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Una sferzata di vento mi fa saltellare sul posto. Nascondo il mento sotto la sciarpa avvolta malamente intorno al collo prima di uscire frettolosamente dal locale.
«Chi sei?»
Temo già la risposta. Mi sento persino una stupida per averlo chiesto, perché in cuor mio, conosco già chi potrebbe esserci dietro la cornetta.
Ride. Una risata roca, sensuale, in grado di toccare corde profonde mai sfiorate o raggiunte. Sento tremare le ginocchia.
«Sono io, il tuo Caro MisterX», replica con scherno tornando immediatamente serio.
Dietro la cornetta non percepisco alcun rumore. Nessun cambiamento.
Mi sento a disagio. Guardo verso la strada, il vicolo davanti poi dentro il locale. Zia Marin ride insieme a Dan mentre io sono bloccata sul posto. Qualcuno mi sta osservando.
«Ok, sei inquietante. Come hai fatto ad avere il mio numero? Se è uno scherzo sappi che ti farò passare le pene dell'inferno», minaccio.
Ride ancora. «Più che una gatta sembri una pantera. Lascerò correre la tua sfrontatezza solo perché pagherò fior di quattrini per te. Per la cronaca: non sei una scommessa anche se sto puntando tanto su di te pur non conoscendoti».
Mi irrigidisco maggiormente. «Non sono neanche la tua puttana», replico stizzita. «E sai una cosa? Non ho bisogno dei tuoi soldi sporchi. Me la cavo benissimo da sola. Va a farti fottere!» riaggancio sentendomi potente.
Con le guance in fiamme e i battiti sempre più in autentico, entro nel locale raggiungendo Dan e zia Marin.
Si accorgono del mio cambiamento d'umore ma non ne fanno parola. Probabilmente pensano che io sia ancora nervosa per prima.
Lascio correre cercando di non pensare minimamente a quella voce, quel tono così arrogante, sicuro.
«Vi riaccompagno a casa, datemi un attimo.»
Dopo il caffè, Dan si sposta in fretta dietro il bancone, dice qualcosa ai suoi dipendenti ed infine, togliendosi il grembiule, afferrando il cappotto nero dal piccolo ufficio che si trova al di là dell'arco che conduce anche verso il retro del locale e il bagno, torna da noi trascinando zia Marin in auto.
Lo vedo sereno. Lui è sempre stato così. Si arrabbia, dice quello che pensa e poi potrebbe fare invidia ad un monaco tibetano. Mi fa persino incazzare con quanta facilità riesce a superare ogni litigio mentre io devo ancora metabolizzare le sue parole, quello sguardo e poi la confessione celata dietro un commento acido.
Dan è un ragazzo fantastico, poco problematico. È il classico bravo ragazzo che ogni mamma vorrebbe vedere accanto alla figlia. Un po' come desidera zia Marin ormai da anni. Ma, non sa che con lui abbiamo avuto alti e bassi proprio a causa di questo. Perché ci sono sentimenti e sensazioni che è meglio lasciare andare. Sono nocivi. Danneggiano gravemente il cuore.
Imbronciata, mi siedo sul lato del passeggero accanto a lui mentre l'auto romba prendendo pian piano velocità. Incrocio le braccia guardando fissa la strada davanti a me. Le strisce bianche sbiadite, i semafori, i cartelli dei lavori in corso a deviare il passaggio.
Il viaggio verso casa è silenzioso. Non accendiamo neanche la radio per ascoltare le notizie. È come se in qualche modo nessuno dei tre dovesse aprire bocca, tagliando così quel lieve velo di tensione che, palpabile nell'aria, inizia a soffocarci.
Ognuno si gode il viaggio avvolto dai propri pensieri. Allontanandosi per pochi istanti dalla realtà.
Superiamo il parco, seguiamo la sfilza di auto ad ingorgare la strada.
Osservo i cartelloni pubblicitari, le luci, l'atmosfera di festa che inizia a sentirsi nell'aria.
Quando arriviamo davanti il cancello di casa mai aggiustato per mancanza di tempo, Dan mi fa cenno di aspettarlo in auto mentre accompagna zia Marin, assicurandosi che stia bene e che abbia tutto a portata di mano.
Ormai sa anche lui quello che le serve. È capitato che per non disturbarmi mentre ero a lezione lo chiamasse perché era caduta o perché aveva bisogno di prendere qualcosa.
Torna in fretta. Chiude la portiera strofinandosi i palmi freddi soffiandoci sopra.
«Prima che tu lo chieda le ho sistemato tutto a portata di mano. In ogni caso devo tornare al locale, non ti ruberò molto tempo», dice in fretta incespicando nelle sue stesse parole, affaticato dalla corsa e dal freddo preso.
«Dan...» provo a parlare iniziando a sentirmi in colpa per come l'ho trattato.
Mi succede sempre così con lui. Gli urlo addosso, mi arrabbio e poi mi sento terribilmente in colpa perché penso di averlo ferito abbastanza. Nonostante ciò, lui c'è sempre stato. Questo mi fa stare più male.
«Lasciami parlare Bi. Per anni siamo rimasti in bilico e per anni abbiamo fatto finta di niente. So che non vuoi rovinare quello che abbiamo e credimi, neanche io. Sei la persona più importante della mia vita e non voglio perderti o immaginare una vita senza di te», rabbrividisce al pensiero.
Lo vedo dai suoi occhi e dal modo in cui gesticola che si sta agitando.
Afferro la sua mano posandola sulla mia guancia. Un gesto che ho sempre fatto per fargli capire che ci sono. Che sono reale.
Lo facevo quando cadeva in preda al panico. Quando aveva uno dei suoi attacchi d'ansia e non riusciva a respirare.
«Ed è lo stesso anche per me. Smettila di sentirti in colpa per quel discorso. È acqua passata. Poi, sinceramente non mi faceva sentire a mio agio ballare per dei ragazzi ubriachi pronti a toccarmi o a mancarmi di rispetto in svariati modi», ammetto. «Neanche creare video seminuda, ma non mi vedono in faccia e mi fa guadagnare tanto, almeno tra qualche giorno non avrò più il pensiero di dover pagare ancora quella maledetta tassa all'ospedale».
Fa una smorfia. «Ma non smetterai», cantilena frustrato.
«No», sussurro.
«Io ti amo e lo sai», guarda davanti a sé stringendo la mano sul volante.
Sento come una folata di vento sul cuore. Un soffio che mi spinge ad avvicinarmi a lui. Mettendomi a braccetto, appoggio la testa sulla sua spalla, lasciando finalmente andare via la rabbia provata prima. Questa, infatti, si sgretola lasciando solo amarezza.
«Non succederà di nuovo», rispondo intuendo il flusso dei suoi pensieri. «Non ci allontaneremo come è successo tempo fa quando è arrivato Nic».
Si volta e finalmente mi guarda. «Non è stato facile.»
Mordo il labbro. «Sai che non mi sentirò mai in colpa per essermi innamorata o per avere provato qualcosa per Nic.»
Passa la lingua sulla gengiva contraendo la mascella. Parlare di lui, lo rattrista. Erano amici, nemici. Erano legati e soprattutto pronti a proteggermi da tutto e tutti, anche se non ne avevo bisogno. Litigavano, discutevano, si prendevano a cazzotti, ma alla fine rispettavano ognuno i confini dell'altro e, principalmente le scelte.
E lo so. La verità è che lui si sente come me. Sente quelle fritte quanto me. Ma come tutti i guerrieri, non mette in mostra il proprio dolore, se non quando non è un pugnale al petto a trafiggerlo.
«Lo so che era tutto per te. Un po' vecchio...»
Lo guardo male. «Sei sempre stato geloso. Non ti ho mai messo da parte per lui. Non ho mai rifiutato un tuo invito. Mai. Ho sempre bilanciato tutto perché per me hai sempre avuto un posto speciale. Ti ho sempre messo al primo posto. E non puoi negarlo.»
Annuisce abbassando il viso. Non mi allontano quando affonda le dita tra i miei capelli tirandomi a sé. «Credi che non lo sappia? Lui ti voleva tutta per sé e quando ci vedeva insieme provava sempre a separarci. Era uno stronzo!» esclama sorridendo.
Lo faccio anch'io ripensando a Nic. «Gli piaceva farti arrabbiare, ma non avrebbe mai sopportato di vedermi triste a causa tua... o sua.»
«Già», mormora tirandomi su di sé, facendomi sistemare a cavalcioni.
Non ho mai avuto paura di abbracciarlo o di sistemarmi su di lui. Ha sempre rispettato me e il mio corpo. Non ha mai allungato le mani. Ci siamo sempre protetti a vicenda, avvicinati all'unisono percependo l'uno il dolore dell'altra.
«Non avrebbe mai permesso che ci mettessimo insieme. Lo so che è stato lui a dirtelo.»
Apro e richiudo la bocca. «Nic non era di certo un santo. Non lo siamo neanche noi. Ad ogni modo, siamo ancora qua», alzo le spalle non sapendo più che cosa dire.
Parlare di lui mi farà sempre male. Farà sempre riaprire la ferita che ho nel cuore.
Io lo so bene come ci si sente quando hai tutto e ti ritrovi con un niente tra le braccia, nel cuore. So come ci si sente quando tutto crolla all'improvviso, senza preavviso e non sei preparato. E hai bisogno di qualcosa, di qualcuno a cui aggrapparti. Io lo so come ci si sente ad essere forti da soli.
«Stai attenta», sussurra con un filo di voce.
L'aria dentro l'abitacolo cambia. «Si, come sempre».
Contrae la mascella. «Conoscendoti farai qualche cazzata prima di fermarti», dice ancora a bassa voce guardandomi le labbra. «L'ultima volta ti sei fermata solo quando sei rimasta ferita».
Sorrido triste accarezzandogli una guancia.
Dan ha un viso spigoloso, a tratti anche dei lineamenti netti. La sua pelle è liscia, nessuna macchia ad intaccarla. Solo un piccolo segno sul mento.
«Andrà bene», strofino la punta del naso sul suo dritto.
Chiude gli occhi premendo la fronte sulla mia. «Che sta succedendo?»
«Stiamo crescendo», alzo le spalle.
Soffia dal naso. «No, non è solo questo, Bi», mi avvicina a sé premendomi contro il suo petto.
Afferro il suo viso. «Dan, Dan, Dan...» gioco con le sue labbra.
Una vecchia abitudine mai eliminata. Nic ne era parecchio geloso.
Dan sta pensando la stessa cosa. Senza preavviso, tira indietro il sedile mettendosi comodo. «Ti ricordi che cosa mi hai detto quando abbiamo litigato la prima volta?» Chiede guardando fuori.
Come dimenticarlo?
«Che niente e nessuno ci avrebbe separato. Che saremmo stati sempre e solo io e te. Amici, nemici, non avrebbe avuto significato o importanza perché quello che ci unisce è sempre più importante di ciò che tenta di dividerci o allontanarci. Ed è così. Siamo ancora insieme», ripeto.
«Esatto. Niente e nessuno, intesi?»
Alzo e abbasso la testa e lui approfitta del momento baciandomi. Preme le sue morbide labbra sulle mie provando a prolungare il bacio.
«Dan», lo allontano toccandomi il labbro morso nel tentativo di trattenermi. «Non possiamo continuare così. È strano anche per te», sguscio via dalla sua presa aprendo velocemente la portiera.
Mi sento confusa. Parecchio. Non so che cosa pensare o che cosa dire.
«Chiama quando arrivi, anzi quando torni in te», replico fredda sbrigandomi ad entrare in casa.
Sbatto la porta salendo velocemente in camera. Chiudo quella della mia stanza e nervosa, con un bisogno immenso di trovare uno sfogo, accendo il portatile collegandomi sul mio profilo avviando una diretta, riprendendomi solo dal collo in giù.
Ho bisogno di compagnia.
Attivo la chat infilando le cuffie per parlare direttamente con chi sta già accedendo e scrivendo. Ne approfitto per spogliarmi.
Tolgo il cappotto rispondendo alle domande su di me. Sono quasi tutte volgari, ma seleziono quelle più interessanti e alla quale posso rispondere senza imbarazzo.
«Che cosa ti piace fare quando hai un po' di tempo libero?» leggo.
Ci penso togliendo la sciarpa, facendo bene attenzione a non rivelare il mio viso.
«Mi piacciono molte cose. Sicuramente leggere, studiare, scattare foto, fare una passeggiata al parco o in centro, mangiare yogurt e frutta secca seduta su una panchina in mezzo alla natura. Mi piace anche dipingere, ballare, stare in silenzio», sto parlando a ruota usando un tono sensuale, basso. «Direi che avendo poco tempo libero non riesco a fare proprio tutto ma coltivo le mie passioni. Sono ciò che mi resta...»
In chat arrivano anche le ragazze facendomi sorridere con i loro commenti sarcastici e le loro emoji allusive.
«Che cosa ti fa arrabbiare?» leggo ancora una domanda accorgendomi dopo del nickname.
Mi irrigidisco togliendo il maglione, mostrando l'intimo che porto sotto. È scoordinato ma non mi interessa.
