49. Una giornata piena d'imprevisti (seconda parte)

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«Ciao Rebecca, che cosa ci fai qui? I partecipanti alla fiera dovevano presentarsi con qualche ora di anticipo, se non sbaglio», accompagnai la mia domanda retorica con un tono di velata accusata. 

Lei mi fissò dal basso per qualche secondo, prima di rimettersi in piedi e cercare di cavarsela senza dover dire la verità. 

«Stavo solo lasciando questa», allungò verso di me la mano con la lettera, come se si aspettasse che la prendessi. E invece guardai quel rettangolo di carta come se fosse una bomba radioattiva. 

Quando comprese che non l'avrei aiutata e che non poteva andarsene via così, aggiunse: «Posso appoggiarla qui», indicò il mobile accanto all'entrata dove di solito lasciavamo le chiavi e lasciò lì la lettera.

«Dove stai andando?», le chiese, tenendola ferma lì, vicino alla porta, con l'intento di non lasciarla andare senza prima sapere tutto. 

Lei almeno riuscì ad assumere un atteggiamento imbarazzato, consapevole che ciò che stava per dirmi non mi sarebbe piaciuto, e l'avrebbe messa in cattiva luce. 

«Purtroppo non posso andare alla fiera di scienze, ho un volo da prendere e non posso assolutamente ritardare...».

Una parte di me già aveva capito tutto nell'istante in cui avevo incrociato il suo sguardo, ma fino a quel momento un po' ci avevo sperato, forse perché alla fine cerco sempre di vedere il buono negli altri. Perfino in Rebecca. 

«Vuoi lasciare Emma da sola alla fiera? Ti rendi conto di quello che stai dicendo?... e hai intenzione di farglielo sapere con una misera lettera?».

Il mio tono sembrava ancora più sconvolto di quanto non fossi ma era normale. Perché per quanto in fondo sapevo che tipo era Rebecca, mi stupiva constatare che stava per fare una cosa simile ad Emma.

«Io non vorrei farlo, ma sono costretta... è un lavoro importante, una grande opportunità ed Emma è grande e intelligente, capirà», fu la sua patetica scusa, pronunciata con una certa incertezza. 

«Emma è una bambina e che sta per affrontare una fiera che si chiama "Giornata madri e figli, piccoli e grandi scienziati insiemi" senza sua madre, che oltretutto ha deciso di lasciarla senza neanche farle un colpo di telefono... dubito capirà».

Non so se le mie parole sortirono un qualche effetto o se furono quantomeno ascoltate da lei, ma ne dubitai.

Sembrava quasi che Rebecca non prestasse attenzione a tutto ciò che veniva detto e che poteva essere un ostacolo tra lei e ciò che desiderava. E in quel momento voleva solo partire per inseguire i suoi sogni, perciò tutto il resto non esisteva.

Ed era così snervante avere una conversazione matura con una persona del genere. E di certo l'ultima cosa che volevo era convincerla a restare, ma lo avrei fatto se fosse stato per il bene di Emma. O almeno ci avrei provato. 

Feci un passo avanti verso di lei, con aria anche un po' combattiva, perché nessuno poteva ferire i sentimenti di Emma e pensare di farla franca. 

«Sei venuta da me a dirmi che era giusto che mi facessi da parte, che Emma ha bisogno della sua vera famiglia, dei suoi veri genitori e che io ero di troppo», iniziai a dire, ricordando molto bene tutte le sue parole e come mi avevano fatto sentire.

«Ed ora te ne vai? Apprezzerei l'ironia della situazione, se non fossi arrabbiata».

Con le braccia conserte la fissai cercando di usare tutta la mia espressività per farle capire quanto fossi contrariata e quanto quello che stavo dicendo fosse importante. 

Ma lei mi sorrise, come se non avesse effettivamente compreso la gravità della situazione: «Non capisco di che ti preoccupi... dovresti essere contenta, me ne andrò e non sarò più un problema per te».

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