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Non c'era stato modo di farlo confessare. Non aveva voluto rispondermi, in quel momento. Diceva che non intendeva nulla di importante, ma era evidente che non fosse così. Che si portava un peso grande come un macigno, da solo. Avevo fatto solo finta di accettare le sue insensate giustificazioni, per non mettermi a discutere in un cimitero. Inoltre, non ero dell'umore adatto per insistere. Ma non mi sarei dimenticata di chiederglielo più tardi.

Eravamo tornati in hotel, andando immediatamente nelle nostre stanze per sistemare i bagagli e farci una doccia. Il giorno successivo saremmo partiti, per tornare alla vita di tutti i giorni. Nulla mi tratteneva più a Birmingham, ora che anche l'ultima persona per me importante mi aveva lasciata. Ma, soprattutto, ora che avevo finalmente mostrato ai miei genitori chi ero veramente. Christabel e Robert si erano trovati davanti non più una bambina impaurita e sottomessa, ma una donna matura e determinata. Ero fiera di me. Ma soprattutto, lo ero di Kyle. Nonostante tutto, sapevo benissimo che gran parte del mio cambiamento lo dovevo a lui.

Sospirai, asciugandomi il corpo, appena uscita dalla doccia. Mi vestii con dei comodi leggins ed una felpa enorme che mi copriva buona parte delle cosce. Mancava poco all'ora di cena, ma non avevo molta fame. Convinta che avrei ordinato qualcosa in camera, mi sdraiai sul letto, incantandomi a fissare le travi di legno del soffitto. In quel momento di apparente tranquillità, mi tornò alla mente il discorso avuto con Kyle al cimitero. Dovevo capire. E dovevo farlo subito.

Scattai in piedi, infilai in pochi secondi un paio di converse e afferrai le chiavi della stanza, prima di correre fuori. Camminai a passo spedito per tutto il corridoio, fino a trovare la sua camera. Pensandoci meglio, avrei potuto chiamarlo per avvisarlo. O almeno, mandargli un messaggio.

Ma poi, la smisi di farmi inutili paranoie. Ero stufa della mia incertezza, delle mie ansie. Avrei dovuto imparare a vivere la vita così come capitava, cogliendo al volo le occasioni, senza potermi pentire in seguito. Senza pensare troppo, agendo d'impulso. Solo in questo modo, sarei stata più libera e più leggera di esprimermi come meglio preferivo.

E così bussai. Tre tocchi decisi contro il portone, che si sentirono sicuramente forti e chiari anche all'interno.

L'espressione di Kyle in quel momento non potrei mai dimenticarla. Mi fissava, con le sopracciglia aggrottate e le labbra socchiuse. Non si aspettava di trovarmi lì, visto anche l'abbigliamento. Indossava soltanto un paio di pantaloncini corti - nonostante fosse inverno - ed aveva ancora i capelli bagnati che ricadevano ribelli sulla fronte.

"É successo qualcosa?" mi interrogó.

Scossi la testa. "Noi due dobbiamo parlare" annunciai seria, decisa più che mai a voler sapere tutta la verità. Qualunque essa fosse.

Mi intrufolai nella stanza senza dargli il tempo materiale di rispondermi, mi richiusi la porta alle spalle e mi voltai nuovamente verso di lui. Non si era ancora ripreso, anzi, sembrava sotto shock. Gli sorrisi timidamente, non resistendo alla tentazione di passargli una mano tra i capelli ancora umidi. Quel tocco sembrò risvegliarlo. Scrolló le spalle, mostrandosi indifferente. Eppure, dovevo riconoscerlo. Ero arrivata ad un livello di conoscenza tale da ricordare perfettamente i gesti che faceva quando era nervoso. E mostrarsi duro ed insensibile era la prima cosa. Poi, dava a me della orgogliosa che non accettava aiuto da nessuno. Anche lui non scherzava, in quanto a volersi arrangiare da solo.

"Devo ripetere tutto il discorso del cimitero, oppure te lo ricordi da solo?" gli domandai, mettendo la cosa sul ridere. Nonostante non vedessi l'ora di fare due più due e mettere insieme i pezzi.

Sbuffó, sedendosi sul letto a gambe incrociate e invitandomi a fare lo stesso. Si morse il labbro, evitando in ogni modo di guardarmi negli occhi. Eh, no. Non mi sarei lasciata fregare.

Gli presi il viso tra le mani, costringendolo a voltarsi nella mia direzione. Il blu delle sue iridi, dannazione, era sempre più spettacolare. Ogni volta che mi capitava di guardarlo, notavo quanto fosse più intenso, penetrante, avvolgente.

Il suo pomo d'adamo si mosse prima su e poi giù, segno che aveva appena deglutito. Lo osservai anche ispirare e gonfiare il petto, prima di mettersi a parlare.

"Intendevo dire che tu non hai nulla da farti perdonare, nei confronti di Pearle. Tu non hai fatto nulla. Non devi chiederle scusa" disse soltanto.

Io, in risposta, feci una smorfia contrariata. "E fin qui ho capito, Kyle. Quello che non riesco a spiegarmi é.. perché tu abbia detto che, al contrario tuo, non ho niente da farmi perdonare. Tu, che hai fatto?".

Chiuse gli occhi e se li massaggió con pollice e indice. Era evidentemente teso. Ed io soffrivo, tremendamente, per non poter fare nulla. Soffrivo perché non capivo, non riuscivo a spiegarmi quel comportamento. Soffrivo perché lui soffriva, e ormai la mia felicità dipendeva dalla sua.

"Quel giorno, io avevo avuto una partita importante di football. Era fondamentale, per il campionato. Contro la squadra più forte in assoluto del girone delle scuole superiori della California. Sarebbe dovuta essere la settimana precedente, ma il nostro coach si era ammalato. Per fortuna, gli avversari ci avevano concesso di rimandarla. Non ci importava che la data cadesse nelle vacanze natalizie. La nostra unica preoccupazione era vincere quella partita. Ci eravamo allenati duramente, con almeno due ore al giorno di lavoro intenso. La concentrazione era alle stelle, la forma fisica non poteva essere migliorata ulteriormente. Avevamo fatto tutti gli esercizi che conoscevamo ogni giorno, per mesi. Avevamo sacrificato tutti qualcosa, per quella partita. Da essa dipendeva parte del nostro futuro nel mondo del football. Anche eventuali borse di studio. Insomma, la data fatidica era il 28 dicembre. C'era un freddo pungente, ma l'adrenalina non ci faceva neanche badare all'aria gelida. Nulla ci avrebbe fermati. Faith non c'era, quel giorno. Anche se l'avrei tanto voluta con me. Ma aveva l'ecografia della nostra bambina, che batteva per importanza anche quella partita".

Al nominare la figlia, il suo sguardo si incupí ed una smorfia di dolore comparve sul suo viso. "Non ci riesco, Phoebe. Non ce la faccio" si lamentó, passandosi una mano sul volto.

Cercai di dargli forza, come lui aveva sempre tentato di fare con me. "Sí che ce la fai, tesoro. Io so che ce la puoi fare".

Al sentire come l'avevo chiamato, gli occhi si spalancarono all'improvviso. Non gli avevo mai dato nomignoli, ma quella volta era stato tutto assolutamente naturale. Anzi, nel rendermene conto, io stessa mi ero allarmata. Non era da me, lasciarsi andare a certe dimostrazioni d'affetto. Non so se per merito dell'appellativo o semplicemente per il concetto che avevo espresso, ma Kyle riprese a parlare.

"Abbiamo perso. Non c'è stato niente da fare. Erano troppo forti e noi.. troppo impreparati. Nonostante fossimo convinti di aver dato il tutto per tutto, probabilmente ci mancava ancora qualcosa. Non eravamo all'altezza, tutto qui. Al termine della partita avevamo il morale sotto terra. Io avevo proposto a Faith che sarei andata da lei, dopo aver giocato. Eravamo d'accordo che avrei cenato da lei e mi sarei fermato in pasticceria per portarle la nostra torta preferita. Eppure, ero così infuriato e deluso da me stesso che me ne tornai a casa. Passai mezz'ora nella doccia, incredulo che tutto l'allenamento non fosse servito a nulla. Soltanto quando la mia pelle era ormai raggrinzita, mi ero deciso ad uscire. Ed avevo chiamato la mia ragazza, dicendole che non ero dell'umore giusto per uscire di casa. Quella sconfitta mi aveva distrutto. Nemmeno l'idea di vedere una nuova foto della mia bambina mi dava voglia di reagire. Capisci? Una stupida partita era più importante di mia figlia. Che padre orrendo sarei stato?" si disperó, con un sorriso ironico e deluso sul viso.

Scossi la testa, negando con tutta la convinzione che riuscii ad accumulare. "Non é vero. Saresti stato un papà fenomenale. Anzi, sono certa che un giorno lo sarai" affermai, immaginando per un attimo un Kyle in miniatura. Con i capelli spettinati, gli occhioni azzurri. E bello come il suo papà.

"Risparmiati la pietà, Phoebe".

"Smettila!" sbottai "Perché non lo capisci? La tua vita non é finita!".

"Come puoi pensarlo? Ho ucciso io le donne che amavo. Come puoi dire che la mia vita non é finita?".

InconsapevolmenteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora