2001
Pearle era stata seduta a sinistra, dietro il lato del guidatore, dal giorno della nostra nascita. Aveva sempre avuto papà davanti a sé, così da poterlo vedere attraverso il vetro dello specchietto. Era così, praticamente da sempre. Un po' come quelle tradizioni e quelle abitudini che si portano avanti senza saperne davvero il motivo. Ecco, Pearle semplicemente si sedeva a sinistra.
Quel giorno, però, mi lanciai in un capriccio incontrollato. Dopo dieci anni di vita avevo deciso che il posto a destra non mi soddisfaceva più e desideravo con tutta me stessa provare il sedile che, da sempre, occupava la mia sorella gemella.
Tutto ciò che faceva arrabbiare mia sorella mi rendeva felice. Perché lei, senza troppi giri di parole, era la preferita. Pearle, da grande, voleva fare l'avvocato. Come mamma e papà. Lei era perfetta. Io no, perché al posto di giocare con toga e martello, prendevo in mano una matita e scrivevo. Scrivevo. Mordicchiavo l'estremità della penna quando ero nervosa, la picchiettavo contro il labbro quando pensavo. Io scrivevo.
Non c'era da meravigliarsi, quindi, se volessi stare al posto normalmente occupato da Pearle. Avevo appena bisticciato con papà perché non volevo accompagnarlo in studio. Lo faceva sempre. Obbligarci ad andare al lavoro con lui era il suo massimo hobby. Soltanto che a mia sorella non dispiaceva così tanto. Lei, nello studio dei miei genitori, si divertiva. Prendeva posto davanti alla grande scrivania di papà e indossava i suoi occhiali. Sfogliava i suoi libri preferiti e faceva finta di prendere decisioni importanti. Io, invece, mi annoiavo a morte.
Piagnucolavo sin da quando nostro padre aveva comunicato i programmi per quel giorno: da mattina a sera con lui, al lavoro. Perché la babysitter era malata. Accidenti a lei. Di conseguenza, quando salii in macchina dicendo di volermi sedere a sinistra, dietro di lui, mi accontentò. Non ne poteva più di sentirmi piangere. In quanto alla mia gemella, non avevo fatto molta fatica a convincerla. Le avevo promesso in cambio la mia toga nuova. Ancora lucida e pulita, semplicemente perché non l'avevo mai messa. Lei, invece, ci giocava ogni giorno. Mamma e papà la guardavano con un sorriso stampato sul viso, che spariva non appena mi notavano tutta intenta a scrivere qualcosa sul mio quaderno.
Pearle si sedette a destra. Io a sinistra. Normalmente era il contrario. Pearle si sedeva a sinistra. Io a destra.
E il camion si andò a schiantare esattamente contro la fiancata destra della macchina. Dove l'unico passeggero era la mia sorella gemella. Un colpo secco, che la travolse. Uno stop non rispettato, un semaforo non visto. Io e papà, sani come pesci. Non un graffio, non una frattura. Soltanto uno shock.
Mia sorella non c'era più. Ed era seduta dove ci sarei dovuta essere io. A destra.
Mi ero salvata grazie ad un capriccio.
Mia sorella non c'era più.
Un viso bianco. Cadaverico. Sembrava che mi fissasse. Occhi spalancati. Marroni, con pagliuzze verdi e dorate. Uguali ai miei. Io e lei, uguali in tutto e per tutto. Monozigoti, stesso DNA. Due caratteri che più diversi non si potevano trovare.
Mia sorella non c'era più.
Mamma arrivò di corsa. Piangeva, urlava. Scalciava, strillava. Piangeva, fissava il vuoto. Era scioccata. Papà non parlava. Osservava, da lontano. Portarono via il corpo di Pearle. Rigido, piccolo e bianco. Un corpicino magro.
Ero ferma, sul ciglio della strada. I miei genitori non mi rivolgevano un'occhiata. Dopo dieci anni in cui avevo sempre mantenuto il mio posto a destra, quel giorno avevo deciso di sedermi a sinistra. Mi ero salvata per un capriccio.
Nessuno parlò con me per giorni. Ero invisibile. Me ne stavo in camera e scrivevo. Una poesia di tre facciate del mio quaderno nuovo era tutto ciò che ero riuscita a fare. Tante volte non sopportavo mia sorella. Era così uguale a me, ma così diversa.
Lessi la mia creazione al funerale. Mi abbracciarono tutti i parenti. I vicini. Gli amici dei miei. I compagni di classe. Rimasi impassibile. Pietrificata davanti alla bara bianca. C'erano tanti fiori. Sulla tomba papà appoggiò la toga della mia gemella. La mia, nuova di zecca, era ancora nell'armadio.
Pearle Parker
2 marzo 1991 - 4 aprile 2001
Figlia meravigliosa. L'orgoglio dei suoi genitori. L'unica loro gioia. Mamma e papà ti ameranno immensamente, per sempreParole dure, quelle che i miei avevano fatto dedicare a Pearle. Lei, unica gioia. Io, solo un peso. Una delusione. Io scrivevo. Lei, invece, voleva fare l'avvocato. Come loro.
Mamma era diventata molto più dura nei miei confronti. Ero una bambina di dieci anni che aveva perso una sorella, l'unica, e non aveva mai ricevuto affetto. Se non dalla propria nonna, dalla quale, però, non mi era permesso andare. Perché durante il giorno stavo a casa con la babysitter e lei non mi poteva portare.
Mamma mi sgridava. Niente andava bene. La macchia sulla maglietta. Il peluche fuori dal cesto. Il libro con una leggerissima piega sulla copertina. Non avevo fatto apposta, ma era colpa mia.
Soffrivo. Ma mai un bacio, un abbraccio. Urla, sguardi duri. Questo mi meritavo. Questo ricevevo.
Papà era indifferente. Se prima ero invisibile, adesso non esistevo proprio. Non mi guardava neanche in faccia. Gli passavo davanti e si girava dalla parte opposta. Così, ogni giorno. Non c'ero. Avevo dieci anni, un cuore desideroso di amore. Ma, per loro, non c'ero. Non esistevo. Non contavo niente.
Pearle era morta. E con lei, ogni tipo di contatto con i miei genitori. In camera mia non entravano mai. Quando sentivo bussare mi riempivo di aspettative. Desideravo che mia madre mi avesse portato un regalo e che mio padre mi dicesse quanto era orgoglioso di me. Ma non l'aveva mai fatto. Perché io scrivevo. Pearle, invece, voleva fare l'avvocato. Come lui. Come mamma.
Dopo una settimana, o forse due, o magari anche di più, la babysitter mi comunicò che dovevo scendere in salotto perché i genitori desideravano parlare con me.
Feci i gradini a due a due, saltando. Volevo arrivare a piano terra il più velocemente possibile. Ero certa che mi avrebbero abbracciato, che avrebbero detto che mi volevano bene.
Ma stavano seduti sul divano, immobili, come pietre. Lo sguardo duro. Nessuna emozione riservata a me.
"Oggi verrai al lavoro con noi. Dovrai imparare come si fa, per il tuo futuro".
Papà era stato chiaro. Anzi, fin troppo chiaro. Ma io non volevo fare l'avvocato. Volevo scrivere.
"Mi annoio" replicai. Forse si erano dimenticati che era Pearle quella entusiasta, non io. Di solito mi lasciavano fare. Mi obbligavano ad andare con loro, ma si dedicavano soltanto alla mia gemella.
"Tu farai quello che ti diciamo noi. Senza se e senza ma".
Anche mamma era stata chiara. Anzi, fin troppo chiara. Ma io non volevo fare l'avvocato. Volevo scrivere.
"Non voglio fare l'avvocato, io.." piagnucolai. Ero una bambina di dieci anni. Non sapevo niente sul mondo del lavoro, niente sulla vita. Ma avevo capito che, se non mi fossi ribellata, i miei genitori mi avrebbero costretta a prendere il loro posto nello studio di famiglia. Ma io volevo scrivere.
"Phoebe, taci. Farai l'avvocato. Oggi verrai con noi" mi impose mio padre.
Quando tentai nuovamente di ribattere, mia madre distrusse la mia autostima.
"Saresti dovuta morire tu, al posto di Pearle. Lei si meritava la vita, lei avrebbe fatto l'avvocato. Sarebbe stata eccellente, la migliore. Tu, Phoebe, sei una delusione".
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Inconsapevolmente
RomanceDall'Alabama alla California con il suo pick up blu. Phoebe sta scappando da una vita che non sentiva più sua, o che non era mai stata sua. Stockton é il luogo giusto per inseguire i suoi sogni, cancellando tutto ciò che é accaduto prima del trasfer...