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Non puoi desiderare tanto qualcosa senza farti del male, senza rischiare. Ed è proprio questo a frenare le persone: la voglia di mettersi in gioco per paura di ferirsi. L'istinto di affrontare la vita vivendo alla giornata anziché frenarsi. Ma non c'è verso. Perché siamo abituati a scappare, ad agitarci, ad aspettarci il peggio. Ed è in questo modo che tutto si mescola generando il caos sia dentro che fuori.
«Ho vinto di nuovo», zia Marin mi guarda da sopra la montatura indossata per giocare a carte.
«Un'altra?» mescolo subito le carte per una nuova partita.
Liscia la coperta buona sulle gambe facendo una smorfia mentre la medicina le viene somministrata. «Sono giorni che sei distratta. Mi vuoi dire che ti succede? Tu non hai mai perso una partita.»
«Niente. Oggi deve essere il tuo giorno fortunato», guardo fuori dalla finestra dove il tempo incerto rende questo posto un rifugio caldo in cui passare le giornate.
Zia Marin mi toglie le carte. «Stai passando ogni giorno qui dentro a sopportare ogni mia lamentela o richiesta. Non hai mai alzato la voce. Non ti sei mai innervosita. Sei rimasta... immobile. Non è da te. Mi sto preoccupando, Bi.»
Sospiro. Alzandomi riempio un bicchiere di spremuta trangugiandolo. È deliziosa, fresca, non troppo dolce.
«Non devi. Sto solo passando del tempo con te. Non abbiamo avuto un bel momento.»
Soppesa il mio sguardo. «So cosa ha fatto Dan. Ti devo delle scuse anch'io. Ma non devi essere tu quella a rimediare.»
«Va tutto bene. Lo faccio per passare del tempo insieme visto che ne ho a disposizione. Allora, giochiamo o facciamo a gara a chi crea una sciarpa nel minor tempo possibile?» sorvolo sul discorso.
«Perché invece non mi parli di ciò che provi?»
Il mio equilibrio vacilla. Ultimamente sono in perenne lotta con me stessa. «Non c'è niente da dire.»
Stringe le labbra sentendo la mia risposta breve e in parte brusca. «Sei troppo calma.»
«Ho tutto sotto controllo», parlo ma non ne sono poi così tanto sicura. Il mio mondo continua a sfaldarsi. Sto facendo uno sforzo enorme per tenerlo in equilibrio.
È vero: non ho dato di matto. Non ho avuto reazioni esagerate. Sembra persino che io sia riuscita a perdonare facilmente Dan. Ad essermi sottomessa ancora una volta al suo volere. In realtà, provo dentro un forte senso di rabbia che si mescola al contempo alla paura. Paura di non riuscire più a reggere, di perdere il controllo, di impazzire. Per questa ragione mi sto aggrappando a tutto in mezzo al niente che sento che mi circonda. Non sto avendo le reazioni che tutti vorrebbero vedere. Sto letteralmente implodendo.
Ancora una volta, zia Marin mi osserva. «Avere tutto sotto controllo non significa non avere bisogno di niente. Sembri una pentola a pressione. Stai correndo il rischio di esplodere e farti molto male.»
L'infermiera ci raggiunge interrompendoci con un sorriso dolce. «Per oggi abbiamo finito.»
Zia Marin non nasconde il suo malcontento. Odia i sorrisi di cortesia in un momento così buio della sua vita. Odia persino chi la tratta con troppa riverenza facendola sentire proprio una malata terminale. Preferisce le chiacchiere, le risate vere, quelle che ti tolgono persino il respiro, i rimproveri, i battibecchi.
Inizio a sentirmi male per lei. Non è facile stare in un posto come questo quando vorresti già essere altrove. Quando qualcuno a cui vuoi tanto bene si ammala, con il passare dei giorni, un po' ti ammali anche tu. Perché vedere soffrire chi ti ha fatto stare bene è come essere privati da ogni energia. Io mi sto sentendo così in questi giorni. Ma non lo mostro. Non posso. Devo dimostrarmi forte.
«Lasci, faccio io», dico trascinando zia Marin in camera al secondo piano. Lei sembra apprezzare l'infermiera, una ragazza della mia età, con una coda bassa bionda con sfumature di colore più chiaro, occhi castani allungati, un po' meno. Mi segue tenendola d'occhio ad ogni passo.
