Capitolo 26

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Il giorno successivo, decisi di tornare a scuola.

So che mi avrebbe fatto male, ma se volevo scoprire cosa stesse accadendo, era il prezzo da pagare.

Varcato l'ingresso dell'edificio, mille ricordi attraversarono la mia mente.

Il mio primo giorno di liceo, la paura delle prime interrogazioni, i nuovi compagni di classe.

Era tutto così vivido nella mia testa.

Eppure, stare lì, in mezzo agli altri studenti, ed essere invisibile e impercettibile a tutti, era davvero odioso.

Mi feci coraggio ed entrai nella mia classe.

Erano gli ultimi giorni di scuola e si respirava già l'aria d'estate e la voglia di vacanze.

Io adoravo gli ultimi giorni, il clima era più rilassato e disteso, i prof sembravano più allegri e tutto appariva più bello.

C'erano tutti in classe, nessuno era assente.

Tranne me.

Il mio banco era vuoto. Mi faceva strano.

Sopra al banco c'era un peluche che conoscevo bene. Era un tigrotto.

Mi sedetti al mio posto, ora la classe era davvero al completo.

Erano le otto in punto ed entrò il professor Giunta.

"Buongiorno a tutti ragazzi" disse con voce pacata.

Poi fece un sospiro e iniziò a fare un discorso.

Lo ascoltai e rimasi gelata dal queste sue parole:

"Cari ragazzi, come sapete, la vostra compagna Anna è stata vittima di un incidente stradale.

Un ragazzo l'ha investita e ora stanno indagando se sia stato un tragico errore o se sia stato intenzionale.

Al di là di questo, quello che conta, è che non si può morire all'età di sedici anni.

Anna è arrivata all'ospedale clinicamente morta.

Ma i medici sono riusciti a tenerla in vita, aggrappata a un filo.

Tutto ciò ci ha dato speranza, voglia di credere che Anna potesse tornare a sedersi su quella sedia, aprire i libri e i quaderni assieme a voi.

Io stesso ho immaginato e sperato di tornare a vederla ridere con te Martina o di confidarsi con te Micol.

Perché è vero, sono un vecchio professore, ma per me, ciascuno di voi, è come un libro aperto.

E quindi ho creduto che Anna potesse tornare a guardarti Alessandro, con quei suoi occhi pieni di sogni e di speranza nel futuro.

E anche di avere nuove scaramucce con te Asia, perché anche quelle fanno parte di questo meraviglioso gioco chiamato vita.

Ieri sera però, i genitori di Anna mi hanno telefonato.

È stata una conversazione lunga e dolorosa, quasi straziante.

Nonostante tutti i tentativi di soccorrerla, la diagnosi è stata quella di... coma irreversibile.
Purtroppo, da questo tipo di coma, non ci si risveglia.

Anzi, potrebbe essere questione di ore o di giorni. Anna, purtroppo ... ci lascerà.

Mi dispiace ragazzi."

Nella classe piombò un silenzio assurdo, quasi terrificante.

Nella mia testa invece, iniziò un frastuono assordante.

"Coma irreversibile!" tuonava continuamente nella mia testa.

Era impossibile, non volevo crederci.

Ero destinata a morire e per di più, sarei stata un fardello sulle spalle dei miei genitori, causando peso e sofferenza. La disperazione s'impossessò di me, fino a convincermi che sarebbe stata meglio la morte.

Perché la morte ti permette di riposare in pace, mentre la sofferenza è un dolore continuo e interminabile.

I sentimenti e le emozioni erano l'unica cosa che mi rimaneva, e questa scoperta, mi aveva di nuovo destabilizzato.

Ma ora tutto era chiaro, tremendamente chiaro.

Clinicamente, era come se fossi morta e la mia anima si era naturalmente staccata dal mio corpo.

Ma i medici mi avevano forzatamente tenuto viva grazie ai macchinari e la mia vita era rimasta appesa a questo sottilissimo filo.

E finché il filo avesse retto, la mia anima avrebbe ancora vagato per questa terra.

Quando il filo si sarebbe rotto, sarei morta. E lì, tutto sarebbe finito definitivamente.

La mia anima si sarebbe dissolta e sarebbe finita chissà dove.

Mi fu anche chiaro perché, a volte, vedevo gli spazi dissiparsi.

Evidentemente, tutte le volte che c'erano state delle criticità, ero stata sul punto di morte; in quel momento, il mondo attorno a me iniziava a dissolversi.

Evidentemente, ero stata fortunata a tenere duro e a rimanere in vita. E il mondo attorno a me tornava dunque a essere vivido.

Ma ora che la diagnosi aveva dato coma irreversibile, ero letteralmente affranta.

Significava che per me non c'era più nulla da fare e che mai sarei potuta tornare ad abbracciare le persone a cui volevo bene.

Erano davvero gli ultimi giorni, o forse le ultime ore in cui potevo vedere e sentire tutti quelli che conoscevo.

Alzai gli occhi, per guardare i miei compagni di classe, impietriti di fronte alla notizia che il prof aveva dato.

Ma, all'improvviso, il silenzio fu rotto da una voce grintosa e determinata.

"Io non ci sto!"

Era Alessandro, che si era alzato in piedi, pronunciando queste parole.

"Che significa Alessandro?" chiese il professore.

"Significa" – proseguì Ale – "che non ci sto a credere che Anna ci lascerà. Lei ama la vita e crede nei sogni e sa come tornare a respirare. Questo incidente è stato solo un inciampo ma se pensate che cadrà vi sbagliate. Perché lei ha imparato a volare"

Nessuno della classe seppe comprendere le parole di Alessandro.

Solo Marty e Micol, alle quali avevo raccontato della nostra fuga al Monte dei Gabbiani, si guardarono e, dopo un cenno d'intesa, lasciarono trasparire un dolce sorriso.

Poi, prese la parola Martina: "Vede professore quel tigrotto, sul banco di Anna? Ce l'ho messo io.

Me lo aveva regalato proprio Anna, quando i miei genitori si divorziarono.

Mi disse che mi assomigliava e che dovevo imparare a essere forte come lui.

Po Marty si alzò e si avvicinò al mio banco.

Mi guardava e non lo sapeva. E disse: "Anna, ovunque tu sia, sii forte come una tigre e torneremo a divertirci tutti insieme."

Ebbi i brividi.

Da un banco dietro partì un battito di mani e in un attimo tutta la classe scoppiò in un fragoroso applauso.

Il professor Giunta, sembrò guardare uno ad uno i suoi studenti, poi iniziò anche lui a battere le mani.

"Ragazzi" - disse alla classe "- oggi siete voi ad avermi insegnato qualcosa. La speranza non deve mai abbandonare i nostri cuori."

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