Capitolo 19 - Vittoria o sconfitta?

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Era successo qualcosa nella sua mente.

Si era isolato e perso nel suo mondo, forse in un ricordo, forse in un trauma.
Non ascoltava, non parlava, lo sguardo era vuoto.

Un po' come quando avevo visto il sangue dei polli selvatici e avevo pensato a Melisande.

Volevo sapere cosa lo attanagliasse così, al punto di perdersi nei propri pensieri.

Potevo dare la colpa alla mia curiosità, e in parte era proprio questa a spingermi a domandarmi cosa fosse successo, ma la verità era un'altra e io non volevo ammetterlo.

Non volevo ammettere che il demone e la sua essenza mi affascinavano oltre ogni limite.

Solitamente il demone era estremamente controllato. Non abbassava mai la guardia, non si faceva mai trasportare troppo, non si distraeva.

Soprattutto in situazioni di pericolo. Soprattutto durante una corsa sfrenata su un cavallo che andava più veloce del vento.

Avrei dovuto spaventarmi a morte.
Avrei dovuto avere paura di lui.
Perché non stava controllando Alastor. Non lo stava guidando, ma si limitava a tenere le briglie.
Avrei dovuto, ma lui non aveva mai smesso di stringermi a sé, non aveva mai smesso di tenermi sulla sella e di fare scudo a qualsiasi pericolo ci circondasse.

E se fosse lui il pericolo?

No.
Non avevo paura di lui.
Non avevo paura del suo potere.

«Torna da me.» continuai a ripetere come una cantilena.

Gli stringevo la mano così forte da stritolargli le dita. Ma continuavo ad accarezzarlo, il pollice sfregava sul dorso. Ancora e ancora.

Torna da me.

Piano piano lo fece.
Sbattè le palpebre un paio di volte.
Si guardò intorno.
Poi tirò le briglie e Alastor rallentò in modo graduale fino a fermarsi del tutto.

Non sapevo bene cosa dire. Se avessi detto la cosa sbagliata avrei reso tutto troppo imbarazzante. Ma per me non esisteva restare zitta. Volevo sapere tutto. Volevo che mi raccontasse ogni insidia. Ma ero solo una stupida.
Come potevo chiedere a qualcuno di aprirsi se io stessa avevo dei segreti?

Inghiottii le mie insicurezze e chiesi: «Cosa è successo?»

«Non ne sono sicuro...»

Per la prima volta il demone mi stava facendo vedere una parte di sé fragile.

Lui, che era il potere puro.
Lui, che era tempesta.
Lui, che era ferocia.

«Penso che tu abbia avuto un attacco di panico.» supposi.

Non ne ero certa, ma molti sintomi corrispondevano.
Lo shock, lo sguardo perso, il fatto di non sentire neanche la mia voce che lo chiamava.

«Ma che cazzo...» rise.

«Non essere il solito maschilista. Non è che soffrire di attacchi di panico ti rende meno virile!»

«Io non sono maschilista e non soffro di attacchi di panico.»

«Ah, no? E a cosa pensavi mentre correvamo?»

Fu allora che gli occhi gli si adombrarono nuovamente.
Ci avevo visto giusto.
Il demone aveva un trauma. Un trauma che gli pesava tantissimo sulle spalle.
E anche se voleva nasconderlo, anche se non voleva renderlo visibile agli altri e a me... i suoi occhi non mentivano.

Non ero mai stata molto a contatto con le persone a causa della maledizione. E quelle poche volte che parlavo con qualcuno mi soffermavo ad osservare.
Così avevo imparato a leggere negli occhi degli altri quello che le parole non esprimevano.
Avevo imparato a notare i dettagli. Le ombre che si celavano dietro a uno sguardo. La luce che brillava quando qualcuno era felice o commosso o emozionato.

La regina della vita e della morteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora