problema sai anche tu qual è, non siamo abituate a stare bene, ci dev'essere sempre qualcosa che fa interferenza, quel bastone fra le ruote a cui siamo tanto abituate. Se qualcosa va bene, qualcos'altro deve andare male e io mi guardo intorno e ho quella strana sensazione che nulla possa andare male che mi fa ribaltare lo stomaco, mi ci viene proprio da vomitare, capito? È quella paura muta che ti fa venire le lacrime agli occhi dal nervoso e ti manda il cervello a puttane»

«E tu aspettalo Maia, aspetta che arrivi anche quel bastone fra le ruote e nel frattempo fai quello che vuoi, vivila sta vita che ti hanno dato, quando poi arriva il problema affronteremo pure quello, l'abbiamo sempre fatto. Se sai quello che vuoi, vattelo a prendere»

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora