Venti

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Giorno 32
16 Novembre

ALEC

«Alzati, siamo in ritardo» sentii Sara muoversi per la stanza, aprire dei cassetti e poi uscire a passi pesanti.

Rimasi con gli occhi chiusi, crogiolandomi nell'effimera speranza che lei se ne potesse semplicemente andare. Mi rigirai fra le coperte e mi rifiutai anche di sentire la sveglia che ricominciava a suonare per la quarta volta.

Mia sorella tornò poco e, senza esitare, mi rovesciò in pieno viso un bicchiere di acqua fredda, riempito fino all'orlo.

«Forse non hai capito. Siamo. In. Ritardo.» sibilò scandendo bene le ultime parole.

Inspirai forte ed iniziai a contare; non dovevo metterle le mani addosso.

Lei afferrò velocemente una felpa e un paio di jeans dal mio armadio e li lanciò sul letto.

«Vestiti, ti aspetto fuori dalla porta fra dieci minuti» ordinò uscendo dalla camera.

Feci, per la prima volta, ciò che mi aveva chiesto, nonostante non avessi ancora smaltito la quantità smisurata di sambuca con cui avevo riempito il mio stomaco solo quindici ore prima, perché sapevo che avevamo un appuntamento a cui non potevamo mancare. Una delle poche cose a cui ancora davo importanza.

Sara mi aspettò sul marciapiede fuori dall'entrata del condominio, appoggiata ad una delle tante macchine parcheggiate in divieto di sosta.

«Alle 9.30 dobbiamo essere in commissariato, Alec, cioè fra mezz'ora e abbiamo almeno venti minuti di macchina» sbuffò «Hai ventiquattro anni, penso sia l'ora che tu ti responsabilizzi un po'»

La guardai con la coda dell'occhio senza rispondere, se eravamo vivi e lei viveva in casa mia era solo grazie a me, che ero stato costretto a sbrigarmela da solo quando ancora ero un ragazzino.

Al tempo ero non avevo nessuno e vivevo per i giri di ronda delle 20.00, che guardavo sbirciando dalla finestra, non totalmente pronto ad accettare che a quel punto era solo lo Stato quello pronto a difendermi. Una consapevolezza che alla fine avevo accettato a denti stretti mentre cercavo negli occhi dei giudici, dei magistrati e dei militari l'ombra di un padre che non avevo mai avuto.

Superai la figura di Sara e camminai sul marciapiede verso la macchina, il cappuccio della felpa già tirato su a coprirmi la testa dal vento freddo di novembre.

«Alec aspetta» esclamò rovistando nella borsa, ferma sul marciapiede vicino al portone.

«Mi sa che ho dimenticato il portafoglio»

Mi girai e feci qualche passo verso di lei «E poi ero io quello in ritardo» sbottai infastidito.

«Zitto, che se me lo sono dimenticata è perché ero distratta da te»

Continuò a rovistare nella borsa per qualche secondo poi sbuffò e salì i primi scalini.

Ad aprire il portone non ci arrivò mai; un boato le impedì di farlo. L'onda d'urto fu così forte da farci spostare di qualche metro. Poi il resto fu veloce.

Tutto ciò che stava a terra si liberò nell'aria mentre sassi, terra e pezzi di alluminio cadevano su di noi, una coperta pronta ad assorbire tutto il sangue che mi macchiava i vestiti, la pelle e scorreva a terra.

Il primo dolore vero lo sentii alle orecchie, che iniziarono a fischiare talmente forte da portarmi ad urlare in lacrime. Poi iniziarono a bruciare gli occhi, i polmoni e le ferite aperte contro il marciapiede.

Non sentii gli antifurto delle macchine riempire l'aria, ma riconobbi subito l'odore dolciastro della carne bruciata.

Provai ad alzare la testa mentre la mia saliva mischiata al sangue e alla polvere colava per terra, feci leva sul braccio che sentivo ancora e assottigliai le palpebre.

ADESSO CHE NON CI SEIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora