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Bene, eccomi qui. Mi chiamo Venere, proprio come il pianeta. Mia madre aveva una passione per le costellazioni e tutto ciò che riguardava l'universo. Passava ore al binocolo, scrutando il cielo. Quando ero bambina correvamo in giardino e mi diceva: "Guarda amore, quella è Orione, una delle costellazioni più belle, la stiamo vedendo noi e milioni di persone". Io, però, non ero mai stata particolarmente interessata alle stelle, ai pianeti o all'universo in generale. Mi piaceva stare sdraiata accanto a mamma e fingere interesse. A volte ci ritrovavamo, io, mamma, mia sorella e mio padre, e montavamo una tenda per passare la notte fuori. La chiamavamo la "notte degli Apache" e mia madre pensava fosse la cosa migliore che potessimo fare insieme.
Non so cosa sia cambiato col tempo.
Probabilmente la classica ribellione adolescenziale ha creato una voragine tra me e i miei genitori.
Ho sempre avuto un' irrefrenabile voglia di crescere.
A 5 anni già camminavo in giro per casa con i tacchi di mia madre fingendo di essere una ricca signora con il suo adorabile cagnolino, Lupo.
Lupo è ancora con me, un po' impolverato, certo, ma è ancora lì, sul mio letto.
Poi, crescendo, ho capito che i tacchi facevano male ai piedi e che un paio di Converse era molto più comodo. Tutto quel trucco che mi mettevo da bambina sembrava inutile. Bastava un po' di rimmel e un lucida labbra per essere presentabile al pubblico. Iniziavano i veri problemi, o almeno quelli che sembravano tali. Storie d'amore tormentate, amicizie che si rivelavano delusioni, per non parlare della scuola. In fin dei conti non era così male essere bambina.
Io sono sempre stata una ribelle, incapace di accettare un "no". Ogni discussione con i miei genitori finiva in tragedia. Il problema non erano loro, sono sempre stata io. Nonostante lo sapessi, non riuscivo a essere serena. Alla fine, un anno fa, ho deciso di andare a vivere da sola. I miei genitori ancora non lo accettano. Li posso capire, ma non me ne importa.
Ovviamente, senza di loro, è tutto più complicato. A volte vorrei fare le valigie e tornare a casa, gridare loro quanto mi manchino. Ma vorrebbe dire ammettere di aver sbagliato, e il mio orgoglio non lo permette. Eppure, ormai è un anno che vivo in affitto in una sorta di monolocale a viale Marconi, lavoro in una sala giochi a Ostia e nel tempo libero faccio qualche esame all'università. Giusto per il gusto di dimostrare ai miei che anche la più folle ragazza sulla faccia della terra può laurearsi se vuole, e considerando che mi mancano solo due esami, alla fine riuscirò a dimostrarlo davvero. Stamattina, come tutte le mattine degli ultimi tre mesi, mi sono svegliata molto nervosa. I sensi di colpa mi devastano, ho dormito forse due ore. Dovrei essere fresca come una rosa, perché stasera abbiamo un importante evento a lavoro, oltre al fatto che avevo una lezione all'università, che avrei dovuto iniziare dieci minuti fa. Mi guardo allo specchio e vedo soltanto un mucchio di borse e occhiaie una sopra l'altra, neanche dieci centimetri di fondotinta potranno aiutarmi questa volta. Ai piedi del letto due bottiglie di Tennent's finite e un posacenere che implora pietà. Che schifo!
Avevo detto a Linda che era il caso di smetterla, ma lo dico, lo dico, alla fine non lo faccio mai. Quando entri in quel vortice, all'inizio pensi sempre di riuscire a controllare la situazione. Prima lo fai per gioco o per passare il tempo, poi per sentirti figa. Arriva, però, il giorno in cui non sei più te a decidere di farlo, ma lo fai perché devi, perché non ne puoi fare a meno. Lo chiamo "il tunnel".
È così che lo vivo. È così che vivo in realtà tutta la mia vita da quando non ci sono più i miei genitori a tenermi la mano. Un enorme tunnel sotterraneo, buio, fatto di strade spianate sulle quali corro felice e di grandissime buche dove inciampo e cado facendomi molto male. Questo tunnel lo devo percorrere da sola perché la vergogna è troppa e la delusione che provocherei alla mia famiglia mi distruggerebbe. Ogni tanto, li in fondo, intravedo la luce, un tenue bagliore che mi ricorda che alla fine di questo tortuoso percorso riuscirò a ritrovare me stessa. Per ora, però, mi sono persa.
Ma torniamo ad oggi. Mi trascino giù dal letto e vado in cucina. Preparo il caffè. Un tempo lo trovavo pronto sulla tavola. Mia madre era solita prepararlo per tutta la famiglia e non ho mai apprezzato davvero questo piccolo gesto. La prima mattina nella mia nuova casa, mi sono ritrovata in cucina ad aspettare che la mia tazza si riempisse da sola.
Appena apro gli occhi, Queen inizia a miagolare. I gatti sembrano sempre affamati, o fingono di esserlo, loro comunque devono necessariamente mangiare ogni volta che incrociano il tuo sguardo. Prendo il telefono e vedo già sei messaggi. Linda mi chiede se sono viva. Devo capire come faccia ad essere così attiva alle 10 di mattina dopo la nostra serata. Lucrezia, la mia migliore amica, mi chiede che fine abbia fatto considerando che avevamo una lezione con un ospite esterno. Non sopporto gli ospiti esterni che ci vengono a parlare delle loro clamorose esperienze.
"Stento a respirare" scrivo rapidamente a Linda. Lei risponde con una faccina sorridente. "Hai già piagnucolato davanti allo specchio?" Mi prende in giro. I sensi di colpa appunto. Quando sei una persona incline alle dipendenze forse bisognerebbe pensarci due volte prima di buttarsi a capofitto in serate che sono un mix tra alcool e droga. Sul momento mi vivo la serata al massimo, divento l'anima della festa, se di festa si può parlare, bevo come se non ci fosse un domani, ma alla fine, il domani c'è sempre e io devo affrontare la mia coscienza. È come se il diavolo che è in me cercasse costantemente di farmi sbagliare, dicendo "vai Venere, divertiti, hai solo 23 anni". Il giorno dopo, arriva l'angioletto a rimproverarmi e a farmi sentire un vero schifo. Bevo il caffè, che non è mai come quello che faceva mia madre. Verso i croccantini nella ciotola di Queen che mi ripaga con dei piccoli saltelli sulle gambe. Accendo una sigaretta. Nel frattempo, rispondo anche ai miei genitori; abbiamo un gruppo, come probabilmente la maggior parte delle famiglie. Ogni mattina il "buongiorno", ogni sera la "buonanotte". Se solo sapessero che la mia notte è iniziata alle 6 del mattino. Quanta delusione. Non credo che possano mai immaginare cosa realmente accade durante le mie serate. La Venere di notte e la Venere di giorno, due persone diametralmente opposte. Un po' come il mio aspetto fisico. La parte destra del mio corpo è piena di tatuaggi e piercing: braccio, fianco, parte destra della schiena. Tutto L'orecchio destro è adornato di orecchini e la mia mano destra conta ben otto anelli. La parte sinistra, invece, completamente vuota.
Mi lavo i denti in modo frettoloso e faccio una doccia. "Sto arrivando" scrivo a Lucrezia, ma lei sa benissimo che sono appena uscita dalla doccia. Apro l armadio e prendo la prima cosa che trovo, un pantalone nero come la maggior parte dei miei pantaloni e una maglietta, nera anche quella. Controllo il mio septum; ieri sera mi bruciava. Trecce che partono dalla cute e arrivano quasi dopo il seno. Ci metto più tempo a farmi queste trecce che ad asciugarmi i capelli. Prendo la mia borsa, saluto velocemente Queen e esco. Sette lunghi piani di scale per arrivare in strada e la stessa domanda si ripete ogni volta: "Dove ho parcheggiato?". Cerco di fare mente locale ma niente, anche perché la mia mente ieri non era proprio così lucida. Alla fine inizio a cercare. "Ciao Venere tesoro!" Mi saluta la panettiera sotto casa.
"Ciao Lina, non trovo di nuovo la macchina." Lei ride e suggerisce: "Vedrai che tra dieci minuti la trovi come sempre. Chiedi al bar, magari ti hanno vista passare stanotte". Non è una cattiva idea. Questo bar aperto 24 ore su 24 mi salva costantemente la vita. Entro di corsa nel 100's caffè. Non faccio neanche in tempo a salutare. "Davanti al mercato." Sorrido.
"Grazie Marco sei un angelo". Dico in modo frettoloso.
"E te sei la solita imbecille. Quando la farai finita?". Lo guardo sbuffando e replico: "Marco, ma te hai 25 anni o 55?".
"Il problema non sono io, lo sai che non ti fa bene questa vita. Non ci arrivi a 55 se continui così" mi ammonisce.
"Non ti preoccupare sono immortale." Dico sorridendo. Mi metto gli occhiali da sole e mi dirigo verso la macchina. Già mi sento uno schifo da sola, non ho bisogno che Marco mi ricordi quanto sto sprecando la mia vita ogni volta.

Entro in macchina e in dieci minuti sono all'Università. Corro per tutto il padiglione fino all' Aula 22. Apro la porta. L'aula è completamente affollata di persone. Mi guardo intorno mentre un tizio sta parlando alla lavagna. Non è il mio professore.
Incontro finalmente lo sguardo di Lucrezia. Seconda fila? Ma che le dice la testa? La guardo sbalordita e mi avvicino.
"Ma dove eri? Sono le 11." Prendo il quaderno degli appunti e cerco di sistemare le mie cose.
"Lascia stare ho avuto una serata incredibile a lavoro. Ho fatto tardissimo. Te piuttosto, perché la seconda fila?". Le chiedo sottovoce mentre cerco di tirare fuori una penna dalla borsa.
"Perché ho aspettato fuori al bar te che arrivassi e quando sono entrata, sopra era già tutto pieno." Il tizio continua a raccontare la fantastica storia della sua azienda. A quanto pare un'azienda bella grossa a vedere dalle mille slide che scorrono sulla lavagna.
"Senti, ma chi è questo?" Ogni volta che infilo la mano nella mia borsa per prendere qualcosa trovo quella maledetta penna, adesso che mi serve di lei neanche l'ombra.
"Come chi è? Ma non leggi i messaggi che ti mando? È Thomas, Thomas Rinaldi. Il figlio di Igor Rinaldi della 3T Motors." Mi dice Lucrezia.
"Ah capito, allora sì che è tutto chiaro ora." Rispondo sarcasticamente. Sorridiamo.
"Magari la signorina con le trecce può spiegarci qualcosa, sembra avere molto da dire oggi." Sento una voce dall'aula. Lucrezia mi dà una gomitata mentre sono intenta a raccogliere la penna che nel frattempo mi è appena caduta.
Alzo la testa e lo vedo.
Thomas.

VENERE.

VENERE

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