Venticinque

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Giorno 42
26 Novembre

MAIA

Varcai le porte dell'ospedale molto più sicura di me, non c'era più bisogno di nascondersi. Sorrisi percorrendo il corridoio a testa alta finché non arrivai davanti alla camera di Mex, insolitamente vuota e sprovvista di qualunque tipo di sorveglianza.

«Scusi, per caso sa dove è stato portato Alec Casale della stanza qui davanti?» fermai un'infermiera che più volte avevo visto fare avanti e indietro per il reparto.

«Non ne ho idea, questa mattina era nella sua stanza, in ogni caso la scorta lo segue ventiquattr'ore su ventiquattro»

Da quando i pazienti possono girare per l'ospedale come se fossero ad un parco avventure?

Rientrai in camera notando che tutto era esattamente come l'avevo lasciato il giorno precedente, mancavano solo le sue scarpe. Non poteva essere lontano.

Dopo un paio di giri per il reparto, come un flash, mi apparse l'immagine di Sara, ancora tenuta sotto controllo in terapia intensiva.

Guardai l'orologio e constatai che eravamo in orario di visita, forse l'avevano fatto entrare.

Raggiunsi il secondo piano con il fiatone e feci appello alla mia memoria per ritrovare la camera di Sara, la numero 200.

Sussultai sorpresa quando lo vidi lì, davanti al vetro limpido, mentre fissava il corpo inanimato di sua sorella.

Mi bloccai. Forse avrei dovuto lasciargli quel momento intimo e farmi da parte per una volta, ma non ero mai stata brava a trattenermi e, prima che me ne accorgessi davvero, ero ad un passo dal suo corpo rigido. Le spalle erano abbandonate verso il basso, la testa leggermente piegata, la fronte aggrottata e le labbra leggermente aperte.

Lasciai cadere gli occhi sul suo busto e contemplai per un istante l'idea di avvolgerci le mie braccia e trascinarlo in un abbraccio di cui sapevo avesse bisogno. Ma non avevo il diritto di farlo e, in ogni caso, avrei premuto sulle ustioni ancora in via di guarigione provocandogli altro dolore. Allungai la mano e gli toccai la spalla.

Lui sussultò e si voltò verso di me, nei suoi occhi si accese una scintilla che non riconobbi, forse fastidio, forse piacere.

«Se vuoi posso andarmene, torno domani» sussurrai senza quel fastidioso tono dolce con cui si parla ai bambini. Una domanda indiretta che necessitava una risposta chiara e decisa.

«Resta. Magari mi dimentico che lei è ancora qui»

Allontanandosi dal vetro sia avviò verso l'ascensore. Lo seguii in silenzio ma non riuscii ad ignorare quella sensazione acida che arrivava quando le sue parole si affilavano e si conficcavano come lame nella delicata pelle della mia anima.

Una distrazione. Forse posso ridurmi a questo, ad essere solo e sempre una distrazione.

Ripensai alla conversazione del giorno precedente, a lui che mi diceva che se lo volevo dovevo prendermelo così come era, e me ne feci una ragione, accettai anche quelle parole, come tutte le altre, convincendomi che non le pensava davvero. I conti con il peso delle parole li avrei fatti più tardi, da sola, di notte, nella mia stanza, quando le avrei sentite rimbombare nella mia testa come in una galleria buia.

E mi potevo ridurre anche a quello: ad una galleria buia occupata in parte dalla sua figura. Lui se ne sarebbe stato lì nel mezzo sputando parole, che a volte avrebbero scaldato le pareti e altre volte le avrebbero graffiate e rotte. Ma attraverso le crepe entra sempre la luce, e io l'avrei lasciato fare, avrei lasciato che Mex rompesse tutti i miei confini, le mie barriere e le mie paure. Sarebbe stato la mia luce.

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora