37.2

122 7 0
                                    

«Mi hai spaventato», disse Bayer.

Il mio corpo si rilassò, dopo aver riconosciuto la sua voce. «Non pensavo che il vento fosse così forte», mi scusai.

Il comandante mi guardò per un attimo e poi tornò dietro al muro poco lontano. Decisi di seguirlo per vedere cosa stesse facendo, ma non mi meravigliai di vederlo seduto sul muretto, che faceva anche da schienale, mentre lavorava con il dispositivo.

Per non chiedergli niente al riguardo, mi allontanai e andai alla ringhiera per vedere la vista notturna su Drevnigoro. Restai lì per diversi minuti a guardare la vecchia città dall'alto; tra tutte le luci, realizzai che il punto più luminoso era proprio il Palazzo Antico, un faro nella notte.

Appoggiai i gomiti sulla ringhiera e mi tenni il mento con le mani e poi mi chiesi perché si parlasse così poco di Pietro, il figlio di Lukian. Effettivamente non si erano sentite più notizie di lui, a parte le classiche notizie riguardanti la sua vita militare. Eppure, anche se non avrei dovuto pensarlo, mi domandai se concordava con suo padre su quella guerra o se avesse una propria opinione.

Sentendo troppo freddo, però, decisi di allontanarmi e di andare incontro al comandante. Divisi a metà lo Chel, che mi ero portata dietro, e gliene offrii una parte. Lui non mi rispose, facendomi sentire stupida. Decisi di andarmene, dicendo un semplice ma leggermente antipatico «Va bene»; non era bello essere ignorati, era una cosa che avevo sempre detestato.

Al che lui alzò di scatto la testa, come se fino a quel momento non si fosse ricordato di me, e probabilmente era davvero così, notando la sua espressione. Si schiarì la voce e io, per un breve attimo, fui convinta che mi avrebbe risposto male.

«Se vuoi... puoi restare», mormorò Bayer, dividendo la frase con una pausa lunga e facendomi dimenticare delle emozioni che mi erano nate velocemente nel petto.

Rimasi, non sapevo se Caos e Welleda avessero finito di parlare, e, se non l'avessero fatto, sarei dovuta stare in sala con Alecsei o chiudermi in bagno. Bayer mi fece spazio e io riproposi il dolcetto che lui rifiutò. Non me la presi, anzi, la parte più egoistica di me fu contenta, perché quelli al cioccolato erano in assoluto i miei preferiti.

Bayer per occupare il silenzio decise di farmi vedere come funzionavano le registrazioni e come recuperava i dati più importanti. Mi spiegò anche che le informazioni di una cimice era già riuscito a mandarla ai suoi superiori. Io ascoltai sinceramente attenta, avendo più momenti di nostalgia; per tutta la vita ero stata con le mani occupate nell'elettronica e nella tecnologia, e da mesi non avevo più toccato niente. Anzi, mentalmente sperai con tutto il cuore di ricordarmi ancora qualcosa.

«Cosa ti ha detto Dadekio?», mi domandò, voltando leggermente la testa verso di me.

«Mi ha detto che Iya è stata attaccata.»

Aspettai che lui collegasse i punti e poi, infatti, lui commentò: «È lì che abitavi.»

«Sì», ammisi, guardando davanti a me. «Piccola ma accettabile.» Le immagini della mia città mi vennero in mente di conseguenza: le casette, la miniera in cui avevo scoperto il passaggio per fare contrabbando, la discarica dove avevo lavorato. Sospirai nel ricordare quanto tempo fosse già passato. «Te, invece?», continuai curiosa.

Lui sembrò sorpreso per la domanda, ma rispose lo stesso. «Io ho quasi sempre vissuto nelle Basi Militari.»

Incrociai il suo sguardo prima di domandargli: «E prima?» Sapevo di apparire invadente, ma era lecito da parte mia chiedere, visto che lui conosceva già parecchie cose di me. E poi desideravo iniziare una conversazione con lui, non di stare su un muretto a prendere solo freddo.

«Fino ai undici anni ho vissuto a Saffirro, Terza fascia sulla costa occidentale.» Annuii, anche se non sapevo esattamente dove si trovasse. «Poi ho iniziato l'allenamento per diventare un soldato e quindi mi sono sempre spostato. Non ho più avuto una città "mia", le Basi Militari sono diventate la quotidianità.»

«E i tuoi genitori non ti mancavano?», indagai delicatamente.

Bayer si prese del tempo per pensarci, tanto che io pensai non mi avrebbe più risposto. «No, sapevo che erano con me ovunque fossi.»

Dovetti distogliere lo sguardo dai suoi occhi grigi troppo potenti. Capivo quello volesse far intendere, non per i miei genitori, che mi avevano abbandonata, ma per Gen. Faceva male non vederla, non poter sentire la sua voce, le sue idee o percepire solo la sua presenza nella stanza. Era devastante, ma sapevo che mi proteggeva ancora, ovunque andassi.

«Te non senti la mancanza della tua famiglia?», mi chiese lui con un tono non del tutto neutro.

Feci un sospiro per farmi coraggio. «Non abbiamo mai avuto buoni rapporti», confessai accigliata. «Ma mia sorella, però, mi manca da morire.»

«Allora immagino abbiate un bel rapporto», disse Bayer con un angolo della bocca alzato.

Anche io sorrisi e, continuando a guardare le mie ginocchia vicine al mento, risposi di sì. Avrei voluto aggiungere che mi aveva fatto da madre, ma questo lo tenni per me.

«E andrai a trovarla? ...Certo, non ora, magari quando potrai, quando la situazione si calmerà.»

Il debole sorriso che avevo sulle labbra mi diventò amaro. Iniziai a grattarmi il pollice per il nervoso. Sentii la familiare voragine di dolore che mi si era creata cinque anni fa; era al centro del mio petto, sotto lo sterno, e, se l'avessi dovuta disegnare, l'avrei rappresentata come una depressione oceanica, proprio come l'avevo osservata in un libro di scienze.

«Non posso.»

Anche se non lo vedevo percepii il suo sguardo accigliato su di me. «Io farei di tutto per poter vedere i miei genitori», insistette lui, eppure qualcosa mi disse che non l'avrebbe fatto se avesse saputo la verità.

Al che mi strofinai le tempie con una mano. Iniziavo a sentire il battito più potente e una conosciuta pressione alla base del collo. «Anche io, credimi. Farei di tutto per mia sorella.» Ma quando dovevo convincerla a lasciare la banca non l'avevo fatto...

Bayer appoggiò il dispositivo a terra e mi guardò confuso. «Non capisco, Reila», mormorò, scuotendo la testa. «Incominci di nuovo a essere troppo vaga.»

Una corrente fredda ci fece volare i capelli di entrambi. Mi strinsi su me stessa sia per il gelo che per il dolore. Lui se ne accorse e così si tolse la giacca per mettermela sulle spalle. Lo avrei fermato, se solo me ne fossi accorta, ma stavo decidendo se dirgli la verità.

Mi sorpresi del suo gesto gentile e lo ringrazia con un filo di voce. Per un attimo, nei suoi occhi, ritrovai quel conforto che altre poche volte avevo già scorto. E quella fu la spinta che mi serviva per essere sincera.

«È morta», sussurrai dolorosamente, vedendo gli occhi del ragazzo abbassarsi. «Mia sorella è morta.»

Era la prima volta che lo dicevo a qualcuno ad alta voce, ma soprattutto che lo ammettevo a me stessa. Non avevo mai usato quelle quattro parole nella stessa frase, perché nel mio vocabolario erano vietate. Non esistevano neanche.

Infatti con quella frase mi sentii incredibilmente vuota, ma non mi stupii di sentire una lacrima scendermi sulla guancia. La asciugai subito e Bayer, che mi controllava con la coda dell'occhio, mi alzò il viso con una mano; era fredda e probabilmente anche il mio mento lo era. Mi guardò a lungo negli occhi e io mi sentii stranamente attratta. Percepivo il cuore circondato dal vuoto percuotersi in tutto il corpo, ma, la cosa più interessante, fu vedere i suoi occhi plumbei studiarmi le labbra. Non sapevo perché, ma anche io sentii la necessità di fare lo stesso.

Lame nella SchienaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora