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Avanzo, un passo dietro l'altro, varcando la soglia in punta di piedi. Sento ancora addosso il calore emanato dalla sua pelle, molto simile ad un incendio indomabile. La mia mente sembra quella di una persona ubriaca, intontita da un colpo forte e improvviso alla nuca.
Forse agendo d'impulso, ho cambiato di nuovo il corso degli eventi. Mi sento come se avessi appena giocato a poker con il destino che, presto o tardi tornerà a farsi beffe di me.
Non ho paura di affrontare le conseguenze. Ho paura di svegliarmi e rendermi conto di essermi persa. Ho paura di non riconoscermi. Ho paura di avere vissuto in un sogno.
Travis chiude la porta alle mie spalle indicandomi la strada davanti a sé.
Ci troviamo in uno stretto corridoio simile a quello che, generalmente si trova nelle stanze d'hotel.
Il pavimento in finto parquet scuro, le pareti tinteggiate di bianco con dei colpi di spugna color argento e i fari sul tetto a rendere pallidi i nostri volti.
Un mobile con uno specchio sulla destra, dove Travis appende il giubbotto. Aiutandomi a togliere il mio, lo sistema accanto al suo. Ha un ordine direi maniacale. Un dettaglio che non mi dispiace nel complesso, visto che quasi sempre i ragazzi sono disordinati.
Tolgo pure le scarpe muovendo finalmente le dita dei piedi, premendo le piante fredde sul pavimento già caldo. Travis fa la stessa cosa e, a piedi nudi svolta a sinistra.
Lo seguo trovandomi al centro di uno spazio apparentemente grande, arioso e accogliente. L'odore che percepisco nell'immediato, oltre a quello di vaniglia dello spray per ambienti, è quello del cibo italiano. Direi di basilico e sugo che va a mescolarsi all'odore del legno dei mobili, della pelle, del vino.
Le pareti qui sono in alternanza. Alcune di mattoni altre bianche. Una cucina ad isola in stile moderno è stata costruita adiacente al soggiorno dove, davanti ad una vetrata ampia, priva di tende, si trova un divano lungo ad L con i cuscini abbinati disposti in ordine. Un pouf al centro sopra il tappeto peloso. Sopra al pouf vi sono fogli, cartelle, un portatile, un bicchiere da whisky e una bottiglia di bourbon appena aperta.
Alla parete laterale: una tv a schermo piatto enorme dotata di impianto stereo. Davanti ad essa un altro divano, più piccolo. Un mobile in stile moderno sotto la tv, con una PlayStation e tanti giochi disposti in ordine di colore e forse anche di preferenza, su uno dei ripiani insieme a delle piante grasse. Tra le varie mensole vi sono libri, e statuine.
La cosa che mi fa sorridere è la mensola posta tra due pilastri piena di bottiglie di vino, molto simile ad una cantina.
Travis, nel suo ambiente, incurante della bellezza dell'appartamento, gira intorno al bancone in onice lucido e luminoso. Non c'è un filo di polvere su ogni superficie, il che è straordinario.
Apre il frigo pieno zeppo, scegliendo gli ingredienti per il pranzo.
Voltandosi propone: «Pasta?» scuote una confezione di spaghetti.
Sono davanti alla vetrata, quella alta di fianco alla tv. Su questa, al contrario di quella frontale, una tenda bianca pende di lato. Guardo di sotto. C'è una stradina piena di negozi, non solo di alimentari. «Hai gamberi e crema al pistacchio?» Chiedo distratta. Non mi capita poi così spesso di potere apprezzare la bellezza della città guardandola da una prospettiva diversa.
Non siamo poi così in alto come nell'altro appartamento ma la vista rimane comunque un punto fermo nella scelta del piano. Da questi piccoli e apparentemente insignificanti dettagli, inizio a comprendere molto sulla personalità di Travis.
Controlla nella dispensa cercando tra i vari barattoli. «Affermativo.»
Lo raggiungo staccandomi dalla vetrata prima di perdermi in uno dei miei sogni ad occhi aperti.
«Io mi occupo dei gamberi, tu degli spaghetti?»
«Posso accettarlo», mi sorride e intuendo la mia estraneità nel posto, ricordando come ho reagito nel suo appartamento durante la colazione, mette tutto a portata di mano sul ripiano in modo tale da non crearmi imbarazzo.
Apro la confezione con i gamberetti lasciandoli scongelare lievemente. In una padella creo un soffritto semplice per non cambiare il sapore alla pasta.
Aperto il barattolo con la crema al pistacchio, recuperato un cucchiaio, assaggio mentre rigiro i gamberetti in padella, aggiungendo giusto un pizzico di peperoncino.
Travis mi tira il cucchiaio dalla bocca. «Cosa?» Cerco di capirne la ragione.
Assaggia la crema usando il mio cucchiaino. «Ti piace il pistacchio?» scola la pasta.
«Se è buono e italiano come questo, si», rispondo mettendomi da parte per permettergli di buttare gli spaghetti sulla padella dove aggiungo due cucchiai abbondanti di crema al pistacchio, molto simile ad un pesto.
Travis non perde un movimento. A volte sembra tanto avere la curiosità di un bambino. Un aspetto così genuino e tenero da far incuriosire anche me.
Sistema due piatti su due tovaglie create da piccoli pezzi di canna incastrati e tenuti dritti da un bordo di stoffa ben cucito, le posate avvolge dal tovagliolo, due calici e una bottiglia di vino al centro mentre con attenzione servo la pasta imitando gli chef che ho sempre guardato in tv insieme a zia Marin.
Aspetta che mi sia seduta e senza fare complimenti assaggia una generosa forchettata di pasta. «Hmm», lecca le labbra.
Nascondo un sorriso soddisfatto mangiando tranquillamente, guardando il tetto pieno di travi in legno e fuori. I miei occhi saettano sempre verso quella direzione dove il cielo grigio sembra scendere. Tra i palazzi più alti infatti, posso notare una calotta di nebbia pronta a riempire ogni angolo.
Travis stappa la bottiglia versando un generoso bicchiere di vino. «Vuoi farmi ubriacare?»
Alza il calice nella mia direzione. «Vuoi ubriacarti?»
Sbuffo bevendo un sorso del vino bianco che ha scelto. È delicato ma forte allo stesso tempo. Lo sento quando scende lungo la gola e il calore si espande nell'immediato su tutto il petto facendomi tossicchiare. «Hmm», imito il suo verso dopo essermi ripresa.
«Chi ti ha insegnato a cucinare così bene?»
Caccio in bocca l'ultimo gamberetto. «O ti adatti o muori di fame», biascico pulendomi le labbra.
Intuendo di avere stuzzicato la sua curiosità continuo: «ricordi che ti ho raccontato di avere perso i miei genitori a quindici anni?»
«Si, hai iniziato a cucinare da quel momento?»
«Zia Marin ha avuto un periodo buio. Insomma, aveva perso suo marito, il fratello ovvero mio padre, ed è entrata in depressione. Non faceva più niente se non piangere e recarsi al cimitero dove si sedeva per ore sulla loro tomba. E pensare che non sapevo neanche cucinare un uovo. Ero viziata...» abbasso lo sguardo sulle mie mani tenute in grembo. Le dita strette, in una morsa dolorosa. Perché il passato non è solo una ferita aperta. Il passato è quel dolore intenso che provi tramite un ricordo e non se ne va più. Non va più via la sensazione simile al fuoco e poi al vuoto.
«Quando sono morti i miei genitori la mia vita ha subito un brusco cambiamento. Prima facevano tutto loro. Zia Marin stava già male a causa del suo problema alla spina dorsale poi per la depressione e io cercavo in tutti i modi di non perderla. Le cucinavo sempre un dolce e alla fine ho imparato, un aiuto in più l'ho avuto anche grazie ai programmi di cucina che lei guardava e al mio amico Dan che ha un locale.»
Mi stringo nelle spalle alzando il viso.
I ricordi sono come schegge. Frammenti che tagliano ancora e ancora la mia fragile esistenza.
Il silenzio mi mette quasi paura. «Tocca a te». Sorrido timida riempendo il vuoto.
Travis beve un sorso di vino. Inizialmente non parla. In parte incassa il peso delle mie parole. «Che cosa vuoi sapere?»
«Sai cucinare. Hai una casa pulita, in ordine. Non ami la polvere o il caos.»
«Si, mi sono adattato anch'io», dice sfuggente.
Decido di non indagare oltre e alzandomi tolgo i piatti. Ovviamente si solleva dallo sgabello a ruota seguendomi. Sta osservando le mie mani.
«Non mi piace parlare del passato. Non voglio che pensi che non voglia...»
«Lo capisco. Non preoccuparti.»
«No, non capisci. Io ho chiuso con il mio passato. Per questo non parlo della mia faccia o di cosa mi ha costretto a cambiare vita.»
Dopo avere lavato i due piatti e le posate, mi siedo sul ripiano. Un vizio che ho sempre avuto e non sono mai riuscita a togliere. A Travis non sembra dargli particolare fastidio.
«È stato doloroso?»
Fa un passo verso di me trovandosi davanti. Indugia. Le sue mani si fermano ai lati delle mie cosce chiuse e tenute strette. Abbassa il viso ritrovandosi alla mia altezza. «Che cosa vedi esattamente?»
La domanda mi spiazza. I suoi occhi non tradiscono alcuna emozione. Non riesco a leggere niente.
«Posso essere sincera?»
Fa un altro passo verso di me. In riflesso allargo un po' le gambe e lui si sistema al centro senza mai toccarmi, mantenendo sempre un certo rispetto. Siamo ancora faccia a faccia. «Dimmi la verità. Guardarmi attentamente. Che cosa vedi?»
La mia mano avanza tremula verso il suo viso. Si irrigidisce nell'immediato come un animale pronto a difendersi. Quando vede che sto sfiorando la parte illesa torna a respirare ma rimane comunque guardingo, attento ad ogni mia mossa. Poso il palmo sulla sua guancia percependo il suo calore, il pollice accarezza la pelle, la leggera peluria che pizzica i polpastrelli al loro passaggio. Risalgo sul sopracciglio toccando il taglio di circa tre centimetri. Ha una profondità millimetrica ma percepisco lo stesso il distacco tra la pelle lesionata e quella liscia che ha naturalmente.
«Stai facendo del tuo meglio fingendo di avere voltato pagina. Forse non lo ammetti, ma sei questo. Sei un sorriso finto, uno sguardo dolce in grado di nascondere dentro il peso di un dolore atroce. Non te ne accorgi che qualcuno non nota solo la maschera che hai deciso di indossare per proteggerti. Non te ne accorgi perché fingi di stare bene. Ma io lo vedo che non è vero.»
Le parole escono dalla mia bocca come un fiume in piena. Ma, non me ne pento. È quello che penso, quello che vedo davvero.
Travis afferra la mia mano come se fosse una mosca allontanandola dal suo viso. Mi regala una nuova scarica, un nuovo brivido, una nuova sensazione quando mi inchioda sul posto con i suoi occhi così diversi ma che vedono la stessa cosa. Mi vedono. Vedono la mia anima. Mi spogliano di ogni certezza. Mi regalano un attimo di pura follia.
La sua mano coperta dal guanto si posa sulla mia coscia. Il secondo gesto spontaneo che fa da quando ci siamo visti. Non indugia. Non si cura di una mia possibile brusca reazione.
Non mi agito quando sento la pressione del palmo, non mi ritraggo. Non lo farei a prescindere. La sensazione è più piacevole di quanto immaginassi.
Lascia andare la mia mano ancora tenuta in alto e da questo intuisco il suo volere, quindi non mi permetto più di toccarlo. Di azzardare così tanto.
Mi divarica le cosce sistemandosi più vicino. Un gesto questo che mi coglie impreparata.
Il suo viso si abbassa verso il mio, avvicinandosi così tanto da percepirne il suo calore, la fragranza che lo caratterizza. Odora di colonia, bagnoschiuma all'olio di cocco.
Le sue narici si dilatano quando i miei palmi dapprima messi bene in vista per avvisarlo di una mia imminente azione, si posano sul suo petto.
Indossa un maglione scuro morbido al tatto. Nessuna camicia sotto. Pantaloni stretti ed è a piedi nudi.
Ha un petto massiccio. Non sento particolari differenze. Non percepisco alcuna cicatrice sotto il tessuto.
Freme in seguito al mio tocco, seppur non invadente, ma improvviso.
Mi sorprende quando appoggia la fronte sulla mia premendo forte, come se dovesse trasmettermi ogni suo pensiero nascosto. Schiudo le labbra sentendo depositarsi sul basso ventre quella scarica pericolosa, in grado di farmi salire lungo la gola un gemito che trattengo a stento. Sento il mio corpo tendersi, la mia mente sul punto di perdere il controllo.
Chiudo gli occhi concentrandomi, godendomi il suo calore, il suo odore, tutto sulla pelle.
Le mie mani prudono, vorrebbero risalire sul suo viso e poi affondare tra i suoi capelli. Le tengo ben piantate sul suo petto.
«Hai ragione», sussurra roco. «Facevo del mio meglio fingendo di avere voltato pagina prima di incontrarti e avere la consapevolezza di essermi illuso.»
Spalanco gli occhi. I suoi sono aperti e vigili. Dritti e fissi nei miei impreparati alla loro forza, alla loro spietata bellezza. Così sinceri da disarmarmi. Così lucidi da farmi tremare le vene ai polsi.
«Che cosa vorresti dire?»
«Ho impiegato anni per costruire quei muri, quelle barriere, questa maschera che tu, quando sei arrivata, hai buttato giù con una facilità tale da disarmarmi.»
«Non credo di avere armi nascoste e di saperle usare», mormoro con la gola secca.
«Ti sbagli. Hai lasciato un cumulo di macerie al tuo passaggio così invadente e improvviso. Pezzi acuminati che rischiano di ferirmi. Per questa ragione continuo a fare attenzione con te.»
Non so se esserne lusingata o se preoccuparmi. «Mi stai dicendo che non ti piaccio?»
Alza il labbro. Trattiene una risata nervosa o una battuta che ha già sulla punta della lingua. Il suo fiato mi solletica le labbra.
Rimango in apnea fino a quando staccandosi, mi lascia con il dubbio. Va a sedersi sul divano, quello davanti alla vetrata, dalla quale si nota parte della città di Manhattan. Grattacieli, aerei che volano praticamente di continuo.
La vetrata è aperta sulla parte alta. Da questa entra il rumore di una città caotica sia di giorno che di notte. Sirene, voci, auto che sfrecciano, ambulanti, i musicisti che si esibiscono in una piazza vicina con i loro impianti stereo, le casse e i microfoni senza fili.
Scendo dal bancone sentendomi frastornata, perché il momento appena vissuto è stato da mozzare il fiato. Neanche Dan riesce a farmi provare una simile sensazione. Ma con lui siamo amici. Travis per me è ancora un estraneo.
È come se fossi leggera e allo stesso tempo fatta di piombo. Un palloncino volato via e trascinato in fretta dalla corrente.
Mi siedo accanto a lui mantenendomi a distanza. Come se non volessi invadere il suo spazio vitale.
Tiene la bottiglia e il calice in mano. Versa il vino facendo attenzione a non farne cadere una goccia. Me ne passa uno pieno. Ricordo quello che ha detto all'inizio alla mia domanda, rispondendo con un'altra domanda che, lì per lì poteva essere fraintesa come un gioco malizioso iniziato banalmente. "Vuoi ubriacarti?". Ciò significa che sono io a decidere e nessun altro.
Accetto di buon grado bevendone un sorso, riscaldandomi mentre lui alzandosi con il bicchiere in mano, attizza il fuoco del caminetto posto di fianco a questo divano comodo, nuovo ed enorme. Il pavimento è dotato di impianto di riscaldamento e i miei piedi sono più caldi di sempre, visto che solitamente li ho gelati.
Davanti a me il pouf. Sbircio sugli appunti più vicini e, quando si siede, intuendo la mia curiosità, me li mostra senza problemi.
«Che cos'è?»
«È il resoconto di Nan», spiega. «Quando è venuta a trovarti portandoti il pranzo, ha scritto tutto in una relazione. È stato quello che ha messo nero su bianco di te che mi ha spinto a venire a controllare di persona.»
Leggo attentamente sistemandomi con un piede sotto il sedere e il calice in una mano. Nan deve ammirarmi e credere parecchio in me, se ha avuto la necessità di scrivere parole tanto dolci quanto professionali, a tal punto da spingere Travis, il suo capo, a venire a controllare.
«Non ho deluso le aspettative?»
«Le mie, le sue, direi di no. Ho fatto una scelta davvero importante affidandoti il lavoro.»
Mi appoggio al divano giocando con il bordo del calice e tenendo un cuscino in grembo. Mi guardo ancora un po' intorno. «E così... qui è dove avviene la magia?»
Ride. «È un appartamento tranquillo dove mi piace gestire il lavoro. Lo uso quando il mondo mi sta stretto e ho bisogno di pensare senza pressioni.»
«Dove dormi?»
Si irrigidisce. «Non riesco a dormire ultimamente. Ad ogni modo, di là c'è una camera da letto e un bagno. Capita di sentirmi stanco e di approfittarne per un sonnellino pomeridiano. Solitamente però riposo nel mio appartamento. Come vedi sono single e non sono un vecchio maniaco.»
Rido posando il bicchiere vuoto a terra. «No, non lo sei. Ma volevo controllare sul comodino.»
Scuote la testa chiaramente divertito dalla mia battuta. Sta escogitando qualcosa. Infatti, alzandosi mi fa sollevare. Tenendomi la mano mi porta oltre la cucina dove si trova un breve corridoio. A destra vi è un bagno a sinistra una stanza. «Controlla pure. Anche nei cassetti, non si sa mai.»
Appoggiato allo stipite della porta incrocia le braccia.
«Mi stai davvero chiedendo...»
«Hai paura adesso?»
Mi volto avanzando. La camera è piena di luce. Bianca la testiera del letto. Un piumone nero, le coperte e i cuscini bianchi. Superato il tappeto morbido, caldo sotto il tessuto dei calzini, raggiungo il comodino. Sopra c'è un libro, un thriller da poco uscito in libreria e una lampada, nell'altro una sveglia, un'altra lampada e una scatola di fazzoletti.
Scosto la tenda notando il fiume, gli alberi, il ponte. C'è anche un piccolo parco a pochi passi dal palazzo. Il verde del prato è in netto contrasto con il grigio.
«I cassetti», mi provoca esortandomi.
Riscuotendomi guardo l'armadio a parete poi lui divertito e ancora appoggiato allo stipite della porta.
«Posso fidarmi sulla parola.»
Nega indicandoli con l'indice. Posa poi il pollice sul labbro rimanendo in attesa.
Una posa sensuale rifletto affascinata. Mordendomi il labbro e sedendomi sul bordo del letto, apro il primo cassetto in basso. Lo faccio come se dovessi strappare un cerotto. Mi sento delusa. Dentro non c'è niente. Neanche una falena ad uscire.
Procedo con il secondo cassetto. Qui invece trovo il suo intimo. «Boxer e calzini firmati, non l'avrei mai detto», sussurro con sarcasmo. «È il momento della verità», dico per farglielo sentire. Apro il primo cassetto e scoppio subito a ridere. «Sei uno stronzo! Ammettilo, l'hai fatto di proposito», gli lancio addosso la confezione di profilattici. «È poi che ci fai con questi?»
Ride prendendola al volo. «Sei tutta rossa», dice avvicinandosi.
Trattengo la voglia di strillare o scappare rimanendo ferma.
Posa la scatola dentro il cassetto chiudendolo con una certa forza. «Vuoi controllare anche l'altro?»
Nego. «Ti credo sulla parola.»
Sorride. «Sulla parola?»
«Ok, non prendi nessuna pillola blu per...» faccio il gesto con il dito sollevandolo e lui inumidendosi le lebbra mi riaccompagna in soggiorno.
«E comunque la tua domanda era inutile perché sai che cosa si fa con quelli.»
Mi siedo di nuovo sul divano più che a mio agio, lui accende il portatile controllando qualcosa.
Lo vedo sorridere mentre il cielo si riflette mescolandosi nelle sue iridi. È come guardare i pianeti collidere, le stelle bruciare, i nostri mondi esplodere in mille bagliori colorati.
Scrive velocemente, le sue dita affusolate premono sui tasti senza mai guardarli. E mentre osservo le sue mani le sento ancora addosso e scrollo le spalle liberandomi da un formicolio improvviso.
Il mio telefono ronza. Corrugo la fronte controllando che non sia ancora zia Marin. Invece trovo un'e-mail.

Come proiettile nel cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora