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Dentro era peggio di quel che mi ero aspettata. Gli altoparlanti comunicavano ai soldati di tornare nelle camere e di non andare in infermeria, se non era strettamente necessario. I comandanti impartivano ordini alzando la voce per farsi sentire da tutti i presenti.

Nella confusione non mi capacitai di come l'edificio non avesse subito molti danni: i due muri perimetrali erano stati rasi al suolo, quelli che davano sull'interno, invece, erano solo rovinati. L'odore era ancora più acre di prima e nell'aria c'erano nuove particelle di polvere che annebbiavano la vista.

Non ebbi il coraggio di guardare all'interno della mensa quando ci passammo davanti per andare nell'ufficio di Bayer. Anche se la mia immaginazione era capace di ricreare gli scenari peggiori, non volevo scoprire in che condizioni erano i corpi dei feriti o dei morti. Con quel pensiero mi sentii la poca colazione pesantissima, come se fosse diventato un macigno sotto lo sterno.

Era difficile muoversi, erano tanti i soldati che continuavano a passare veloci nei corridoi, Alecsei, infatti, si era messo davanti per riuscire a farci spazio. Ogni tanto si girava per assicurarsi che fossi dietro di lui, e io, per un attimo, pensai anche di afferrargli un braccio per non farmi abbandonare in quell'inferno.

La porta di Bayer era chiusa, ma il ragazzo non si fece problemi ad entrare senza bussare. Welleda fu la prima ad alzarsi di scatto. Mi venne incontro piangendo, stringendomi in un abbraccio forte. La ragazza poi alzò lo sguardo e mi chiese se stessi bene, sempre a causa del sangue nel viso, e io le risposi di sì. Tuttavia lei si sfogò nuovamente in un pianto liberatorio, visto che in quel momento aveva tutti i suoi amici in una stanza, al sicuro.

Notai dopo che Caos si era avvicinato ad Alecsei per dargli una pacca sulla spalla. Freddy aveva provato a ricopiarlo, ma si vedeva che era ancora molto scosso; fu lui infatti a passarmi un panno imbevuto di acqua per potermi pulire, sembrava infastidirlo quel sangue sul mio viso.

«Bayer ci ha riuniti qua, dicendo che per ora è il posto più sicuro», disse il ragazzo con i capelli stranamente in disordine; pensai stupidamente che gli donassero di più, ma non mi azzardai a dire una cosa così banale in quelle circostanze critiche. «Ha detto di aspettarlo.»

Allora ci sedemmo tutti e seguimmo gli ordini del comandante. Alecsei raccontò cosa gli fosse successo, ovvero che sentendo la prima esplosione si era tirato a terra, anche se poi lo avevano calpestato nella fretta di scappare. Io, invece, non fiatai, ma non fu un problema perché lui continuò. Ascoltando le parole del ragazzo mi resi conto di quello a cui eravamo andanti incontro, a quello che avevo realmente vissuto.

L'esplosione, Welleda, il fumo, il panico... La morte, i corpi...

Sentii il mio respiro velocizzarsi sempre di più. Il mio cervello continuava a pensare che ci fosse poca aria nella stanza. Il cuore mi martellava nel petto e una sensazione di nausea mi aumentò rapida nello stomaco. Mi obbligai a restare calma mentre mi ripetevo che tutto sarebbe andato bene, ma quella volta non riuscivo a farlo funzionare.

Non stava andando bene. Non stava andando bene niente.

Cercai di distrarmi chiudendo gli occhi per estraniarmi dalla stanza, ma le parole di Alecsei erano sempre presenti. Provai a calmarmi con il mio tic che non presi neanche la briga di nascondere, ma neanche questo mi dava pace.

Mi passai una mano dietro il collo e sentendo la pelle umida mi spaventai: essendo già preoccupata, non pensai fosse sudore a causa dell'attacco di panico, l'unica cosa che mi venne in mente fu che quella viscosità sui polpastrelli fosse sangue; mio o di tutte le altre persone che erano appena state uccise.

Non respiravo bene e il mio petto andava alla ricerca di un misero filo d'aria, ma capii che avevo bisogno di uscire di lì.

Non ascoltai le parole dei miei compagni che preoccupati mi chiedevano di rimanere, io semplicemente mi incamminai fuori, dove tutto era successo.

Le voci mi arrivavano ovattate. Vedevo i lettini con i corpi delle vittime passare e quelli erano ridotti male: avevano bruciature, sangue ovunque, espressioni di puro dolore. Un dolore diverso da quello che avevo provato io con Gen, forse un dolore anche peggiore.

Vidi un ragazzo sostenuto da un soldato, entrambi si stavano avvicinando lentamente all'infermeria. I miei occhi, purtroppo, riuscirono subito a trovare la sua ferita: la fascia alla mano era diventata completamente rossa e il bendaggio lasciava gocce sul pavimento. Annaspai a bocca aperta per cercare altra aria.

Alcuni soldati si avvicinavano ai comandante per chiedere sul da farsi e quelli urlavano ordini, come se sapessero perfettamente come comportarsi. La domanda che mi percorreva la mente era solo una: come facevano?

Eppure, per quanto desiderassi non incontrare i volti dei feriti, sapevo che vederli significava che erano ancora vivi. Al contrario, i teli bianchi distesi sui corpi erano una pugnalata al cuore. Li avevo contati quei lenzuoli innocenti e fino a quel momento salivano a una decina. Undici, con la ragazza con i capelli scuri.

Quanto odio doveva avere una persona per fare tutto quello? Per creare tutta quella morte?

Distesa a terra, vicino alla porta della mensa che stavo raggiungendo involontariamente, c'era seduta una ragazza che nessuno aiutava. La riconobbi subito. Era Olive, immobile e con gli occhi fissi sul muro, probabilmente sotto shock come Welleda e tante altre persone.

Mi precipitai a soccorrerla facendomi spazio tra i diversi soldati fermi davanti a lei. Ero quasi arrivata quando un soldato si chinò vicino a lei. Mi sentii meglio nel vedere che qualcuno la stesse aiutando, ma ebbi un conato di vomito nel realizzare che questo ragazzo si era abbassato per chiuderle gli occhi.

Mi bloccai di colpo, nel bel mezzo del corridoio, a pochi passi da lei. Osservai il soldato metterle un telo sopra e nella mia mente risuonò un numero. Dodici.

E quello fu il culmine.

Tra le lacrime silenziose vidi la figura di Olive venir messa su un lettino e poi portata via. Non conoscevo niente di quella ragazza, sapevo solo che fosse una persona gentile, rispettosa ed educata. Non avevo mai saputo il motivo per cui era in carcere, ma io ero sicura che fosse una brava persona.

Per quanto non avrei dovuto, non riuscii a pensare che sarei potuta essere io. Che se avessi preso una scelta diversa, se anche avessi fatto più velocemente la doccia, forse, in quel momento, quella con il telo steso sopra potevo essere davvero io...

Corsi verso l'uscita della Base, avevo bisogno d'aria. Ero quasi arrivata, mi mancavano solo pochi passi quando una mano mi afferrò.

Senza voltarmi cercai di divincolarmi, non mi interessava prendere una punizione o una sgridata, io avevo bisogno di uscire. Ci riuscii, ma una seconda presa mi fece voltare senza il mio consenso.

Ero pronta a colpire, avevo caricato un pugno in direzione dell'addome, ma quello lo lasciai dissolversi quando vidi chi avevo davanti.

L'espressione di rabbia di Bayer cambiò subito in preoccupazione. Senza chiedermi niente mi portò fuori e io gliene fui grata.

Quando fummo all'aria aperta, lontani dall'entrata, mi strinse in un abbraccio. Distrutta non pensai ad altro che nascondermi nel suo petto. Sentivo la sua mano sulla testa e l'altra sulla schiena. Mi stringeva e io iniziai lentamente a riprendere a respirare.

Lame nella SchienaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora