Capitolo 7

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La famiglia Keller aveva ceduto al figlio una piccola villetta, recintata su un giardino rigoglioso sul lato ovest, a un paio di centinaia di metri dalla Porta di Brandeburgo, dalla quale gli stendardi nazisti pendevano sventolando in tutta la loro austerità.

Huber teneva Klara tra le braccia, mentre Stefan apriva il cancelletto e li scortava attraverso il giardino ricoperto da un prato sempre verde macchiato dalle ombre di alti cipressi.

La quiete, lontana dal trambusto cittadino, era gradevole. In quelle prime ore dell'alba si sentiva l'odore della rugiada, le cui gocce brillantavano sulle balconiere del portico traboccanti di fiori.

A Klara piacque l'armonia che regnava in quel giardino confortevole, rallegrato dai primi cinguettii.

Stefan salì i gradini di un porticato in ombra; aprì la porta in laccato bianco dai lucidi battenti in ottone e sparì all'interno, aprendo tutte le finestre del piano inferiore.

L'ingresso era ampio e ricolmo di tappeti sul pavimento in marmo macchiato e tirato a lucido; di fronte, una scala dai gradini di legno con la ringhiera in ferro battuto nero; dietro di essa un corto corridoio che accedeva alla cucina, mentre sulla sinistra dell'uscio principale, due ante a vetri erano aperte, facendo accedere a un soggiorno dall'aspetto confortevole. Su un ampio tappeto troneggiava un divano e due poltrone in pelle marrone, che porgevano frontalmente innanzi un largo camino. In un angolo, in fondo alla stanza, era posto un tavolo circolare con sedie dall'alto schienale tappezzate di pregiata stoffa damascata verde. Da quel punto, gli occhi spaziavano attraverso la larga porta-finestra, che conduceva nel giardino incorniciato da vialetti in pietra a indicare i corti sentieri bordati da erbetta fine e ben curata.

Il colonnello condusse Klara accanto alla vetrata quadrettata di bianco e la adagiò su una cassapanca in legno di rovere. Il sole andava allungandosi in quella parte della casa, filtrando dalle finestre spalancate e adagiandosi sui mobili, dove i granelli di polvere fluttuavano su di essi.

Klara notò una porta aperta nella parete di fronte, poco distante dal balcone. Al suo interno intravide una grande libreria ricolma di volumi, sovrastare una scrivania parecchio antica dall'intelaiatura sbiadita e i cassetti con disegni intarsiati su rilievo; sul ripiano un'elegante lampada in vetro verdastro e sul pavimento un tappeto su cui erano adagiate due poltroncine in pelle con braccioli.

Huber allungò una mano per carezzarle una guancia e lei la trattenne sul suo viso, manifestandogli il suo affetto e la sua gratitudine.

"Ti senti a tuo agio, Klara?" Lei gli sorrise, annuendo quasi timidamente.

"Ti ho spiegato perché rimarrai con Stefan, rammenti?" Asserì nuovamente. Non sembrava turbata e l'ufficiale si piegò sulle ginocchia per scrutarla meglio negli occhi.

"Farò portare qui le tue cose dal Rome e riprenderai la tua attività, sei d'accordo?"

Lei accennò uno sguardo rammaricato e lo abbracciò teneramente. Era il suo modo di chiedere scusa e l'uomo la strinse dolcemente a sé.

"Questa volta mi hai fatto veramente venire un colpo, mia cara!" le sussurrò placido. Lei strofinò la fronte nell'incavo dell suo collo. Odorava di dopobarba all'aroma di pino e lo trovò confortevole. Non voleva ferirlo. Era stata ingenua e sprovveduta. Prese il taccuino dalla tasca della sua gonna e ci scrisse sopra qualcosa, mostrandoglielo poi con gli occhioni afflitti.

"Sei arrabbiato?"

Lui sorrise, arrendevole, e la abbracciò. "No, Klara. Non lo sono!" la rassicurò, carezzandole la schiena. Si sollevò, poco dopo, intanto che vide Stefan fare ritorno con una cassetta del pronto soccorso. Il giovane accompagnò l'amico alla porta.

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