Indietreggio velocemente provando a chiudere la porta ma lui è più veloce. Come un animale pronto a mordere, preme la mano sulla superficie facendola sbattere contro la parete nella quale vorrei tanto eclissarmi, mimetizzarmi per riuscire a scappare. Perché ho una bruttissima sensazione dentro.
«Ti trovo in forma», dice avanzando.
Non ha un bell'aspetto. Gli occhi rossi, le labbra secche e screpolate, il naso umido. Sembra proprio un tossico.
Guarda ogni cosa come se stesse solo facendo un giro di ricognizione per memorizzare dove tengo tutto.
Mi sento a disagio, proprio come quella notte nel corridoio del locale. È iniziato tutto da quel momento, forse anche da prima. Ho sempre fatto troppe domande, troppe pressioni per ottenere ciò che mi spettava. Non sono mai stata invadente. Mai avrei immaginato tutto questo risentimento mostrato nei miei confronti. Soprattutto, mai avrei immaginato di vedere Patrick e non avere nessuno accanto a me.
Sono sola. Adesso sono davvero sola. Ma questa è casa mia e conosco ogni angolo. Posso difendermi da un possibile attacco. Ma posso difendermi da sola da lui?
Inizio ad avere i primi dubbi quando cammina toccando le mie cose con una certa sicurezza, sporcandole con le sue dita sporche. Lo sguardo furbo e acceso di chi sta per creare un certo scompiglio.
«Non posso dire lo stesso di te», rispondo a tono non riuscendo a trattenere l'astio nei suoi confronti. Non mi mostro spaventata. La mia voce non vacilla neppure.
Sin dal primo istante tra di noi c'è stato qualcosa. Entrambi nel conoscerci abbiamo capito di essere nemici naturali. Un po' come i leopardi e le gazzelle. I delfini e gli squali.
Con il passare del tempo, nonostante il lavoro a tenerci legati, non mi sono mai abituata ai suoi modi, ai suoi tentativi vani di trascinarmi in un vicolo con la scusa di una sigaretta per provarci o per farmi chissà che cosa. Con il passare dei giorni ha anche smesso, concentrando la sua attenzione su alcune delle mie colleghe, pensando che in questo modo mi avrebbe fatto ingelosire. Ma si sbagliava. Non ho mai avuto interesse per lui. Mi ha sempre fatto un certo ribrezzo come uomo. Ma solo per il mio lavoro che ho sempre svolto con professionalità. L'unica cosa che volevo era il rispetto, la serietà e la sincerità.
Adesso che lo guardo con profondo disprezzo, mi rendo conto di molte cose che all'epoca mi sono sfuggite. Forse per distrazione o per disperazione, non saprei dire. Ma, era a causa sua se quelle ragazze lavoravano solo per una notte e poi sparivano nel nulla. Nessuno ne sapeva più niente, tranne Dan ovviamente. Patrick le sceglieva appositamente per usarle e poi farle sparire licenziandole e Dan correva in soccorso per coprire tutto. Questo probabilmente anche per non farle parlare.
Si può essere tanto disgustosi?
«Hai sempre avuto la lingua lunga», dice scendendo il gradino che conduce in soggiorno dove sfiora il mobile basso di legno, la lampada posta al di sopra e la rivista che sfoglia svogliatamente è distratto da chissà quale pensiero. «Sei sempre stata tenace. Questo te lo riconosco», dice scostando una parte del cappotto. «Un po' troppo sulle tue, sempre sulla difensiva, distante, oppressiva, irriverente... a tratti insicura.»
Indossa un maglione a collo alto color panna, jeans neri stretti sbiaditi a causa dei troppi lavaggi. Quella cintura orribile e un cappotto nero sopra.
Mi fissa come ha sempre fatto, ma nei suoi occhi da traditore si cela dell'altro. Ha un piano ben preciso, mentre io sto solo cercando delle risposte e un modo per scappare.
«Solo perché ho sempre rifiutato le tue avance non significa che io sia una stronza senza cuore. Forse sei tu quello malato che dovrebbe lasciare perdere e accettare i no come risposta ogni tanto», replico indicando fuori dalla porta che lascio aperta di proposito perché almeno uno dei vicini potrebbe notare il dettaglio. Un piccolo segnale di pericolo da parte mia.
Anche se non lo dimostro, in realtà sto tremando davvero tanto dentro dalla paura. Mi sto sentendo braccata in casa mia. Mentalmente spero che la porta sul retro non sia chiusa a chiave, qualora ne avessi bisogno. Questo mi permetterebbe di scappare in giardino e urlare come una pazza svegliando il cane della vicina, che è sempre molto attento ai rumori.
Patrick contrae la mandibola incassando la mia offesa. Sale di nuovo sul gradino con uno slancio per farmi spaventare ma rimango ferma quando mi si avvicina sorridendomi come un clown. «Non mi chiedi perché sono qui?»
Faccio finta di rifletterci sopra. «No, in realtà non mi interessa saperlo. Non ho tempo da perdere quindi vattene da casa mia e farò finta di non averti visto. Non so se lo sai ma c'è un ordine restrittivo e non dovresti neanche trovarti ad un metro di distanza da me. Rischi davvero grosso in questo momento.» Mi gioco questa carta.
Contrae la mandibola serrando il pugno in vita. I suoi occhi vengono accecati dalla rabbia. «In realtà sono qui per cercare il tuo amico. Continua a scappare, a non rispondere alle mie chiamate. Così, mi sono detto: dove posso trovarlo se non dalla sua amichetta preferita? In fondo, ti sei presa una pugnalata per lui», alza il labbro in un ghigno macabro, raccapricciante, in grado di farmi rabbrividire nell'immediato. «Lui invece che cosa ha fatto per te quella notte se non metterti in pericolo?»
Fingo indifferenza e non volendo cedere alla sua provocazione rispondo: «Come vedi...» indico intorno. «Non c'è nessuno qui. Vallo a cercare da qualche altra parte.»
Con la coda dell'occhio, avendone occasione, controllo fuori cercando quella vicina che si trova in ogni momento dietro quella tenda. Ma, stasera non sembra esserci anima viva in questo quartiere così silenzioso da inquietarmi. È come se tutti sapessero del piano di Patrick di fare irruzione in casa mia.
«Ho pensato a molte cose», continua. Non sembra avermi sentita. La cosa inizia ad infastidirmi. «Ad esempio a quello che avrei fatto dopo essere arrivato in questo posto. Nella tua piccola casa», guarda il camino spento poi il tetto soffermandosi sulla chiazza di umidità con una smorfia. Si sporge persino come per accertarsi che io sia completamente sola.
Metto le mani indietro. Mi sento parecchio esposta. Ho notato come mi guarda e se lo conosco, non promette niente di buono la sua espressione.
«Rendimi partecipe», dico con nonchalance. «Vuoi un caffè?» prendo tempo prezioso indicando la cucina. Travis sarà qui a momenti, mi dico per calmarmi. In più questa breve distrazione mi darebbe il tempo utile per escogitare un piano e scappare.
«Io ti dico che sono venuto qui con altre intenzioni e tu mi offri un caffè?» ride come se avessi detto chissà quale assurdità. Dopo un breve lasso di tempo in, cui i miei nervi rischiano di saltare, torna a farsi serio. «Per chi mi hai preso?» ringhia freddamente. Mi fissa come lo avessi offeso o schiaffeggiato senza una ragione.
Mi appiattisco contro la parete poi però penso di avere una possibilità per cui mi avvicino alla porta lentamente mentre lui come un animale continua ad avvicinarsi, pronto ad attaccare. «Per uno stronzo che crede di potermi prendere in giro. Ecco per cosa ti ho preso», esclamo uscendo fuori dalla porta. Mi sento un po' meglio quando i miei piedi aderiscono al legno senza farlo scricchiolare troppo attirando così la sua attenzione. Il freddo mi regala un nuovo respiro che accetto ben volentieri, visto che in casa mi sentivo come se qualcosa mi stesse schiacciando.
Patrick avanza ancora. «Ma io posso. Non hai ancora capito?» sorride.
Cerco di comprendere il significato delle sue parole ma non ne ho neanche il tempo perché mi attacca tentando di afferrarmi. Corro sul viale emettendo un verso strozzato quando prova ancora ad attaccarmi. «Vattene da casa mia!» alzo il tono e finalmente il cane della vicina inizia ad abbaiare istericamente. Il mio sollievo interiore è più che evidente.
Patrick invece sembra infastidito, mi guarda con una furia in grado di attaccarmisi addosso generandomi dentro una paura che non avevo ancora sperimentato.
«Sei solo una stupida ragazzina», urla lanciandosi in avanti.
I miei piedi nudi gelati purtroppo scivolano sul terreno umido dopo un mio passo falso e lui ne approfitta per circondarmi un polso con la sua mano che ha una stretta molto simile ad una morsa d'acciaio.
Caccio fuori un urlo acuto, in grado di bruciarmi la gola, spingendolo. Non riuscendo a scrollarlo di dosso, mentre sento la puzza di nicotina e di gel emanata dal suo corpo diventare sempre più persistente e pestilenziale, gli mollo un pugno in faccia. Lo colpisco al naso con tutta la forza che ho sentendo un forte rumore di ossa che si spezzano e un certo dolore alla mano. Inizia infatti a pulsarmi. Patrick molla la presa tenendosi il naso dopo avere emesso un urlo di dolore simile ad un guaito. Le sue mani si imbrattano e quando si volta a guardarmi, indietreggio cercando di raggiungere la strada.
«Sai che fine fanno quelle come te?» dice con un tono di voce arrochito leccandosi le labbra. Dal naso continua ad uscirgli un fiotto rosso di sangue. Avanza barcollando, in parte stordito dal colpo. «Finiscono sempre fottute», ride e quando provo a correre per scappare mi si avventa addosso scagliandomi chissà come a terra.
Picchio le spalle nude contro le pietre del viale facendomi un gran male. Per un attimo non riesco neanche a respirare e tutto davanti a me diventa nero. Quando riemergo dalla nebbia, Patrick incombe su di me tenendomi ferma, tappandomi la bocca per non permettermi di urlare a pieni polmoni. Continua a sorridere in maniera grottesca, il sangue a colargli dal naso.
Giro il viso quando prova a baciarmi e mi dimeno urlando quando mi sfiora proprio come quella notte continuando ad urlarmi addosso parole e frasi improponibili che ben presto si confondono a causa del panico.
La mia mano cerca qualcosa. Mi sporgo verso la parte piena di erba secca con uno sforzo immane continuando a respingerlo, a farlo fremere e incazzare maggiormente. Le mie dita trovano qualcosa di appuntito, una pietra. Quando prova ancora a baciarmi, approfitto del momento per picchiarla sulla sua testa facendogli male.
Mi rialzo con uno slancio e inorridita, senza fiato, corro subito in casa dove provo a chiudere la porta come una isterica. Continuo infatti a urlare senza lacrime perché il panico mi costringe solo a tremare e a respirare pesantemente, dall'altra parte invece la mia mente crea scenari spiacevoli in cui inizia a prendere forma e nel vivo la consapevolezza che uno dei due questa notte non uscirà vivo da questa casa.
Patrick spalanca la porta dandomi uno schiaffo abbastanza sonoro da farmi barcollare all'indietro. Scivolo giù dal gradino andando a sbattere contro il mobile facendo schiantare a terra la lampada. Il frastuono generato dalla mia caduta, attira anche gli altri cani del vicinato che iniziato ad abbaiare senza sosta.
La guancia mi brucia parecchio. Sento in bocca il sapore del sangue a causa del piccolo strappo all'angolo. Questo va a mescolarsi a quello della bile che sale insieme alla rabbia. Lo guardo male e quando prova ad avventarsi su di me come un pazzo lo spingo facendolo sbattere contro la parete. Ancora una volta la tegola di mio padre va in frantumi. Questa volta però non mi perdo nel vagone dei ricordi. Anche se fa male, decido di pensare solo a me stessa, alla mia salvezza. Pulisco il labbro con il dorso della mano.
Patrick si rialza ed entrambi ci guardiamo in cagnesco, affannati. Come due animali che continuano a studiarsi. «Saresti stata un'ottima amante», sorride mostrando i denti ingialliti dal fumo delle sigarette adesso anche imbrattati di rosso. «Dividerti con Dan sarebbe stato un atto di pietà per lui. Come dargli una briciola. Perché sappiamo entrambi che non l'hai mai amato. Sappiamo entrambi che l'hai solo seguito per tenerlo d'occhio mentre lui continuava a tirarsi di strisce quando tornavi a casa», ride notando la mia reazione. Era questo il suo piano, mi dico mantenendo la calma, la voglia di attaccarlo come una pazza. Dan mi ha mentito ancora. «Oh, non lo sapevi? Il tuo caro amico non ha mai smesso. Ha sempre nascosto bene la sua piccola dipendenza. Dovevi proprio vederlo sdraiato su quel divano a fine lavoro mentre una di quelle ragazze glielo tirava su e lui continuava a parlare di te...»
Stringo le palpebre tappandomi le orecchie. No, Dan non ha fatto niente di tutto questo. Patrick sta solo usando la mia debolezza per annientarmi, per distrarmi. «Si eccitava quando gli sculettavi davanti e si arrabbiava quando come una stronza lo lasciavi con una scusa», sento il suo fiato vicinissimo.
Non oso aprire gli occhi. Ciò che faccio è solo tirare indietro la testa e colpire.
Patrick urla ancora in quel modo e provo a scappare ma con una forza spropositata tira a sé storcendomi il polso sbattendomi contro la parete. «Sei sempre stata una piccola stronza. Quelle come te meritano una lezione», urla rabbioso premendomi la guancia ancora una volta contro la parete. «E sai che cosa ho capito? Per fottere quel bastardo prima devo fottermi la sua piccola amichetta. Colpisco te e colpirò lui. Quindi adesso sta zitta», ringhia.
Mi dimeno e riesco chissà come, forse per istinto di sopravvivenza, a liberarmi e a scagliarlo a terra. Sollevo la lampada colpendolo poi corro verso la cucina aprendo il cassetto. Afferro un coltello minacciandolo mentre lui avanza togliendosi i rimasugli di ceramica dalla testa piena di ferite e sangue.
Deve essere successo qualcosa a Travis, penso controllando l'ora. Lui è sempre molto attento e puntuale. Con questa consapevolezza prendo coraggio. Me la caverò da sola. Proprio come ho sempre fatto, mi dico. Ho avuto alti e bassi, ma posso farcela. «Vattene immediatamente da casa mia!»
Ride. «Che cosa vuoi farmi con quello? So come disarmarti.»
Nego. «No, sei solo un bastardo che crede di potermi spaventare. Ma in realtà sei solo uno stupido che non avrà mai niente. Sei un fallito. Senza Dan o senza di me non sei niente. Ecco perché sei così arrabbiato. Non sei più nessuno senza di noi!»
Mi attacca. Finisco sul pavimento e mi disarma dandomi un altro sonoro schiaffo. Gli mollo una ginocchiata in mezzo alle gambe e rimettendomi malamente in piedi indirizzandomi verso le scale provo a salire nella mia stanza mentre lui se ne sta dolorante a quattro zampe. Sputa a terra del sangue, questo cola dalle labbra lentamente. Quando alza il viso mi immobilizzo tremando come una foglia. Fa paura. Ha lo sguardo da pazzo. Da animale incattivito dalle brutture della gente. «Questa notte credo proprio che manderò un bel messaggio al tuo Dan», ride ancora e saltandomi addosso dopo avermi strappato un pezzo del vestito, mi scaglia sulle scale facendomi sbattere forte la testa contro il gradino.
Non si avvicina oltre anzi, indietreggia più che divertito osservandomi. «Il piano A non mi interessa più. Sei rigida, non ci sarebbe il minimo divertimento», dice cercando qualcosa nella tasca del cappotto mentre me ne sto immobile, dolorante e in una posizione scomoda sulla scala di legno.
«Ma ho sempre un piano B. Fare sparire tutto sarebbe un gran bel colpo per il tuo Dan...» ride uscendo fuori dal cappotto una fiaschetta. La stappa bevendo poi sputa a terra il contenuto. Apre la porta della stanza di zia Marin guardando al suo interno e solo allora intuisco cosa sta per fare, specie quando afferma: «Sei solo cenere, Bambi. Un piccolo insignificante granello di cenere. Se credi di uscire viva da qui ti sbagli. Ho calcolato tutto», ghignando tira fuori dalla tasca una bottiglia di plastica con un liquido di colore rosa al suo interno.
Spalanco gli occhi. «No...» dico provando ad alzarmi nonostante il mio corpo sia come piombo.
Ride. «Prova a fermarmi», mi sfida. «Inizierò proprio da questa stanza. Da come hai appena reagito significa tanto per te», indica proprio quella di zia Marin. Spruzza ovunque il liquido infiammabile. Tira fuori dalla tasca una scatolina con i fiammiferi e dopo averne acceso uno, mentre mi aggrappo all'inferriata della scala provando a raggiungerlo, a fermarlo, lo lancia dentro la stanza che, in breve prende fuoco.
«NO!» urlo di qualche ottava sovrastando la sua risata. Procede con la cucina partendo dalle tende e in breve mentre provo a bloccarlo appicca un incendio anche in soggiorno infiammando le riviste lanciandole sul tappeto, sul divano. «Non ti avrà mai nessuno!» ringhia quando gli tolgo i fiammiferi dalle mani. Mi spinge ancora contro le scale facendomi male.
Non respiro, vedo tutto nero.
«Va all'inferno!» gli urlo contro cercando dentro la forza di combatterlo per metterlo al tappeto e per cercare di spegnere le fiamme.
Patrick lancia gli ultimi due fiammiferi e i rimasugli del liquido dentro la mia stanza e non ci vedo più dalla rabbia. Mi rialzo dal gradino e seppur malamente, dolorante, lo faccio cadere di sotto dopo una brevissima lotta. Rimane privo di sensi e io mi guardo intorno, avvolta dalle fiamme che avanzano e si innalzano fino al tetto. Ne sono circondata.
Dentro di me scatta un pensiero irrazionale e, anziché correre fuori dalla porta dalla quale cade una trave di legno sbarrandomi il passaggio, salgo nella mia stanza per salvare due delle cose che mi restano, che mi appartengono. Facendo attenzione alle fiamme, tappandomi la bocca per l'esalazione di fumo a pizzicarmi gli occhi, a provocarmi un colpo di tosse dietro l'altro, afferro la scatolina dal comodino, la giacca dal letto e le rose. Corro in bagno zoppicando, getto la giacca dentro l'acqua mentre le fiamme qui dentro scoperchiano il tetto dopo avere attraversato la tenda della vasca infiammando la carta igienica, l'asciugamano, i mobili.
Indosso la giacca bagnata stringendo al petto le rose e la scatolina. Provo ad uscire dalla stanza per lanciarmi dalla finestra, ma un'altra trave casca a terra facendomi indietreggiare. Mi ritrovo all'angolo, braccata. Il fumo è così forte da bruciarmi le palpebre, da farmi tossire e perdere il respiro. Scivolo contro la parete e lotto, lotto con tutte le mie forze per rimanere sveglia ma non ci riesco. Il fuoco, il calore, il fumo, la puzza di bruciato mi stendono.
«Bambi!»
Fa troppo caldo. Sento la gola secca e le ossa pesanti.
«L'hai trovata? C'è troppo fumo, non riesco a vedere niente.»
«No, non è qui. Aiutami a spostare questa trave...»
«Cazzo!»
«Bambi!»
Aprire gli occhi non mi riesce per cui apro la bocca. «Sono qui...» dentro di me sto urlando ma la mia voce non li raggiunge.
«Mitch, trova quel bastardo. Non deve essere poi così lontano perché la sua auto è ancora qui fuori. Usa le maniere forti. Bambi!»
«Non c'è...» un colpo di tosse da parte di Dan. «Bambi non c'è qui in mezzo. Potrebbe essere scappata in tempo. Magari in questo momento starà correndo spaventata proprio da te o da me e noi...»
«Invece sono qui...» sussurro. La gola mi brucia e ogni muscolo mi fa male.
«Se solo le ha fatto qualcosa io ti faccio fuori. È colpa tua!» Travis tossisce ma ha comunque il coraggio di ringhiare contro Dan, apparentemente nel panico.
«Bambi, dove sei?» urla disperato. «Che cazzo ti ha fatto?» piagnucola Dan spostando qualcosa, tossendo forte.
«Bambi!»
C'è una nota diversa anche nella voce di Travis. È stridula, troppo.
«Signore...»
Si sente qualcosa che scricchiola, un silenzio inquietante e poi un gran frastuono. «Cazzo! Questa non ci voleva. Adesso non possiamo controllare in camera. Dove sarà andata? Bambi!»
«Lei... dov'è?» sento urlare dal giardino.
Le fiamme continuano a divampare intorno a me avanzando sempre di più. Davanti, a pochi passi, c'è come un cerchio d'acqua caduta dal vaso, ma si sta asciugando a causa del forte calore presente dentro la stanza ormai quasi del tutto bruciata. Le assi del tetto scricchiolano tutte, l'intonaco continua a cadere a pezzi sul letto creando un gran rumore attutito dal piumone dalla quale si solleva un enorme polverone che va a mescolarsi al fumo. Tra poco mi ritroverò sotto le macerie, schiacciata e incapace di urlare.
Patrick ride ma in modo roco tossendo. «È morta!»
Sento una serie di imprecazioni poi il suo urlo. «Dimmi che cosa le hai fatto!»
«È intrappola!» ride. «Ferita. Probabilmente morta!»
Sento un urlo straziante. «Fermati!» Patrick emette versi striduli come un animale chiedendo pietà.
Di colpo torna il silenzio.
«Travis, non puoi. È pericoloso!»
«Signore...»
«No, non me ne vado da qui senza di lei. Non la lascio. È qui da qualche parte sotto le macerie. Non la lascio, hai capito? Non così! Non oggi!» urla disperato.
I miei sensi vanno e vengono. Me ne sto rannicchiata in un angolo. Le rose al sicuro, il loro profumo a confortarmi, così come la chiave.
Sento il suono delle sirene. Le urla di Dan e Mitch per fermare Travis deciso a trovarmi.
Le fiamme sono sempre più vicine. Sento dei passi, delle macerie che scivolano. «È qui!» urla disperato, forse anche sollevato. «Lei è qui!» prova a spostare a mani nude una trave facendo uno sforzo immagine mentre le fiamme divampano davanti a lui.
Un getto d'acqua irrompe dentro la stanza dalla finestra. Liberato il passaggio corre in fretta da me quando qualcuno lo aiuta a spostare i detriti caduti a farmi da sbarre.
«Bi...» picchietta le dita sulle mie guance dopo essersi accertato che io sia viva.
È disperato. Provo ad aprire del tutto gli occhi per rassicurarlo ma sono sfinita. «Bi, apri gli occhi. Andiamo...» mi scuote un po'.
Emetto un lamento. «Che cazzo ti ha fatto?» urla stringendomi al petto. «Che diavolo hai fatto?» sbraita rabbioso premendo le labbra sulla mia fronte.
La mia mano si posa sulla sua guancia o così spero di fare sentendomi sfinita. «Dovevo salvarle...» tossisco convulsamente per dare una spiegazione.
«Tu sei fuori di testa. Hai rischiato la vita per delle stupide rose...» mi stringe a sé rischiando di farmi male. Ma niente è paragonato al dolore che sento per avere perso la mia casa, ogni ricordo.
«Non sono stupide rose. Devo prendermene cura come...» non riesco a continuare.
«Signore, dobbiamo sistemarla nella barella. Controllare che non abbia niente di rotto o segni di aggressione...»
«No, me ne occupo io. Voi portate immediatamente quel bastardo in centrale e poi in carcere e fate in modo che ci rimanga. Tenetelo sotto osservazione h ventiquattro se necessario.»
Non riesco a capire con chi sta parlando perché i miei occhi sono appesantiti, continuano a bruciare fastidiosamente.
Mi solleva e stringo ancora al petto le poche cose che mi rimangono.
«Signore»
«Niente formalità, per favore. Sono solo Travis. Portiamo Bambi in ospedale. Chiama a raccolta tutti e manda a casa quei curiosi...»
«No...» piagnucolo. «Non mi ha fatto niente», dico con una voce non mia.
«Bambi è la prassi.»
«Non voglio essere toccata!» strillo tremando. «Ti prego...»
C'è uno strano silenzio.
«Dovete uscire da qui», urla qualcuno allarmato dal piano di sotto avvertendoci del pericolo.
Travis prende un respiro. Inizia a correre rischiando di scivolare tra le macerie o farsi male. Mi aggrappo malamente alla sua giacca prima di sentire un forte boato alle nostre spalle e un calore simile a quello dell'inferno raggiungerci. Dalla mia gola sfugge un singhiozzo insieme ad un breve urlo.
Travis mi sistema sul sedile nascondendomi dal vocio, dalle domande e dai flash. Anche Dan, seduto accanto contribuisce, ma mi attacco a Travis. L'unica persona che voglio vicino a me ora.
L'auto sobbalza quando Mitch parte quasi di corsa sgommando. Mi lamento sentendo male dappertutto.
«Dove ti fa male?» Chiede Dan.
Singhiozzo. Vorrei urlare ma non ne ho neanche le forze per farlo, per dirgli tutto quello che penso su di lui. Travis mi abbraccia. «Potevi morire», sussurra come se si stesse rendendo conto solamente adesso di ciò.
Infastidito, stacca le rose dalle mie dita. Provo a fermarlo ma mi rassicura. «Stanno bene. Le metto qui dietro poi Nan le sistemerà in un vaso con dell'acqua. Te lo prometto.»
Stringo la scatolina ma questa non me la toglie. Preme solo di continuo le labbra sulla mia fronte.
«È colpa tua», dice freddamente a Dan.
«Portami a casa», mormoro piagnucolando per interromperlo.
«Bi, devi farti medicare e visitare. Potresti avere riportato...»
«No, niente ospedali. Portami a casa tua», interrompo Dan rivolgendomi a Travis.
«Signore...» Mitch chiede incerto e silenziosamente dove andare forse perché è giunto ad un bivio, rallenta persino.
«Lasciamo questo stronzo a casa sua. Non lo voglio tra i piedi perché rischio di ammazzarlo e poi andiamo a casa», ordina secco.
Sbircio riuscendo ad aprire un occhio e sta guardando fuori dal finestrino del tutto assente. Non mi è difficile percepire i suoi pensieri. Mi avvicino ancora di più. Sento il suo cuore battere forsennato nel petto. Il suono si unisce al rumore del mio in procinto di spezzarsi irreversibilmente.
«Devo ricordarti che hai chiamato me per avere sue notizie visto che non rispondeva alle tue chiamate?»
«Ho avuto un imprevisto e quando ho provato a chiamarle per avvertirla, lei non ha risposto. Così, non riuscendo ad arrivare subito da lei ho chiamato te sperando al contempo che fossi con lei. Invece...» stringe forte il pugno sul labbro.
Cerco la sua mano aprendola, portandola al petto. «Vi prego, smettetela. Non ora. Smettetela. Solo per qualche minuto...» sussurro.
Il viaggio in auto è pieno di tensione a cui si aggiunge il malessere, la tristezza, una forte nausea. Lasciamo Dan, non propriamente d'accordo, nel suo alloggio attuale infine ci spostiamo all'appartamento, dove Nan ci apre la porta. Spaventata esclama a gran voce: «Buon Dio, che cosa le è successo?»
«Metti quelle rose in un vaso. Fa in modo che non appassiscano o non si rovinino e portale in camera sul comodino. Disdici tutti gli appuntamenti, le riunioni di lavoro e per favore, non fare entrare nessuno in questo maledetto palazzo. Siamo in un grosso guaio», la guarda complice.
Nan esegue nell'immediato ogni suo ordine mentre Travis, infuriato, pensieroso, mi porta in bagno dove sistemandomi dentro la vasca, sedendosi a terra dopo avere tolto la giacca con rabbia, sfilato via anche la cravatta, mi guarda.
Porto le ginocchia al petto. Tengo ancora la scatolina. Sono tutta sporca, ferita e dolorante.
«Che cosa hai lì...»
Gliela mostro. Lui la apre facendo una smorfia. «Sei corsa in camera anziché fuori per questa e per le rose?»
Annuisco di fronte al suo sguardo che urla: "stupida", togliendomi la giacca bagnata e appesantita ormai sulle mie spalle. «Non potevo uscire fuori e non volevo lasciarle lì. Mi hanno salvata. Tu mi hai salvata», poso il palmo sulla sua guancia.
Si stacca posando la scatolina sul ripiano, in bella vista forse per non destabilizzarmi. Prende una saponetta dal mobile passandomela insieme ad un bagnoschiuma e una candela che accende riempendo il bagno di un profumo tenue. «Hai bisogno di un bagno, poi te ne andrai dritta a letto.»
«Ok», sussurro con gli occhi pieni di lacrime.
Travis mi abbraccia e io mi aggrappo a lui pur tossendo. «È stato orribile...» piagnucolo sotto shock.
Scioglie l'abbraccio e senza dire niente aprendo il rubinetto riempie la vasca. Mi abbraccio guardando la saponetta tingere di azzurro la schiuma e tutto quanto ma non mi muovo.
Travis si alza camminando avanti e indietro. Tolgo il vestito appallottolandolo con uno sforzo immane lasciandolo cadere fuori dalla vasca. Mi fa ancora male il polso, credo di essermelo slogato. Muovo malamente le dita con una smorfia prima di strofinare via il sangue, le macchie scure della cenere.
Travis mi si avvicina con una spugna. Chiede silenziosamente il permesso sfiorandomi la pelle. Drizzo la schiena come un gatto quando mi sfiora la spalla e lui si ferma.
I suoi lineamenti si induriscono. Mi abbraccio singhiozzando e non riuscendo in parte a sostenere la mia debolezza e lo strazio, si alza. Esce dal bagno lasciandomi sola e scivolo un momento sul fondo prima di riemergere boccheggiando. Mi lavo piano. Quando ho finito, alzarmi malamente dalla vasca, avvolta dal morbido accappatoio, supero lo specchio e senza guardarmi esco dal bagno.
La luce della camera da letto è accesa ma quando muovo i piedi sul pavimento riscaldato sbirciando al suo interno, non trovo nessuno.
Mi stendo sotto la coperta tirando fin sopra il mento il lenzuolo. Fisso davanti a me cercando un compromesso con il mio cuore in frantumi.
Nella vita mi sono sentita così fuori posto, così inadatta e diversa. Mi sono sentita così male dentro, fuori. Ho provato disagio nella mia stessa pelle. Ho odiato me stessa così a lungo, provato rabbia, tristezza, amarezza, risentimento, così tanti sentimenti e così tante sensazioni che adesso mi sembra tutto inutile, superficiale. È come se non provassi più niente.
E poi arriva quella sensazione di apatia in grado di spegnere ogni tua energia. La senti. Hai lottato di continuo e alla fine qualcosa ti ha sconfitto. Sei a terra. Sei inerme. Sei spento. Se solo provassi a rialzarti cadresti letteralmente in frantumi.
Infine basta qualcosa: un ricordo, una parola, una frase, un gesto, un'immagine. Dentro di te si innesca uno strano meccanismo. E quando senti di nuovo dolore, quando ti travolge: è come se non provassi niente. Un pizzicotto ti farebbe più male ma solo fisicamente. Perché hai vissuto a lungo e così tanto nel dolore da abituarti, da iniziare a conviverci.
Alla fine impari molte cose. Ad esempio che anche i muri di cemento armato prima o poi cadono. Crollano giù con un niente. Diventano polvere. Arriva poi il vento spazzando via tutto. Spezzandoti.
Travis entra in camera solo dopo un po' di tempo. L'ho sentito, parlava al telefono con qualcuno, sbraitava e poi lo schianto di qualcosa che va a terra con una forza incredibile. Spegne la luce dal suo lato stendendosi a fianco. Non mi tocca. Rispetta il mio confine. Ma è terribilmente silenzioso. Un po' troppo attento.
Rimaniamo a lungo in silenzio. Alle narici mi arriva l'odore delle rose insieme al suo. Mi avvolge riscaldando il mio corpo ancora ricoperto di brividi e paura.
«Posso abbracciarti?» Chiede spezzando tutto.
Indietreggio per dargli una risposta positiva e lui mi circonda il ventre con le braccia. Appoggia il mento sulla spalla mettendosi comodo. «Hai un pigiama?»
«Non ho più niente», le labbra tremano e le mordo nel tentativo di tenere a bada ogni cosa. Soprattutto quei pensieri che rischiano di distruggermi.