Rimaste sole nella sua stanza l'aiuto a stendersi perché so che si sente quasi sempre male dopo ogni seduta. Tiro la poltrona accanto al letto e recuperando un libro di poesie gliene leggo qualcuna.
Ad occhi chiusi ascolta le parole romantiche e forti dello scrittore scelto, tenendo le mani a coppa sul cuore. Respira lentamente come se sentisse contemporaneamente la musica uscire da un pianoforte. Poi però apre gli occhi squadrando tutta la stanza come se la vedesse per la prima volta.
Mi appare smarrita. Questo solo per pochi istanti. Quando mi guarda battendo freneticamente le palpebre, riconoscendomi, ricorda di nuovo tutto.
«Smetti di leggere quel dannato libro per depressi e parlami di Dan.»
Una fitta mi colpisce. Sento i punti di sutura saltare uno ad uno dal cuore. «Non c'è niente da dire su Dan. Quello che so è che si reca alle sedute da uno specialista. Temporaneamente ha lasciato il lavoro al locale e si sta occupando di se stesso. Lavora solo di giorno. La sera è impegnato con il suo gruppo di supporto. Non ci siamo visti. A quanto pare è meglio per lui prendere le distanze.»
Assimila ogni informazione. «E tu?»
«Io? Io cosa?» massaggio la fronte sentendo in arrivo un gran mal di testa.
«Di te che mi dici?»
«Sai già tutto quello che faccio.»
Lecca le labbra bevendo un sorso di acqua. «C'è una nuova persona nella tua vita. Dan mi ha detto che ti sei innamorata...» lascia in sospeso il discorso per vedere se intendo continuare o se mi agito sulla poltrona come una bambina.
«Dan parla troppo e tu dovresti essere meno pettegola.»
Poso il libro di poesie sul comodino alzandomi, sistemando la poltrona. Le scosto le tende per permetterle di vedere il cielo e quando mi accorgo che si sta appisolando le rimbocco le coperte spegnendo la luce e la candela.
Mi avvicino per darle un bacio. «Se è un bravo ragazzo non allontanarlo», sussurra. «Ultimamente lo fai con chiunque e non ti succedeva dalla morte di Nic.»
Sento il suo respiro regolare e il frastuono del mio cuore urtato dalle sue parole. «Il problema è che lui allontana me, di giorno per lo meno. Per questa ragione mi sto prendendo del tempo per chiarirmi le idee. Devo capire quello che voglio e se sono pronta a rinunciare alla luce.»
Indosso il giubbotto, infilo il berretto con il bonbon, sollevo la borsa in spalla ed esco dalla stanza lasciandola tranquilla.
A pochi passi da me trovo il dottore. Vedendomi si avvicina. «Signorina Stevens. La trovo... stavo dicendo bene ma in realtà sembra tanto spossata. Non assume le vitamine?»
«Sto bene. Ho solo bisogno di una lunga dormita. Allora, ci sono novità?»
Fa una smorfia. «Mi dispiace.»
«Andrà meglio la prossima volta», mi illudo.
«Si», dice e chiamato da un infermiere, scusandosi, si allontana.
Esco dalla clinica prendendo un taxi per spostarmi alla villa. Ultimamente non riesco ad arrivare in tempo usando i mezzi pubblici. Apro il finestrino lasciando entrare nell'abitacolo che odora di frittura, l'aria fresca, chiacchierando con il tassista. Un docile vecchietto parecchio allegro. Faccio in bocca una vitamina ricordandomi delle parole del medico rilassandomi sul sedile.
«Le auguro una buona giornata», una volta fuori dal taxi saluto il conducente di cui non ricorderò mai il nome, superando il cancello spalancato.
Trovo l'auto di Mitch posteggiata sul viale. Entro un po' in crisi ma so già che Travis non avrà mai il coraggio di farsi vedere con così tanta gente intorno.
Sorrido agli operai impegnati a lavorare sulla facciata. Uno di loro mi passa il casco e lo indosso dirigendomi al piano di sopra dove stiamo terminando i ritocchi della camera da letto e del bagno.