«Tante cose. Essere presa in giro principalmente. Non lo sopporto. Poi...» seduta sulla sedia inizio ad oscillare. «Poi mi fa arrabbiare chi pensa di conoscermi o di potere prevedere le mie reazioni. Chi si crede in diritto di giudicarmi o sottomettermi», dico bevendo un sorso d'acqua usando di proposito la cannuccia poi allontanando la sedia leggo la prossima domanda.
«Come stai?»
Sbottono i pantaloni sculettando per toglierli. «Non è una domanda alla quale mi piace rispondere».
Torno a sedermi. Controllo il conto e sorrido. La piccola live mi sta fruttando più del dovuto. Rispondo ancora a qualche domanda rimanendo in compagnia di estranei curiosi che, in qualche modo non mi fanno sentire sola.
«Adesso devo andare. È stato bello parlare con voi», chiudo la live, controllo le e-mail e mi butto sul letto.
Il telefono ronza. Non mi serve leggere il suo nome sullo schermo per capire che è di nuovo lui a chiamarmi.
Porto il telefono all'orecchio. «Ti avevo chiesto se avevi impegni questa sera, ma mi hai mandato gentilmente a quel paese».
«E sto per mandartici un'altra volta», rispondo a tono.
«Non lo farai».
Inarco un sopracciglio. «Ah no? Cosa me lo impedirà?»
«Mi chiamo Travis, ho trentacinque anni. Ti basta?»
Mordo il labbro sollevando le gambe attorcigliandomi una ciocca di capelli intorno all'indice.
«Uau fai progressi. Sto per riagganciare».
«Aspetta!»
Prendo un respiro. «Devi essere sincero con me. Come hai fatto ad avere il mio numero?»
«Sono bravo con i computer per questo ho avuto il tuo numero, so dove abiti e dove vai o ti trovi. E volevo stupirti ma tu hai stupito me», ride nervosamente. «Sei incredibile e la tua prima e-mail è stata esilarante. Nessuno mi aveva mai risposto così. Le prepari a casa queste battute o ti escono sul momento?»
Mi stendo supina. «Che cosa vuoi esattamente?» chiedo stanca.
Non esita. «Aiutarti».
Rido. «E come intendi aiutarmi? Dici di avere un lavoro per me ma ancora non l'ho visto. Dici di essere disposto a pagare per la mia purezza anzi, chiamiamola con il suo vero nome e senza imbarazzo: "verginità", ma ancora non ti sei presentato personalmente. Qualcosa non va in te, lasciatelo dire. Sembri più un bugiardo».
Segue un lungo silenzio nella quale credo sia appena caduta la linea ma non è così. Lui è ancora dietro la cornetta. Sento il suo respiro. Lento, controllato.
«Sai, non sopporto chi mi prende per bugiardo. Domani, presentati nel luogo che ti ho indicato nell'e-mail iniziale e ti ricrederai», sbotta in un tono più duro e incolore.
«Se è uno scherzo o una trappola sappi che lascerò indizi disseminati ovunque».
Ride. Nella sua risata noto una sfumatura diversa. È come se riuscisse a sciogliermi dentro qualcosa. A smuovere una parte di me incastrata a lungo in profondità.
«Leggi troppi libri dell'orrore, lasciatelo dire», continua a sghignazzare. «Nessuno ti farà del male perché nessuno qui ha intenzione di prenderti in giro o di toccarti. Rilassati e accetta», dice quasi con insistenza modulando il tono della voce.
«Mi rilasserò dopo avere capito di che si tratta», replico appoggiando la guancia sul cuscino.
«Perché hai terminato la live?»
Guardo la stanza. «Perché per me è tardi. Oggi è stata una giornata pesante. Inoltre non mi andava di rispondere a determinate domande.»
«Posso fare qualcosa per renderla più leggera?» Adesso usa parole pacatamente dolci.
Corrugo la fronte. «Sei davvero strano», mormoro trattenendo uno sbadiglio.
«Strano non è un aggettivo che mi si addice», risponde brevemente inacidito dal modo in cui lo sto giudicando.
Mordo il labbro giocando con la collanina. «Curioso, interessante, misterioso vanno meglio?»
Sento come il rumore di una poltrona che cigola in modo cupo. «Si, meglio», risponde secco.
«Che cosa stai facendo?» chiedo incuriosita.
«Prova ad indovinare», mi sfida.
«Sei a casa?»
«Direi di sì», conferma senza esitare.
«Sei seduto sulla tua comoda poltrona in pantofole e stai bevendo qualcosa, bourbon o un liquore diverso?»
Ride. «Mi stupisci. Niente pantofole ma si, sto bevendo bourbon. Da cosa l'hai intuito?»
Un sorrisetto mi spunta sulle labbra. «Non sei l'unico ad essere bravo in qualcosa», soddisfatta mi alzo dal letto scendendo al piano di sotto, dove aperto il frigo prendo gli ingredienti per una cioccolata calda.
«No, a quanto pare», sembra riflettere su qualcosa. «Posso provare ad indovinare anch'io?»
Caccio in bocca una cucchiaiata di cioccolata e marshallow. Vuole giocare?
«Fa pure», biascico sedendomi sul divano con un piede sotto il sedere. Accendo la tv inserendo il silenzioso per non svegliare zia Marin.
«Vediamo», emette un verso e sento tintinnare il ghiaccio dentro il bicchiere. «Stai bevendo cioccolata e mangiando qualcosa, direi marshm...»
«Sei uno stalker», spalanco gli occhi posando la tazza sul tavolo basso. «Inquietante», emetto un breve verso per fargli capire che sto rabbrividendo. «E cosa sto facendo esattamente mentre mangio e bevo cioccolata?»
«Se te lo dico mi darai ancora dello stalker», non sembra irritato.
«No, scusa. È solo strano che tu sappia così tante cose di me. Insomma, hai trovato il mio numero e hai anche azzeccato il genere di colazione che preferisco. A proposito, grazie era deliziosa».
Inspira lentamente. Sento il bicchiere cozzare sul vassoio. «Non era niente di straordinario, fidati».
Caccio in bocca un altro marshmallow. «Com'è andata la tua giornata?»
«Produttiva, divertente grazie al tuo messaggio, e monotona», sta camminando.
Non si aspettava una domanda del genere. È nervoso per qualcosa? Che cosa nasconde? E cosa più importante: perché non ho ancora avuto il coraggio di riagganciare?
La risposta mi arriva spontanea. Se non ho ancora trovato una scusa è perché in qualche modo mi fa piacere chiacchierare con qualcuno che non mi conosce e non si sente in diritto di potermi giudicare o dare consigli spassionati su come muovermi o su cosa fare.
«Avevi in mente di fare qualcosa questa sera?»
«Ti ho chiesto se avevi impegni perché volevo mostrarti un altro posto dove fanno del meraviglioso pesce, niente sushi», precisa infine. «Quello non è cibo.»
Non è tipo da sushi. Un punto per lui visto che ho sempre pensato di essere l'unica in questo mondo a non amarlo.
«Volevi invitarmi a cena dove mi sarei trovata di nuovo sola in un posto sconosciuto dove tutti mi servivano e riverivano?»
«Non ami la solitudine?»
«Non ultimamente», ammetto.
«Ti sarebbe piaciuto, fidati».
Mordo un'unghia alzandomi. Spengo la tv, lavo la tazza, tenendo tra la spalla e l'orecchio il telefono.
«Senti: non chiedo ad un uomo di viziarmi prima di prendersi qualcosa di... mio», arrossisco. «Non devi farlo per forza. Cioè, non devi per forza riempirmi di attenzioni. L'idea di partecipare all'asta, in fondo, è stata mia».
Sospira. «Mi credi ancora ultra cinquantenne?»
«Lo sei?»
Non mi occorre sentire la sua risata per capire che sta sorridendo. «No, non lo sono. E prima che tu aggiunga qualcosa sulle pillole blu sul comodino, il mio carissimo amico dei bassifondi sta più che bene, è in salute e non ha bisogno di un incentivo per sollevarsi. Adesso possiamo superare questo argomento?»
Chiudo la porta della stanza concedendomi un sorriso. «Cercherò di non riprendere questo argomento», lo rassicuro.
«Bene. Che cosa vuoi sapere?»
Ci penso su un momento. «Quanti anni hai?»
«Trentacinque tra pochi giorni».
«Quando?»
«Il trentuno.»
Mi scappa una risata. «Tu... sei nato il giorno di Halloween?»
«Ah, ah, si», replica stizzito. «Prossima domanda?»
Rifletto sedendomi sul letto. «Come mai io?»
«Ottima domanda. Risponderò dopo il colloquio di domani. Non dovresti essere a letto?»
Spengo la luce infilandomi sotto le coperte. «Sono già a letto. Non dormo molto in questo periodo».
«Lo presumevo. I miei dipendenti però, devono essere sempre pronti e non mi piacciono gli scansafatiche», replica riferendosi a qualcuno.
Inserisco il vivavoce e con una mano sotto il cuscino chiudo gli occhi. «A me piace lavorare. Mi impegno, davvero. Solo che non sempre viene ripagato.»
«Ti stai addormentando? Vuoi che riagganci?»
Nego. «No, parla», biascico. «Hai una bella voce», gli occhi mi si abbassano.
«È uno dei complimenti più strani e inquietanti che io abbia mai sentito. Ti ringrazio».
Sorrido. «Prego».
Il ronzio della sveglia sul comodino mi fa aprire gli occhi di scatto. Sollevo la testa e mi rendo conto di essere sprofondata nel sonno, ho il mento appiccicoso, pieno di saliva. Mi sono proprio addormentata come un ghiro.
Guardo il telefono sbloccando lo schermo e la chiamata è lì, non ho sognato niente. Travis. Il tizio strano, inquietante, MisterX, mi ha parlato cercando di mitigare la mia reazione impulsiva.
Mi alzo stendendo le braccia, infilo la vestaglia e scendo di sotto. Sto aprendo il frigo quando sento bussare alla porta. Due colpetti familiari.
Spalanco l'uscio e Dan con un sorriso mostra i sacchetti. «Vengo in pace», dice entrando in casa.
Chiudo la porta appoggiandomi al ripiano della cucina a braccia conserte.
Si muove a suo agio, aprendo il cassetto per prendere piatti e le forchette poi mi si avvicina.
«Pace?» strofina il naso sul mio.
Lo spingo puntandogli l'indice sul petto. «Solo se non provi più a ficcarmi la tua lingua in bocca. È come baciare il proprio fratello, non so se intendi quello che dico».
Le sue guance si imporporano. Abbassa il viso annuendo. «Ok, sorellina», dice minaccioso.
Non faccio in tempo. Afferrandomi per i fianchi mi solleva appoggiandomi sulla superficie, sistemandosi tra le mie gambe. Dalla mia bocca scappa uno strillo che lui lo attutisce baciandomi a stampo.
«Hai fatto pratica con me, ricordi? E non penso ti dispiaccia visto che bacio anche bene.»
Rido abbracciandolo, stringendo le gambe intorno alle sue. «Come farei senza di te?»
Mi si preme addosso schioccandomi forte un bacio sulla guancia. «E io? Sei la mia rompipalle preferita», dice staccandosi, raggiungendo zia Marin che, sentendo le mie strilla, la mia risata e la sua voce, lo chiama esprimendogli affetto. Non appena lui la raggiunge, alza di proposito la voce per farmi sentire quello che gli sta dicendo.
«Avete fatto pace?»
«Certo», replica allegro.
Mi abbraccio e poi mi rilasso godendomi la colazione con entrambi.
Non mi aspetto più niente dalla vita. Ho quello che mi resta. Ho quello che c'è: qualcuno con cui ridere, piangere, arrabbiarsi, sfogarsi, abbracciarsi; qualcuno con cui condividere ogni momento, l'odore di bucato, il te' verde allo zenzero, i biscotti al cioccolato, i tramonti, i libri da leggere, i telefilm da guardare sotto le coperte, la musica da ascoltare, il silenzio, i brividi sulla pelle, i battiti del cuore.
Ho quello che mi circonda. Quello che mi regala un altro respiro.
Anche se Dan insiste per darmi un passaggio, preferisco prendere la metro.
Il presunto colloquio di lavoro non è poi così lontano, ma per spostarsi a New York bisogna sempre valutare più opzioni; soprattutto quando pensi di essere in ritardo.
Dalla mia zona in disuso ben presto, uscita dalla metro, mi ritrovo ancora nell'Upper Est Side. Un luogo pieno di negozi costosi, alla moda, limousine in ogni dove e palazzi alti. Adoro osservare tutto con occhi da bambina sentendomi così piccola.
Seguo la mappa tracciata dal mio navigatore che mi porta un po' più lontana, in una zona isolata.
Per fortuna non sta piovendo. Anche se una lieve nebbia inizia a scendere rendendo tutto più interessante.
Il pallino rosso sullo schermo, mi dice di essere arrivata a destinazione. Mi guardo intorno un po' smarrita. Alla mia destra c'è solo una casa diroccata il resto: sono terreni vuoti.
Ricontrollo l'e-mail con l'indirizzo e non ho sbagliato niente.
«Che scherzo è mai questo?» mormoro fermandomi davanti al cancello arrugginito della vecchia villa.
Sbircio dentro alzandomi sulle punte dei piedi, trovando sul viale pieno di foglie secche a coprire come erba tutto quanto intorno, quello che conduce ad un portico con colonne alte piene di lesioni e una tettoia scoperchiata, un'auto d'epoca. L'unico elemento tenuto in buono stato rispetto a tutto il resto.
Il portone principale si spalanca lasciando uscire la figura minuta di una donna. Tiene le mani in grembo. Ferme in una morsa ferrea ad abbracciare una cartellina gialla al petto.
I suoi capelli castani sono raccolti in uno chignon basso. Indossa una divisa da cameriera grigia con il grembiule dalle rifiniture in pizzo bianco. Il naso all'insù, gli occhi felini, mi attende.
Superato il cancello, cerco di non perdere l'equilibrio ruzzolando e rovinando pericolosamente a terra, a causa dei buchi sul viale, costellato da pezzi di pietra incastonati a mosaico.
Le foglie scricchiolano sotto le suole nascondendo le trappole presenti sul terreno.
Il silenzio intorno mi mette a disagio.
Salgo il primo gradino del portico e questo scricchiola, mentre la donna davanti a me mi concede un breve sorriso.
Niente di informale o troppo formale. Una via di mezzo, direi. Eppure mi studia. Sento addosso i suoi occhi. Curiosi, mi si attaccano sulla pelle sin dal primo istante. Mi piacerebbe sapere cosa pensa, come mi vede.
«Buongiorno, lei deve essere la signorina Stevens. Sono qui per mostrarle la villa e presentarle il progetto per la ristrutturazione», dice in fretta come se lo avesse ripetuto così tante volte da avere paura di sbagliare.
«Lei studia architettura e design di interni, vero?»
«Trav... il signore non c'è?» Chiedo guardandomi intorno, allungando il collo cercandolo.
«Il signore è desolato. Aveva del lavoro importante da svolgere. Si scusa per l'assenza. Mi chiamo Nan Lester».
Dal retro sbuca un uomo in divisa scura da autista. Mi fa un cenno alzando il cappello e io ricambio sollevando la testa.
«Lui è Mitch Lester, mio marito», specifica.
«In che cosa consiste questo lavoro?» chiedo smaniosa di rifiutare e tagliare la corda. Non mi sento a mio agio qui.
Sembra tanto la casa di un film dell'orrore. Non voglio essere la protagonista che viene ammazzata dopo essere stata adescata per un rito.
Rabbrividisco persino al pensiero.
«Prego, mi segua», dice superando quello che dovrebbe essere il corridoio.
Le assi scricchiolano ad ogni suo passo su quei tacchi bassi che indossa con disinvoltura.
Stringo la presa sul manico della borsa entrando con lei. Alzo gli occhi e su di noi vi sono file e file bianche di ragnatele. Arriccio il naso sperando vivamente di non trovare addosso un ragno. Ho la fobia e rischierei di far crollare questo relitto di casa con un urlo, che sprigionerei in un batter d'occhio senza vergogna.
Guardandomi intorno seguo la donna che mi passa un casco giallo. «Non si sa mai», avvisa sparendo nella stanza a destra.
Guardo la parete piena di crepe, l'enorme scala mai coperta dal marmo o dal legno impolverata. È tutto apparentemente in disuso. Tutto lasciato a metà.
La donna si ferma al centro di una stanza ampia, vuota, piena di polvere e pezzi di intonaco caduti sul pavimento di legno coperto di buchi e assi sprofondate.
Faccio attenzione a dove metto i piedi seguendo le sue orme lasciate. Mi fermo a pochi passi da lei rimanendo in attesa.
L'odore persistente di muffa mi pizzica le narici.
La donna gira su se stessa guardando il soffitto a cupola malridotto e pericolante. Non riesco a leggere la sua espressione.
«Il signore mi ha chiesto di illustrarle tutto», inizia.
«Mi sembra ovvio», replico quasi scocciata dalla sua lentezza nell'espormi la proposta da questo fantomatico "signore" dei miei stivali.
Si ricompone cercando di non replicare alla mia pessima battuta. «Sarò breve. In poche parole lei dovrebbe ristrutturare questa casa da cima a fondo. Avrà un budget settimanale da usare e dovrà mostrare le modifiche al termine di queste per dargli la dimostrazione che tutto sta procedendo. Domande?»
Inarco un sopracciglio trattenendo una risata stridula. Mi prende in giro?
«Il tuo signore vuole me a dirigere dei lavori di ristrutturazione? Che scherzo è mai questo? Non può affidare ogni cosa ad una ditta?» la tempesto di domande e vorrei continuare se solo seguisse il flusso dei miei dubbi nonché dei miei pensieri. Mi fermo solo per riprendere fiato, dandole la possibilità di rispondere.
«Il signore ha detto che è l'unica qualificata al momento è che può gestire come meglio crede i lavori. In poche parole potrebbe chiamare lei una ditta. Quello che le chiede è un resoconto settimanale dei lavori. Per il resto è libera di agire come meglio crede».
La guardo a bocca aperta. Da dove esce fuori, dall'uovo di Pasqua? Mi crede così stupida?
Schiarisco la gola. «Vede... io non credo di avere le capacità per rimettere in sesto questa baracca», la indico e andando indietro il piede sprofonda in una delle assi. Mi ritrovo incastrata ma per fortuna non mi lacero la pelle. Tiro fuori la gamba mentre lei si avvicina di un passo, forse per assicurarsi che io stia bene. Un gesto premuroso, direi quasi materno.
Mi ricompongo guardandola con distacco e lei intuendo si ferma a pochi passi, la cartellina stretta al petto.
«Vede, il signore è sicuro che lei sia la persona più adatta. Concorderà un prezzo ragionevole a fine lavoro. Nel frattempo...»
La fermo. «Nel frattempo dica pure al suo "signore" che se vuole veramente che io mi occupi di questo rudere rischiando l'osso del collo, deve metterci la faccia incontrandomi personalmente ed esponendomi tutto quanto come da contratto. Con il dovuto rispetto per lei Nan, ma mandare una domestica a fare un colloquio è alquanto sospetto. Detto ciò io me ne vado. Non perderò altro tempo con questa messinscena da film dell'orrore. Mi sento presa in giro oltre che inquieta. Le auguro una buona giornata e mandi pure i miei saluti al suo "signore" fantasma», sbotto avanzando verso la porta principale rimasta aperta.
Sento il ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento mentre mi segue svelta per raggiungermi. Supero il portico lasciando il casco sulla staccionata avanzando sul viale più che infuriata.
«Signorina Stevens, aspetti», cinguetta con la sua vocina Nan.
Mi fermo voltandomi lentamente. Lei arresta la sua corsa. Le pupille le si dilatano impercettibilmente. «Posso essere sincera con lei?»
Apro le braccia. «Mi avete trascinata fino a qui, non vedo perché no», esclamo con sarcasmo.
Ho bisogno di una sbronza, penso mentre la osservo dondolare da un piede all'altro. «Il signore era davvero impegnato. Non l'avevo mai visto così agitato e se le ha dato la possibilità di salvare questo posto, significa che è la persona giusta per farlo. Prima non mi ha offesa in alcun modo. È vero: sono la domestica, ma ho anche un master in architettura e sono qualificata per fare i colloqui. Lui si fida del mio giudizio e a quanto pare io non ho dubbi sul suo».
In minima parte mi sento in colpa per essere stata tanto frivola, per essermi basata solo sulle apparenze. Solitamente sono molto più attenta. Purtroppo mi sento presa in giro e questo mi spinge ad agire bruscamente.
Incrocio le braccia. «In quanto suo datore di lavoro dovrebbe scegliere meglio la modalità di selezione. Io non ho niente contro di lei. Per quel che vale è sprecata per fare la domestica. Si nota da come cammina guardandosi intorno, da come parla e da come si pone, ma questo non cambia il fatto che il suo padrone deve metterci la faccia se vuole davvero offrirmi il lavoro che pagherà con i suoi soldi. La ringrazio per il tempo concessomi e buona giornata», giro sui tacchi superando finalmente il cancello dove cammino più svelta che posso per distaccarmene.
Quando raggiungo la prima sfilza di ville tenute in buono stato, colma di persone e domestici, mi rilasso rallentando il passo.
Mi godo la passeggiata sentendomi furente. Non mi aspettavo niente di simile. La cosa che più mi dà fastidio è proprio il fatto che lui, il fantomatico uomo d'affari che mi ha contattata, non abbia ancora avuto il coraggio di farsi vivo.
Odio parlare tramite uno schermo. Ancora di più non vedere le espressioni facciali.
Da quando ho perso Nic il mio modo di vedere le cose è cambiato. Non mi fido più tanto facilmente e non intendo perdere tempo proprio quando la mia vita rischia di prendere una brutta piega.
Con questi pensieri per la testa, anziché deviare verso un locale qualsiasi, dove sono sicura di potere commettere qualche grosso errore, torno a casa.

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