Travis esita poi mi bacia una guancia alzandosi. Rimango nella stessa posizione, non mi muovo, non sbircio, non mi agito. Continuo a fissare davanti a me con occhi appannati dalle lacrime, dalla rabbia e dal senso di perdita che mi attraversa ad intermittenza mescolandosi all'apatia. Lievi scariche a raggiungere la mia pelle coperta dal morbidissimo accappatoio che profuma di bagnoschiuma e ammorbidente. Ma, riesco ancora a sentire la puzza di bruciato.
Travis si inginocchia davanti. Tiene la valigia accanto a sé. Aprendola, tirando la cerniera, sollevando una parte imbottita e piena di tasche al suo interno, fruga con accortezza sollevando il mio pigiama morbido grigio topo con un coniglio di schiena in rilievo sulla pancia. «Ti va di mettere questo?»
Lui indossa un pigiama molto simile ad una tuta di un blu scuro. Mi destabilizza questa sua delicatezza. Questo suo trattenersi quando al contrario so che vorrebbe solo mettere tutto a soqquadro o peggio: uccidere quel bastardo. So come ci si sente quando hai tanta rabbia dentro e l'unica cosa che puoi fare non è scaricarla all'esterno ma lasciarti abbattere dall'interno. So come ci si sente quando vuoi perdere il controllo ma non puoi perché devi essere forte per te stesso, per gli altri.
Provo ad alzarmi tenendomi l'addome. Se ne accorge ma rimane con il mio pigiama tra le mani. Slaccio l'asciugamano indossando prima il sopra poi il sotto lamentando un dolore lanciante alla caviglia che è gonfia, alle costole, al polso.
Travis stringe i pugni in vita. «Prendo del ghiaccio», non riesce a guardarmi negli occhi.
Rimasta sola provo ad alzarmi. Ci metto un paio di minuti per reggermi bene in piedi. Con il braccio intorno all'addome, zoppicante, cammino fuori dalla stanza lungo il breve corridoio. Trovando appoggio alla parete raggiungo la cucina.
Vedendomi arrivare lascia scivolare sul pavimento il ghiaccio che tiene in mano. Corre subito da me. «Che diavolo fai?»
Lo abbraccio ignorando il dolore. «Non è colpa tua. Non pensarlo nemmeno», la voce mi esce distorta. Lascio sfuggire un breve lamento.
Mi sorregge affondando le dita tra i miei capelli bagnati. «È colpa mia invece. Non avrei mai dovuto ritardare così tanto io...» non regge il mio sguardo. «Potevi morire e io...» scuote la testa staccandosi, stringendo i pugni sul ripiano della cucina. Quando li picchia lanciando un urlo, sussulto. Mi avvicino. «Non è colpa tua. Sono stata io tanto stupida da tornare dentro anziché scappare. Non volevo farti preoccupare o rovinare tutto... mi dispiace...» piango. «Ero così contenta di vederti e stare con te. Ma le cose non vanno mai bene per quelle come me.»
Scrolla nervosamente la testa. «Si, sei stata irresponsabile», urla tremando. «Non ho pensato... non avevo tempo io...»
«E a me ci hai pensato invece?» urla. «Io senza di te dove cazzo vado, me lo spieghi?»
Singhiozzo e mi fa male tutto. Se ne accorge e mi prende delicatamente in braccio. Provo a rispondere ma lui mi mette subito a tacere baciandomi forte la fronte. «Adesso ti stendi a letto e non mi fai preoccupare più, ok? Mi prendo io cura di te e per una volta lasciamelo fare. Non sei wonder woman.»
Mi lascio aiutare e quando mi rimbocca la coperta afferro il suo viso. «Non lasciarmi più da sola», sussurro contro le sue labbra che disperate ricambiano il mio bacio facendo attenzione ai lividi, alla ferita all'angolo. «Rimani allora.»
«Va bene», sussurro.
Esce dalla stanza tornando con il ghiaccio, un vasetto di crema e una fascia per il polso. Con meticolosa cura medica tutto quanto.
«Ti fa male?» passa una crema simile ad un antidolorifico sulla costola.
«Non quanto quello che mi rievoca», ammetto a bassa voce. «Trav...»
«Si?»
Gli tolgo tutto dalle mani. «Non puoi salvare sempre tutti.»
«No, non posso. Ma non azzardarti mai più a farmi una cosa del genere», dice con rimprovero. «Adesso mi spieghi perché cazzo sei corsa a prendere quella dannata chiave?»
Lo abbraccio d'impulso. «Perché sei tu la casa dove voglio abitare. L'ho capito tardi ma è così», sussurro stringendo la presa a lungo, fino ad avere male alle braccia, fino ad addormentarmi.♥️🎄
STAI LEGGENDO
Come proiettile nel cuore
RomanceNessuno ha una vita come quella raccontata nei libri o vista nei film. C'è sempre un ostacolo da superare, un nuovo dolore da sopportare, certo, ma alla fine tutto si conclude positivamente. Per Bambi non è andata così. Non crede più nelle belle fa...