Supero il telo di cellophane entrando proprio nella camera da letto dove un ragazzo, un pittore straordinario, sta dipingendo il tetto.
È stata mia l'idea di far ricreare un cielo stellato, in modo tale che quando si spegneranno le luci, le stelle fosforescenti faranno la loro comparsa.
Annuso l'aria piena dell'odore acrilico spostandomi nel bagno dove apro i grossi cartoni. Sfioro la soglia di marmo posta sul ripiano dove vi sono due lavandini. Aiutata da uno degli operai appendo lo specchio quadrato e rimasta sola avvito le lampadine.
Faccio un passo indietro. Evito di guardarmi allo specchio e voltandomi metto in ordine il resto del bagno dotato di: doccia accanto alla porta con vetro satinato e pulsanti elettronici di regolazione con tanto di schermo touch. Un gradino che porta al water, alla finestra e alla vasca ampia all'angolo con le varie mensole a distanza sulla parete piastrellata.
Cerco tra gli scatoloni lasciati ognuno nella propria stanza per non fare confusione.
«Toc Toc»
Mi volto e Nan se ne sta impalata sulla soglia. «Ciao», alzo l'indice per chiederle un momento e aprendo la scatola controllo che ci siano gli oggetti da sistemare su ogni superficie. Cerco poi il resoconto passandoglielo. «Ecco a te. Ho anche aggiunto delle foto.»
Porta al petto la cartella. «Stai facendo proprio un gran bel lavoro», dice guardando con occhi curiosi il bagno, dal pavimento al tetto.
«Grazie, merito degli operai», dico uscendo dal bagno per cercare una bacinella e uno strofinaccio in modo tale da pulire per bene tutto.
Nan mi segue. «Ogni tanto prende mai qualche complimento per sé?»
«Dammi del tu, odio tutta questa formalità. Comunque no.»
Trovo la bacinella, esco sul retro dove vi è il tubo dell'acqua, attualmente l'unico che funziona perché serve per il giardino e tornando al piano di sopra, infilando i guanti, dopo avere tolto il giubbotto pulisco le superfici, strofinando così tanto ogni angolo da scorticarmi le mani.
C'è così tanto caos nella mia testa che il mondo esterno lo sento appena. I suoni, le voci, il canticchiare degli operai, mi arriva alle orecchie attutito. Un po' come quando entri in acqua. Sento solo quello che mi fa stare male. Ed è un urlo disperato e straziante difficile da domare.
Nan mi tira via facendomi sussultare. «Stai bene?»
Passo il dorso sulla fronte riemergendo in superficie. «Uhm, uhm», annuisco.
Scruta nei miei occhi. «Posso offrirti un caffè, hai l'aria stanca.»
«No, sarebbe il quarto oggi e mi renderebbe solo nervosa. Grazie lo stesso.»
Mi sposto verso la vasca. Nan rimane un momento di troppo impalata poi decide di dileguarsi silenziosamente.
Ancora una volta perdo la cognizione del tempo ritrovandomi a lanciare lo strofinaccio con rabbia dentro la vasca. Mi siedo sul gradino tenendo i palmi sulla testa, inspiro ed espiro ripetutamente e sentendo la stanza improvvisamente stretta, corro velocemente fuori, al piano di sotto. Piegata in due come se avessi corso per interi chilometri, trovo sostegno sul muro. Mi trovo sul retro della casa, all'ombra.
«Bambi», sento chiamare il mio nome più volte.
Ricomponendomi torno dentro. Mitch mi attende sulla soglia, tra il soggiorno e le scale. Se nota qualcosa non saprei dirlo. È sempre molto impostato durante il lavoro.
«Si?»
«Sono arrivati altri scatoloni. Credo contengano i pezzi della vetrina. Dove li faccio sistemare?»
«In cucina, grazie.»
Mi ferma. «Si sente bene?»
Vorrei che la smettessero di chiedermelo. «Si, a meraviglia. Adesso vado ad occuparmi del piano superiore, c'è ancora un gran lavoro da fare», cerco per lui la lista. «Su questa troverà i vari scatoloni da destinare in ogni stanza. Così non sarà costretto a chiederlo altre volte.»
Annuisce con un cenno, mettendosi da parte mi lascia passare. Infine, esce fuori ordinando ad alcuni ragazzi di portare in casa ogni nuovo arrivo.
Termino la pulizia del bagno e quando noto che è tutto lindo, sistemo gli oggetti sul ripiano accanto al lavandino, gli asciugamani morbidi e la tenda.
Facendo un passo indietro scatto una foto scuotendo l'istantanea che esce dalla macchina. Sorrido soddisfatta infilandola dentro la mia cartellina con i lavori fatti, spostandomi nella camera da letto. Qui non c'è più nessuno, così inizio a togliere pellicole e i giornali dal pavimento.
Sentendo il ticchettio dei tacchi di Nan a preannunciare il suo arrivo, non mi fermo, neanche quando mi raggiunge. «Ti ho portato un panino.»
Guardo l'involucro rotondo nella stagnola. Per non ferirla lo accetto, pur sapendo di non avere fame. «Grazie. Non dovevi.»
«Nessun dovere. Posso vedere il bagno?»
«Manca solo la porta ma si, è già pronto.»
Poso il panino sullo scatolone continuando a togliere giornali e le pellicole rivelando il pavimento di legno chiaro, quasi sul grigio della camera da letto di un azzurro ghiaccio meraviglioso.
«È davvero uno spettacolo.»
Sorrido. «Già. Posso chiederti una cosa?»
«Certo», risponde lisciando il tessuto della sua minigonna. È sempre molto elegante, posata. Pronta a dialogare con la sua straordinaria calma.
«Pensi che chi vivrà in questo posto potrà apprezzarla?» osservo il tetto, la cornice di gesso in netto contrasto con il nero, con le stelle.
Sembra stupita dalla mia domanda. Mi guarda come se dovessi sapere qualcosa. «Si, penso proprio di sì», dice abbozzando un sorriso lieve.
«Lo spero», sussurro alzando ancora il viso. «Perché mi sto impegnando davvero tanto.»
Lei fa lo stesso. «Hai avuto una bellissima idea, intendo per il tetto.»
«Spero che l'effetto sia quello che ho sempre immaginato.»
Nan si accorge del panino ancora intatto. Nasconde una smorfia puntando i piedi sul pavimento e alzando il mento come se stesse per impartire un ordine. «Non hai mangiato il panino, vuoi qualcosa di diverso. Posso sempre...»
«Oh, no, no. Mangerò dopo. Ho fatto colazione abbondante in clinica e sono ancora un po' piena.»
Non si beve la mia risposta perché non so mentire. «Bambi, posso essere sincera con te?»
Pulisco le mani. Mi sembra proprio come Travis. «Si.»
«Ti si legge negli occhi che non stai bene. Se qualcosa non va o ti turba, parlane pure con me o se proprio non ci riesci perché non ti fidi, affronta l'argomento o il problema con lui. Ma non chiuderti. Il signor... cioè, Travis ha notato che sei altrove ultimamente ed è preoccupato. Così tanto da essere nervoso. Non riesce a capire.»
«Vuoi che parli con lui?»
«Era bello vederlo sereno. Adesso...»
Corrugo la fronte. «Che cosa?»
Si volta dandomi le spalle. «Niente, non sono affari miei. Scusami tanto se mi sono intromessa sul vostro rapporto.»
Mi avvicino a lei. «Nan, c'è qualcosa che devo sapere?» la supplico posando il palmo sul suo braccio.
Lei mi fissa intensamente con i suoi occhi pieni di speranza. «Da quando non vi vedete, non dorme più come prima, è intrattabile, sempre nervoso», abbassa lo sguardo sentendosi in colpa per avere tradito il suo capo.
Sento come un colpo raggiungermi lo stomaco. Incasso ed esternamente non mostro il mio scontento. «Farò qualcosa. Non piace neanche a me sapere questo.»
Annuisce. «Quando era insieme a te sembrava più sano, più sereno. Non so se mi spiego. Adesso che vi vedete di rado, si è incupito. Mi dispiace, so che non dovrei dire queste cose e non dovrei intromettermi ma...»
«Gli vuoi bene e non sopporti di vederlo stare male», concludo per lei che annuendo mi segue al piano di sotto dove stanno arrivando quasi tutti i mobili ordinati.
In breve si crea parecchia confusione. Così tanta che in un moto di disperazione e panico, mando tutti a casa. Uso un tono pacato inventando una banalissima scusa per rimanere sola.
Nan e Mitch sono gli unici a restare. Per non guardarli in faccia, pur sentendo i loro occhi puntati addosso, mi sposto in cucina dove apro gli scatoloni con un taglierino. Dentro il primo trovo le tazzine con i piattini destinati alla vetrina.
Ancora una volta mi ritrovo a pulire distratta dai pensieri che, continuano ad annidarsi dentro la mia testa rendendomi instabile emotivamente.
La tristezza, asfissiante, devastante è quella che arriva senza un motivo all'improvviso. E ti senti così vuota, così triste e fragile dentro, da non riuscire a respirare.
«Bambi»
Mi volto come un robot. Gli occhi di Mitch si posano sulle mie dita arrossate dall'acqua fredda mentre tengo un piattino, pronta a disporlo sotto la tazzina da caffè bianca, con una striscia di colore simile ad una pennellata color sabbia sul davanti.
«Se non hai più bisogno di noi, ce ne andiamo», dice.
«Certo, andate pure. Passate una buona giornata.»
Vedendo che rimangono ancora impalati gli rivolgo un breve sorriso. «Non mi serve un passaggio. Devo ordinare ancora alcune cose.»
Nan apre la bocca ma il marito posandole una mano sul braccio la distrae e con un'occhiata complice la trascina via dalla villa.
Rimasta sola, scivolo sul pavimento, i palmi arrossati sulle piastrelle rustiche. Le braccia a reggere la mia mole appesantita dalla tristezza, dalla delusione che continuo a tenere dentro. Mi sento schiacciata e questa sensazione mi toglie le energie, mi fa sentire spossata internamente.
Sfiancata, accorgendomi dell'ora, getto fuori l'acqua e dopo avere chiuso tutto per bene torno a casa a prepararmi per la serata che dovrò passare insieme alle ragazze del web.
In questi giorni il sito sta avendo un notevole successo. Per festeggiare infatti, Emerson ci ha invitate ad una festa che si terrà prima in un locale aperto da poco e poi si concluderà nel suo appartamento nell'Upper Est Side.
Appena entrata in casa controllo ogni angolo buio, ogni superficie. Sto diventando paranoica, ma essere attenta a tutto mi permette di tenere le cose sotto controllo. Mi fa sentire meno esposta. Più forte. Chiudo persino a chiave la porta usando il fermo, cosa che non ho mai fatto. Raggiungo la porta secondaria, quella che conduce in giardino facendo lo stesso e spegnendo le luci del soggiorno entro in camera mia.
Mi spoglio strada facendo per non fare tardi all'appuntamento. Accendo un po' di musica e la candela profumata per rilassarmi, per sembrare più leggera e senza pensieri, anche se ci vorrà un miracolo.
Faccio una doccia calda strofinando la pelle così tanto da arrossarmi la pelle e una volta fuori da questa, rimango davanti al cassettone per una manciata di minuti prima di scegliere cosa indossare.
Sfioro tutti i miei capi di colore scuro in netto contrasto con i pochi di colore chiaro. Mi viene subito in mente lui. Lui che ha un armadio privo di colori, scuro come la sua mente ottenebrata dalla paranoia.
Mi manca. Non lo nego. Lui è uno di quelli che quando non ci sono fanno sentire la loro assenza. Inizialmente non te ne accorgi poi percepisci un buco allo stomaco, un freddo dentro le ossa. Un po' come quando corri e ti fermi di colpo guardandoti intorno, sentendoti smarrito, solo. Io senza di lui mi sento incompleta, così tanto che non riesco a capacitarmi di come questo sia possibile.
Indosso un tubino rosa cipria abbinato ad un paio di calze e tacchi vertiginosi. Lego i capelli creando uno chignon alto sbarazzino togliendoli così dal viso incupito dai pensieri. Mi trucco per apparire meno malata e quando sono pronta: recupero la giacca in stile Chanel dall'armadio, infilo il telefono dentro la borsetta ed esco fuori facendo una breve passeggiata fino all'incrocio.
Fa tanto freddo. Così tanto che mi piacerebbe correre a casa e vestirmi indossando qualcosa di estremamente pesante a tal punto da sembrare l'omino Michelin.
Giunta all'incrocio, alzo la mano fermando un taxi. Entro nell'abitacolo che odora tanto di menta dando l'indirizzo del locale in cui ci incontreremo con le ragazze al tassista.
A quanto pare Beverly questa sera deve darci una notizia, era agitata ed emozionata nel vocale che ha mandato sul gruppo Whatsapp quando ha saputo dell'invito. Emerson, deve festeggiare il successo dell'azienda, mentre Natalie i suoi primi cento video. Io in tutto questo mi sento una piccola spettatrice che è stata invitata per puro caso ad unirsi a loro.
Per un attimo sono attraversata dall'istinto di far fare dietrofront all'autista tornandomene a casa. Ma non posso scappare per sempre. Non posso perdermi qualche momento sereno circondandomi di persone positive.
«Sente freddo?»
«No, può aprire il finestrino.»
Il tassista sembra rincuorarsi. Ne approfitta per fumare una sigaretta. «Mia moglie non me lo permette in casa e questa sarà l'ultima della serata.»
Ascolto volentieri le sue lamentele e quando raggiungiamo il locale, ovvero: "Da Magnus", pago la corsa ricevendo persino uno sconto e mi fermo ad osservare l'enorme insegna glitterata davanti a me. Salgo i gradini che conducono all'entrata continuando a fissare i fari, la scritta e il caos che ne esce dall'interno.
«Appariscente», mormoro non sentendomi a mio agio e guardandomi intorno. «Un po' troppo caotico.»
«Bi, che fai lì impalata, entra!»
Davanti a me, spunta Emerson. Il suo sorriso potrebbe abbagliare tutta New York. Indossa un tubino grigio pieno di glitter. I suoi capelli sono acconciati a boccoli e mentre corre verso di me sui trampoli, questi oscillano da una parte all'altra facendo vacillare il suo equilibrio.
Mi abbraccia schiacciandomi contro il suo generoso seno. «Sei arrivata finalmente», mi stringe le braccia facendo una smorfia. «Sei dimagrita tantissimo.»
«Ho fatto molta palestra in questi giorni. Le altre sono già dentro?»
Annuisce continuando ad osservarmi come una madre apprensiva. «Che ne pensi?»
«Stavo dimenticando la vita notturna in questi locali», dico.
«Andiamo, ti stavamo aspettando.»
Il locale, superata la vetrata è uno spazio eccezionale di colore oro. Enormi pannelli oro e nero alle pareti, tavoli quadrati e divani di pelle sotto lampadari di cristallo. Ovunque: bicchieri pieni, bottiglie di champagne, camerieri ad ogni tavolo. Il profumo è un miscuglio ma non è stucchevole o nauseante come avevo immaginato prima di entrare.
Emerson, vedendomi distratta mi tira in direzione del tavolo in fondo alla sala, in una zona tranquilla, lontana dai tavoli pieni di gente apparentemente snob.
Beverly è raggiante nel suo vestitino color oro striminzito. Risalta parecchio la sua carnagione e sembra in abbinamento al locale. Mi stringe a sé. I polsi tempestati da bracciali luminosi, pieni di pietre. «Che bello vederti!»
Natalie posa il bicchiere alzandosi a sua volta, superandomi di qualche centimetro. Lei indossa una tuta elegante ed è la più colorata grazie ai fiori stampati sui pantaloni a zampa d'elefante. Il seno generoso in bella mostra e un trucco appariscente.
«Sei bellissima», si complimenta facendomi spazio accanto a sé sul divano a forma di C, intorno ad un tavolo pieno di bicchieri, bottiglie e stuzzichini.
Emerson mi passa il primo calice. «Mandalo giù d'un fiato. Hai tanto l'aria di una a cui serve una sbronza.»
Fisso le bollicine e senza pensarci troppo tracanno il drink servendomene subito un altro che tengo in mano.
«Non hai una bella cera. Sembri stressata e triste», Emerson piega la testa di lato.
«Sto bene. Allora, che novità ci sono?»
Le tre si guardano come se mi fossero cresciute tre teste. «Io sono qui per rilassarmi e festeggiare il nostro primo traguardo come sito. Abbiamo raggiunto circa quattro milioni di visitatori notturni l'altro ieri. Le live stanno fruttando parecchio grazie al contributo di Bambi che ci delizia con le sue cene a base di pizza e chiacchiere divertenti senza mostrare il volto che tutti immaginano e bramano di vedere.»
Alza il bicchiere e da qui parte il primo brindisi.
Beverly si ricompone dopo avere scosso la testa per fare scivolare giù tutto il liquido ingerito. «Ok, tocca a me», guarda Emerson. «Mi dispiace ma avrai una rivale perché...» alza la mano mostrando l'anello e noi tutte strilliamo afferrandogliela per guardare l'enorme anello che gli ha regalato il suo ragazzo, il tizio che lei continua a sculacciare con un matterello ogni volta che sbaglia, divertendo tutti.
Più che emozionata ci racconta come lui le ha fatto la proposta continuando a punzecchiare Emerson.
«Buona fortuna!» dico dandole due baci sulle guance. Lei mi circonda le spalle. «Sarai sempre la benvenuta nel mio letto», mi provoca.
Rido. «Non faremo niente a tre. Neanche un brevissimo spezzone.»
«Te lo immagini? Farebbe solo impazzire tutti!» interviene Emerson alimentando le sue fantasie. «Inoltre supereremo le altre che hanno creato un gruppo tutto loro chiamandosi davvero "le conigliette del web in rosso".»
Notando la sua smorfia replico: «Ci penserò su ma solo se parteciperete anche voi.»
Emerson e Beverly si guardano complici. «Possiamo anche creare qualcosa, si», replicano brindando.
Guardo ancora ovunque mentre al tavolo ci arriva un dessert che, a quanto pare, nessuna di noi ha ordinato. Si tratta di una fetta di torta al cioccolato con una spruzzata di peperoncino sopra. L'odore è inebriante ma il mio stomaco si contorce.
«Non è nostro. Solo champagne e stuzzichini per noi», dice Emerson.
Il cameriere pieno di tatuaggi sotto la divisa le sorride e lei ammicca. «Vi è stato offerto da quell'uomo in fondo alla sala. Soprattutto a lei», dice indicandomi.
Le ragazze urlano spingendomi.
«Hai fatto colpo.»
Rossa in viso guardo in sala ma non riesco ad intercettare l'uomo per ringraziarlo del gesto a causa della calca di gente. «Ringrazialo da parte mia», dico in fretta al cameriere che annuendo si allontana dal tavolo dopo avermi strizzato l'occhio. Un gesto che ignoro bevendo subito un lungo sorso di champagne. «Non guardatemi ancora così!» le rimprovero sentendo gli occhi di tutte puntati addosso sin da quando sono entrata.
«Bi, che ti succede?»
«Niente, perché me lo chiedi?» guardo Natalie rivolgendole la mia attenzione.
«Non fai più battute, non sorridi più come prima, ti stai spegnendo come una stella.» Conta sulla mano ogni singola cosa che dice.
Apro e richiudo la bocca sentendomi mancare. I miei occhi si posano sul braccialetto che non riesco a togliere. «Sono solo un po' stanca», ammetto giocando con il liquido dentro il bicchiere. Mi piacerebbe tuffarmici, immergermi insieme alle bollicine e sparire.
«Possiamo fare qualcosa?»
«Se non avete una cura per le malattie terminali, una per l'amore malato del mio amico e infine non per ordine d'importanza: una dose di coraggio per aiutare una persona a mostrarsi alla luce del sole, no, non potete fare niente», mi alzo. «Scusate, ho bisogno di fumare una sigaretta e di un po' d'aria.»
Detto ciò, mi avvio all'entrata dove si trova da un lato, una fila di persone che attendono per prendere da bere e dall'altro, le panchine, grossi blocchi color oro, dove alcuni stanno fumando chiacchierando animatamente con gli amici.
Mi siedo accanto ad una palma accendendomi la sigaretta tenendo sulle spalle la giacca. Sblocco lo schermo del telefono e mi arrivano a raffica alcune notifiche. Controllo subito il messaggio in arrivo.

Come proiettile nel cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora