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«Chi stai cercando?», mi domandò Welleda con in mano una tazza di caffè bollente.

Era passato un giorno da quando avevo avuto l'incarico di intercettare le conversazioni del comandante, e proprio per quello lo stavo cercando inutilmente all'interno della mensa. Anche il giorno prima non lo avevo visto a colazione, arrivai a pensare che forse non mangiava di prima mattina.

Posai lo sguardo su Welleda e le vidi il viso ancora addormentato. «Una persona, ma non c'è», risposi, dandole tutta la mia attenzione. «Gli altri due?», chiesi, riferendomi a Freddy e Caos.

Gli ultimi pranzi li avevamo passati sempre insieme. Ci riunivamo tutti nello stesso tavolo, spesso chiamandoci a gran voce nella stanza per non lasciare nessuno mangiare da solo. Tutti tranne Alecsei; lui si faceva vedere di rado a mensa e non ero l'unica ad averlo notato.

«Hanno preferito dormire di più. Sono doloranti per gli allenamenti di ieri.»

Sorrisi e poi parlammo per qualche minuto finché non vedemmo Alecsei venire nella nostra direzione. Entrambe ci guardammo incredule, Welleda si passo una mano sugli occhi per accertarsi che non fosse frutto di un suo sogno.

Senza aprire bocca, Alecsei si sedette al nostro tavolo salutando Welleda con un cenno del capo. Io, al che, iniziai a fissare il mio bicchiere d'acqua con cui avevo accompagnato il pezzo di crostata. Pensavo che se non lo avessi guardato, lui allora non mi avrebbe rivolto la parola. E io non volevo parlare con Alecsei, soprattutto perché non sapevo cosa pensare di lui. Era evidente ormai che non ci fidavamo l'un dell'altra; non per un vero motivo concreto, ma più per cose che non ci dicevamo. Ero diffidente per natura e spesso diventavo scontrosa con chi non era chiaro con me.

Il silenzio era sceso in modo particolarmente imbarazzante, tanto che Welleda fu la prima ad avere la splendida idea della fuga. «Io vado allora», aveva detto, portandosi dietro la sua tazza ancora piena.

Anche io feci per alzarmi, ma il ragazzo mi chiese di aspettare. Presi un lungo respiro e mi risistemai al mio posto. Lo studiai mentre aspettavo ciò che aveva da dirmi. I suoi occhi erano ancora un po' assonnati e guardavano in basso. Le sua mani lunghe avvolgevano la tazza fumante di caffè. I capelli erano leggermente più scuri perché ancora bagnati, riuscivo a distingue sia il profumo forte della bevanda che quello fruttato dello shampoo; lo conoscevo bene perché tutti noi soldati avevamo a disposizione lo stesso.

Si schiarì la voce prima di parlare. «Uno dei miei più grandi difetti è l'impulsività», borbottò prima di prendere un sorso dalla tazza. Aveva la voce più bassa del solito, ma aveva comunque la mia completa attenzione. «E anche la curiosità.» Fece un lungo respiro che mi sembrò più un modo per farsi coraggio, come se la cosa che stava dicendo gli costava parecchio. «Non voglio che Bayer mi elimini dalla squadra facendomi tornare in carcere. Non voglio che questo succeda a causa delle qualità che ho appena elencato, quindi ti propongo una tregua.»

Vidi finalmente gli occhi azzurri del ragazzo. Era il colore del ghiaccio, brutalmente attraente. Le palpebre, invece, erano leggermente velate di nero.

Mi guardava, pronto a prendere appunti sulla mia reazione a ciò che avrebbe proposto. «Visto che io non voglio che mi fai certe domande, cercherò di non farne a te. Così siamo pari.»

Avrei voluto rispondergli con una domanda, ma poi pensai che non aveva senso, dato quello che mi aveva appena chiesto. Io, però, non sapevo se fossi stata capace di non fare domande se ne avessi sentito la necessità. Di base ero curiosa e volevo sempre sapere la verità sui miei dubbi. Per quello dissi la prima cosa che mi venne in mente.

«Io, in alcuni casi, sono disposta a parlare se ricevo in cambio qualche risposta.» Gli vidi subito un angolo delle labbra alzarsi, proprio quello dove aveva la cicatrice.

Lame nella SchienaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora