Ingenuità

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Il grande salone bianco assomigliava un poco a quello che ricordavo nei miei primi anni di infanzia, il grande finestrone illuminava l'intera stanza, le pareti immacolate riflettevano la luce del sole.

Io non ero lì con i miei capelli arruffati ed i vestiti sudici. Invece, ero lontanissima anni luce, seduta su sprazzi di vita passata mentre cantavo e ridevo insieme a mamma e papà. Percepivo ancora il rumore delle loro risate. Allora, il mio futuro non poteva prescindere da loro. Noi, insieme, eravamo un'unica cosa.

Che cosa ne è rimasto di quella bambina che, pensava ingenuamente, di avere nello stesso pugno presente ed avvenire?. Nessuna voglia di andare solo quella di restare. Io la trattenevo nell'angolo remoto della mia anima. Ma lei, impetuosa, correva ribelle e prendeva a pugni quella parte che desideravo rimanesse nascosta. Nessuno doveva sapere che dentro di me si celava anche il tenero.

Quando Alessio mi aveva chiesto dove fosse finita la mia eterna ingenuità, gli avevo risposto in modo sgarbato. Il nascondiglio segreto della mia innocenza non doveva essere svelato. Esisteva ma l'intuito mi ricordava che l'orecchio va teso solo per coloro che sanno prestare attenzione.

La donna che ci aveva ospitato mi osservava come se mi conoscesse da sempre. A lei, non avrei potuto nascondere nulla, neanche volendo.

«Sembrate smarriti e affamati. Accomodatevi qui, chiederò a Matilda di portarvi qualcosa da mangiare.».

Ci sedemmo titubanti. Una cameriera dagli occhi verdi e la pelle colore dell'ebano, poco dopo, ci portò pietanze di ogni tipo e con avidità ed ingordigia ci dimenticammo le buone maniere. Sembravamo predatori che azzannavano le loro prede. La donna che ci aveva accolto calorosamente, ora, sedeva di fronte a noi e sgranava gli occhi ad ogni nostro boccone. Stupita e spaventata. Queste erano le emozioni che potevamo leggerle sul viso. Non battemmo ciglio, i nostri ultimi giorni infernali ci avevano condannato ad un'esistenza primitiva.

Quando le nostre membra furono sazie e dopo un lungo silenzio, la nostra mente, fu presente nuovamente a noi stessi. Allora, lei, inizialmente immersa nei suoi pensieri e voltandosi verso di me, disse:

«... Tanto tempo fa, avevo una figlia che, mio malgrado, per diverse e terribili vicissitudini dovetti abbandonare al suo destino. Da allora ho vissuto nel tormento e nella speranza che, un giorno, l'avrei rincontrata. È passato tanto tempo. Non so come o quando, ma l'istinto mi avverte che qualcosa di bello sta per succedere...

Tu, mia cara, le somigli molto».

Una lacrima cadde dalla sua guancia e così, con tatto, le chiesi:

«Come si chiama?»

«Carlotta...», Rispose lei in un sussurro.

La vita segreta di CarlottaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora