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Fuori dalla fabbrica c'erano cinque veicoli. Si misero in moto quando ci videro uscire dall'edificio. Con una punta di sollievo guardai Welleda scendere da una macchina, pensai sarebbe mi sarebbe venuta incontro, realizzai che avevo bisogno di un sostegno morale, ma lei si posizionò con una pistola alzata per colpire dei nuovi nemici.

Entrati nella jeep, Alecsei diede un miracolo alla comandante e poi disse, rivolgendosi al guidatore: «Così dovrebbe stabilizzarsi finché non saremo al sicuro.»

Quel ragazzo, seduto al mio fianco, si chiamava Vik, o così avevo sentito dire da Alecsei. Aveva i capelli neri come la notte e due occhi blu scuro. Non lo avevo mai visto, ma notai confusa il tatuaggio che aveva sul collo: il contorno rosso di una lacrima, lo stesso di Alecsei.

Il mio compagno di squadra dovette ripetere il mio nome due volte prima di farsi rispondere. «Sei ferita?», mi chiese mentre si slacciava la divisa blu sul petto.

Sbattei le palpebre per tornare lucida. «No, ho solo un taglio. Credo», mormorai, non volendo concentrarmi su me stessa.

La persona al volante guidava veloce e spesso faceva curve strette per non scontrarsi con gli alberi. Poi guardai nei sedili posteriori, dove c'era la comandante ferita che sembrava stesse dormendo. Vicino a lei, c'era Alecsei che cercava qualcosa nello zaino.

Tornando a guardare avanti realizzai che le altre auto non c'erano più e subito mi preoccupai per i miei compagni.

«Dove sono gli altri?», domandai, tenendomi forte al sedile per non scivolare e sbattere la testa contro il finestrino.

«Li porteranno alla Base. Wel e i gemelli verranno con noi.»

Mi voltai incrociando gli occhi del ragazzo per un istante. «E noi dove stiamo andando?»

Nel frattempo Alecsei aveva tirato fuori dallo zaino una borraccia e una garza; la prima me la passò, ma io la rifiutai perché avevo solo bisogno di risposte e speravo che quella volta mi raccontasse tutta la verità.

«Andiamo in un'altra base», spiegò brevemente. Alzai un sopracciglio infastidita e Alecsei si affrettò a darmi qualche dettaglio in più. «Tranquilla, niente milizia del Sud», mormorò, passandosi una mano tra i capelli. «E neanche del Nord, che sia chiaro.»

Lo guardai prendere un sorso dalla borraccia e sistemare la garza vicino alla ferita della comandante che faticava a guarire.

«Ma precisamente non me lo dirai, non è così?»

Lui mi rivolse un mezzo sorriso. «Grazie per la comprensione.»

Ma io non l'avevo detto in quel senso. Lasciai perdere e mi concentrai sul percorso. Alecsei, poco dopo, mi fece avere un miracolo e io lo presi pensando che forse avrebbe potuto guarire la mia anima spezzata. Mi addormentai indotta al farmaco, sentendomi infinitamente esausta.

Sognai il Mask Club e di ballare con Bayer al centro dell'ex teatro. Tutti e due eravamo sorridenti e spensierati, e solo una cosa mi aveva distratta dalla danza e dagli occhi argentati: la cantante aveva detto una frase strana ma a me era familiare. Misero fabbro Bellus, un uccellino mi ha detto di essere furia, rivelatore Ansen.

Ascoltandola provai ad allontanarmi da Bayer, ma lui mi aveva stretta in un abbraccio che non mi dava nessuna possibilità di scappare. La frase mi tempestò nella mente, fino a quando il mio subconscio fece quello che io non avevo mai fatto: analizzarla.

Bayer e il Mask Club scomparvero e io rimase sola con una lavagna. Su questa venivano scritte magicamente delle parole che inizialmente non capii.

Mis fab Bellus, ucc furia, riv Ansen.

Lame nella SchienaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora