Trentasei

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Giorno 66
20 Dicembre

ALEC

Fisso la striscia di sangue lasciata sul muro scrostato mangiato dal tempo, dall'acqua, dalle pallonate, dal piscio, dal vomito e dal sangue di chi qui ci ha passato una vita.

Poi abbasso gli occhi sul corpo disteso a terra ed esalo una nuvola di fumo.

Ho sparato tre colpi. L'uomo si è prima accasciato al muro per poi scivolare verso terra. La morte ha tracciato sulla parete il suo autografo: una striscia di sangue larga quanto una mano aperta, che dalla metà del muro arriva fino a terra.

Mi faccio un altro tiro tenendo a malapena la cartina bianca piena di erba fra l'indice e il medio. Le dita tremano, ma non per la paura. È la rabbia di dover fare cose che non mi interessa fare.

Ascolto bene tutti i fruscii. Sono rimasti solo quelli a riempire il cortile vuoto, le parole che poco rima lo popolavano si sono nascoste nelle cucine, nelle camere, nei salotti in cui è il telegiornale delle l'unico a fare rumore.

Sono scomparsi tutti, i bambini hanno abbandonato veloci il pallone di gomma correndo fra le braccia delle madri stipate ai fornelli. È quasi ora di pranzo. Percepisco gli occhietti vispi che timidamente si affacciano dai balconi, controllano il pallone e si sfidano a chi riesce a guardare più a lungo il morto.

Ciro mi lancia un'occhiata sghignazzando, lo sa bene che questa cosa non mi va giù, che sporcarmi le mani in questo modo non mi piace.

«Che è? Ti sei spaventato per un po' di sangue?»

«No, me fa solo schif'»

«Chill' struz' se lo meritava, 'o Messica' »

«Ij nun saccio niente, 'aggio fatto solo chill' che m'ha 'itt patemo»

«E hai fatto buono» annuisce convinto il mio migliore amico.

Guardo in alto verso le finestre che si affacciano sul cortile. Le persiane sono chiuse, con movimenti veloci si rintanano i curiosi. Codardi.

«Jamm' ja'»

«Chiamo a Nicole, mo' ce sta proprio 'na chiavata» dico ridendo e allungando la canna a Ciro.

Usciamo dal cortile calciando qualche sassolino e qualche cicca abbandonata al suolo. La Beretta è ancora calda a contatto con la mia pelle. La cintura la tiene stretta a me. È vagamente fastidioso.

«Mi sa che divento papà» in un italiano impeccabile, preciso, lineare.

«Ma che cazzo dici? C'hai sedici anni frate'»

«Eh, pure Marina, e allora? Che è? Te non te la chiavi a Nicole?»

«Si però mica la metto incinta stunz'»

«Eh vabbuò frate', ormai è andata»

«Quant'è?»

Mi fermo davanti alla Range Rover scura, gli prendo il mento e lo obbligo a guardarmi negli occhi.

«Due mesi» sussurra.

Mi giro verso un compagno di mio padre che si è improvvisato autista e che ci guarda aspettando che io salga in macchina con il mio migliore amico.

«Congratulazioni bro»

Afferro la sua felpa e lo attiro verso di me stringendolo in un abbraccio vero, uno dei pochi che ci siamo mai dati.

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora