20.1

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Mi sentivo tremendamente in trappola. Il giorno precedente avevo deciso di fidarmi del comandante, ma non ero pronta a raccontargli del mio impiego e quindi della mia familiarità con quella città. Ci avevo pensato tutto il resto della giornata, ma alla fine avevo deciso di tenermi il segreto per me. Riconoscevo che avrei potuto mettere tutti in pericolo, sapendo che le probabilità di incontrare Dadekio erano alte in quella zona di Aga, ma avevo pensato che, se anche lo avessi visto, avrei avuto modo di controllare bene la situazione.

Era rischioso, ma era la scelta che creava meno problemi; o così credevo.

Il pugno di Caos sulla mia faccia mi fece tornare alla realtà. L'allenamento pomeridiano era nella Palestra-Nord, ma ormai mi ero abituata al freddo, al contrario dei colpi sul naso.

Feci un passo indietro scuotendo la testa per farmi tornare la vista lucida. Mi faceva male il naso, tanto che il dolore mi pulsava dritto al cervello. Sentii sul labbro superiore il sapore forte del sangue, ma non potevo soffermarmi su quello.

Caos si avvicinò e purtroppo sapevo dove dovevo colpirlo. Mi dispiacque usare la sua protesi per batterlo. Tuttavia non potevo stare lì a farmi prendere a pugni in faccia, anche perché erano diventati sorprendentemente forti.

Con un calcio, che il ragazzo non riuscì a prevedere a causa di una finta, lo feci cadere in ginocchio, in una posizione comoda per colpirlo tre volte in viso. Mi ero già fermata quando Bayer mi ordinò di allontanarmi. Lo guardai rialzarsi e toccarsi il sopracciglio che stava sanguinando, sporcandogli le mani di un rosso vivo.

Ascoltai il comandante dargli qualche consiglio e poi lo vidi avvicinarsi a me, che nel frattempo mi ero seduta per tamponarmi il naso in pace. I fazzoletti bianchi si stavano imbevendo velocemente e i miei sensi furono invasi dal sangue: il colore acceso mi macchiava le mani, il sapore ferreo mi era sceso in gola, l'odore acre mi pungeva le narici e tra i polpastrelli sporchi sentivo la sua viscosità.

«Non devi farti colpire per fargli pensare che sia migliorato.» Quella di Bayer era chiaramente una critica anche se non aveva usato un tono severo.

«Infatti non l'ho fatto», ammisi, tralasciando nella voce qualche spruzzo di dolore.

Il comandante si chinò per alzarmi il viso con una mano sotto il mento; non era stato un gesto delicato, e con la stessa arroganza mi aveva tastato il naso. Sapevo che lo stava facendo per verificare se fosse fratturato, ma la sofferenza che mi stava provocando con i suoi tocchi era fortissima. Infatti non riuscii a tenere gli occhi aperti o a non fare qualche smorfia; ogni centimetro di pelle che ispezionava era un bruciore.

«Non è rotto», disse neutro, «ma stai sanguinando molto. Vai pure in infermeria, per oggi hai finito di allenarti.»

Quando riaprii gli occhi vidi che il comandante stava già tornando dal resto della squadra. Caos mi urlò delle scuse e io le accettai con un piccolo e debole sorriso.

Controllai l'orologio e mi accorsi che mancava meno di mezz'ora alla fine dell'allenamento, io, però, ero comunque contenta di potermi riposare in anticipo. I giorni dopo la prima missione si erano focalizzati sul combattimento corpo a corpo e gli esercizi erano sfiancanti. Me la cavavo sempre bene, ma la maggior parte dei colpi che prendevo non li guarivo con il miracolo. Non volevo abituarmi a quella pasticca, sapevo che un giorno non ne avrei più avute a disposizione.

Ammaccata mi feci forza e mi alzai velocemente. Grosso errore per me, perché iniziai a vedere tutto più scuro, come se qualcuno avesse soffuso le luci; la vista era anche disturbata da puntini luminosi e anormali.

Mi immobilizzai, richiusi gli occhi e allargai le braccia per non perdere l'equilibrio.

«Reila, tutto bene?», mi chiese la voce di Freddy incredibilmente lontana.

Per risposta feci un pollice alzato, ma imprecai mentalmente quando l'oscurità si impossessò della mia vista fino a farmi cedere le gambe.

***

I sensi mi tornarono per pochi secondi mentre percepivo muovermi. Non lo stavo facendo direttamente con le mie gambe. Captavo i miei piedi sospesi che rimbalzavano a ritmo di una camminata e riuscii a vedere solo una targhetta su una maglia bianca.

«Non chiudere gli occhi. Rimani sveglia», aveva detto la voce. Vedevo le labbra muoversi, ma le parole erano ovattate.

«Ma ho così sonno.» Sentii me stessa parlare e fu strano in quanto non riuscivo a formulare una frase di senso compiuto; fu la prima volta che ebbi una esperienza extracorporea.

Percepii che la figura stava ridendo dal movimento del petto.

«Hai perso troppo sangue.»

«Lo so, Gen», mormorai, sentendo un'altro tremore.

«Non sono Gen, sei tu Gen», rispose con un tono divertito.

Per quanto potessi, mi concentrai su quello che avevo davanti. Ci rimasi male quando non vidi più i lunghi capelli castani e gli occhi azzurri che ero sicura di aver visto prima. Dove era andata?

«Gen», sussurrai malinconica prima di svenire per la seconda volta.

Lame nella SchienaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora