Capitolo 42

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Nei giorni seguenti, come Luca mi ha suggerito, rimango a casa.
Mi rendo conto che, se in un primo momento avessi scartato la sua proposta, adesso essa si sia rivelata per me proficua perché, nelle condizioni in cui sono, non sarei mai riuscita ad affrontare una giornata al lavoro.
Il mio appartamento è un disastro, con il tavolino del salotto scorparso di fazzolettini e il disordine a far da regnante nell'ambiente. Il che, per una maniaca della pulizia e dell'ordine come me, significa che la situazione sia davvero grave.
Ho passato questi 4 giorni, stringendo il pupazzo di Lucia tra le mie braccia, come se potessi sentirla più vicina, ancora. C'è ancora il suo profumo impregnato e, per un attimo, ho avuto la sensazione di abbracciare lei, per davvero.

Ho paragonato il distacco da Lucia come all'elaborazione di un lutto. La fase di negazione e di shock è avvenuta quel giorno, quando l'ho vista scivolare via dalle mie mani, senza riuscire a far niente per fermare la Berardi e Accorsi. Ho cercato di convincere me stessa che non fosse vero che, se mi fossi voltata, l'avrei trovata ancora lì. Era quello che mi aveva fatta stare più male,il pensiero di non poterla proteggere più, di saperla lontana da me, magari felice, con una famiglia che non comprendesse me e Luca. E quando Luca aveva riferimento a quel pensiero, mi aveva mandato fuori di testa. Lui, poi, che al mio shock aveva assistito e, in barba all'orgoglio e tutto quello che continuavano a tenerci nascosto, in quello studio, mi aveva sorretta, si era preso cura di me, dimostrandomi quanto mi fosse vicino. Io che l'avevo allontanato, io che gli avevo detto di andarsene e sempre io che non avevo creduto lui potesse comprendermi, mi ero dovuta arrendere all'evidenza che non ci fosse altra persona in grado di farmi star bene.
Non c'era, però, stato spazio per una fase di negoziazione, ero passata sùbito alla resa e la rabbia beh, quella era subentrata poche ore dopo, quando mi ero rifugiata tra le mure di casa mia.
La rabbia che avevo provato era stata principalmente per me stessa. Per essere stata così inutile dal non poter fare niente: io Lucia l'avevo solo riempita di speranze e promesse , facendo in modo che lei, dall'ospedale, se ne andasse lo stesso. Ma io sono come Lucia, solo una piccola pedina, in una partita che non possiamo controllare. E allora  mi era venuto da pensare che avessi dovuto essere sincera con lei fin dall'inizio. Non avrei dovuto assecondarla, alimentando le sue speranze. Ma, in quella famiglia, ci avevo creduto anche io. E la rabbia, per essere stata così illusa e mangiatrice di sogni da aver pensato di poterle offrire un focolare familiare, era stata così forte. Eh sì, era stato tutto così bello, con Luca poi che sembrava capirmi come nessuno, e l'affetto per la nostra Lucia ad unirci, ma la resa dei conti per noi era arrivata. D'altronde lui me l'aveva fatto presente: Lucia non è di nostra proprietà e per quanto lui ci fosse affezionato, era arrivato il momento di lasciarla andare via. Ero arrabbiata anche con lui, soprattutto. Avevo apprezzato che avesse preso le difese con Visconti e che mi fosse stato accanto, questo sì, ma non bastava a cancellare il resto. E, forse, mi ero illusa di nuovo perché avevo sperato lui si facesse vivo e, invece, l'assenza di almeno un messaggio da parte sua, mi aveva fatto piombare, di nuovo, nello sconforto.
Così, mentre mi ero lasciata andare contro quel divano, mi ero chiusa in me stessa, isolandomi da tutto il resto. Non esisteva altro che non comprendesse Lucia. E mi ero domandata come stesse, cosa stesse facendo. La mia espressione era stata vagua, assente, ero rimasta a fissare un punto impreciso per ore, ma non avevo pianto. Da quando ero tornata a casa, non avevo versato nemmeno una lacrima, e forse era stato meglio così; quando mi ero lasciata andare tra le braccia di Luca, dovevo averle esaurite tutte.

La mia assenza non era passata inosservata ma, d'altronde, non potevo aspettarmi di rifiutare chiamate, non rispondere ai messaggi e pensare che nessuno si preoccupasse. Così, in quei giorni così lunghi e infiniti, il campanello e il mio cellulare non avevano smesso di suonare un attimo. Le mie amiche, arresesi all'idea che non avessi intenzione di rispondere al telefono, si erano presentate a casa, desiderose di spiegazioni. Ma, forse, mi ero detta, forse il mio modo di agire era sbagliato, eppure avevo sentito fin da subito che volessi lasciare fuori tutti; non volevo che intralciassero con il mio dolore o che addirittura se lo addossassero. Nonostante conoscessi le mie amiche e sapevo che non mi avrebbero mai giudicata, avevo avuto paura che non capissero. E il solo pensiero, mi aveva spaventata tantissimo. Ma non potevo biasimare nessuno, perché la mia reazione alla situazione, se non vissuta sulla propria pelle, poteva sembrare esagerata. Lucia per tutti era solo una paziente a cui ero tanto affezionata e che aveva lasciato l'ospedale? Perché farne un dramma? Come potevo spiegare cosa avesse significato per me? Ecco, non sarebbe stato possibile.
Carlotta, Cristina e Giulia erano diventate ben presto insistenti, così tanto che avevo pensato potessero svegliare l'intero condominio. Avevo aperto loro, con stizza, biascicando parole confuse.
"Anita..." i loro occhi mi avevano scrutato a lungo.
Sui loro volti si erano alternate tante espressioni: sorpresa, sgomento, preoccupazione, compassione, impotenza.
Ero a conoscenza che le mie condizioni non fossero le migliori. Così avevo aperto la porta il minimo necessario per far loro comprendere che stessi bene.  Relativamente parlando, certo, ma ero viva e non dovevano preoccuparsi. Poi, prima che potessero insinuarsi in casa, le avevo lasciate fuori. Fuori dal mio appartamento, fuori dal mio dolore.

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