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Oggi...

Ad un certo punto ti devi dare pace. Devi smettere, devi raggiungere quel punto di rottura. Spezzarti. Toccare il fondo.
Perché sprecare il tuo tempo rincorrendo all'infinito una cosa o una persona sacrificando la tua vita?
Al giorno d'oggi l'ossessione si traveste in amore e le illusioni prendono vita trascinandoti fuori dalla realtà.
Ci sono persone che rinunciano a tutto per non avere niente in cambio. Niente tra le mani. Niente nel cuore. Si ritrovano sole. Sole e in compagnia della propria tristezza, del proprio dolore. Non si prendono più cura di loro stesse. Si spengono lentamente senza neanche accorgersene. Diventano polvere. Rimangono intrappolate in qualcosa che non c'è.
Ma non è mai troppo tardi. Se non vuoi, non puoi spegnerti. Trasforma il rifiuto, il senso di insoddisfazione, la solitudine, la tristezza in qualcosa di positivo.
Non hai bisogno di qualcuno che ti dica che sei speciale, per essere speciale.
Non hai bisogno di qualcuno che ti dica che vai bene anche così, con delle schegge a circondare il tuo cuore.
«Signorina smettila di sognare ad occhi aperti. Sei in ritardo!»
Mi riscuoto tornando alla realtà anche se con un pizzico di delusione.
Ritrovo la mano sollevata, le dita a reggere il cucchiaio, una ciotola ancora piena di cereali che galleggiano sul liquido pallido insieme alla frutta secca, alle scaglie di cioccolato sul latte di mandorla vegetale, perché quello normale il mio intestino non lo regge. La bocca piena di cibo e su di me lo sguardo caldo, come sole a primavera, di zia Marin fisso nei miei occhi ancora altrove.
Batto le palpebre pulendole dalla patina trasparente lasciata dai pensieri masticando a rilento.
Pulisco velocemente gli angoli della bocca con il dorso della mano beccandomi una violenta occhiataccia da parte sua che, sulla sedia a rotelle, una coperta in tartan rossa sulle gambe, il lavoro a maglia appena iniziato, attende divertita una mia mossa.
Ormai è una routine. Più per lei che per me.
Deglutisco a fatica la poltiglia. Con un sorriso tolgo le briciole dal bancone e tutto il resto di mezzo con una certa fretta quando alzando gli occhi sull'orologio, mi rendo conto del tempo a mia disposizione. È poco. Farò ancora tardi.
«Riuscirai a passare da Dan al "LupoNero" e prendermi quel buonissimo brodo di pollo? Lo fanno solo un giorno alla settimana. Con questo freddo ci serve proprio qualcosa di caldo da mettere sotto i denti. Se solo riuscissi a non affaticarmi così tanto potrei farlo io. Forse andrei anche a fare la spesa scegliendo bene gli ingredienti, anziché ordinare tutto online», guarda fuori dalla finestra con malinconia mentre il camino scoppietta riscaldando la nostra piccola abitazione che si trova in un quartiere newyorkese rimasto come un tempo. Una zona incontaminata. Nessun palazzo alto. Nessun grattacielo. Solo casette posizionate ordinatamente in fila, con un giardino e una cassetta delle lettere. Un posto da poter chiamare davvero casa.
Mi avvicino al camino aggiungendo un ceppo. Questo prende velocemente fuoco mandando una vampata di calore nella mia direzione. Riscaldo le mani sempre fredde.
«Riuscirò a passare da Dan al e ti porterò anche quei buonissimi dolcetti alle mandorle con l'interno al cioccolato», sorrido correndo nella mia stanza al piano di sopra.
L'ultimo, dei pochi gradini in legno che si affacciano al soggiorno, scricchiola rumorosamente. Mi piace questo suono. Mi sa tanto di vissuto.
Entro nella mia modesta stanza avvolgendo intorno al collo una sciarpa del colore di una foglia secca bruciata e prosciugata dalla vita. Pesco la borsa e di corsa torno di sotto dove zia Marin mi attende già alla porta porgendomi il cappotto.
«Fa attenzione figlia mia. Non correre troppo e non dare confidenza agli estranei».
Le bacio la tempia. «Sarò di ritorno per cena. Trovi tutto a portata di mano. Chiama se hai bisogno e arriverò il prima possibile. In caso contrario chiama la vicina lei sa già cosa fare», con un sorriso esco di casa aprendo l'ombrello a causa della pioggerella lieve che cade riempendo le molteplici pozzanghere sul prato bruciato ormai dal freddo e sulla strada.
Superato il quartiere, sposto lo sguardo in direzione dei primi palazzi alti. Una calotta di nebbia li attraversa rendendo tutto molto suggestivo. Scatto velocemente una foto da aggiungere al mio album sul profilo Instagram, poi per non perdere altro tempo, mi affretto a raggiungere la metropolitana più vicina dove, dopo avere usato l'abbonamento; attendo controllando impazienze l'orologio.
«Andiamo», fremo. «Non oggi. Ti prego non oggi», sussurro impaziente.
Quando finalmente il treno arriva e le porte si fermano davanti a me, mi rilasso. Una volta dentro il vagone controllo tra i vari posti a sedere. Agisco in fretta prendendo posto in una delle aree isolate e libere. Davanti a me un signore impegnato nella lettura del suo giornale. Lo abbassa rivolgendomi un sorriso sdentato.
Ricambio infilando le cuffie. Ho bisogno di rilassarmi. Non posso permettermi una bocciatura. Devo assolutamente superare l'esame per riuscire a laurearmi entro e non oltre quest'anno già abbastanza pesante.
Tamburello con le dita sulle ginocchia a tempo di musica. Sto ascoltando i Linkin Park a palla controllando ogni fermata prima di alzarmi per raggiungere l'uscita quando siamo quasi giunti al capolinea.
Le porte si aprono e io corro sulle scale rischiando di travolgere qualcuno, tanto sono distratta e ansiosa.
Apro nuovamente l'ombrello e facendo slalom lungo la strada, evitando di essere investita o coperta di acqua, finalmente raggiungo l'università.
Un bellissimo plesso. La struttura alta piena di vetrate. Il giardino con le panchine, i viali sulla quale potere passeggiare. Le aule ampie e ariose.
L'odore del caffè mi investe quando passo accanto ad un ambulante. Supero lo stand dove alcuni studenti stanno cercando di reclutare più persone possibili nei loro strani club. Mi inoltro dentro la struttura senza perdere tempo. Cerco l'aula d'esame tra le tante presenti e per fortuna, entro appena in tempo.
Poco prima di vedere arrivare il docente con un malloppo consistente di fogli e un sorriso perfido stampato in volto, prendo posto accanto a due ragazze che, nel frattempo continuano a lanciarsi delle occhiate complici chiacchierando tra loro animatamente, raccontandosi qualcosa sulla serata appena trascorsa.
Tolgo il cappotto e la sciarpa più che accaldata, prendendo poi un lungo respiro faccio scattare la penna facendo degli esercizi di respirazione brevi ma sempre efficaci per riprendere del tutto il controllo.
Sono pronta, mi dico. Devo superare questo esame o non riuscirò ad arrivare a fine mese. Ho bisogno di lavorare ma non posso farlo se devo studiare per tre esami contemporaneamente e prendermi cura di zia Marin.
«Buongiorno», saluta il docente mettendosi comodo dopo avere distribuito i test, a quanto pare tutti diversificati per non permettere a nessuno di copiare. Furbo da parte sua, penso.
«Avete sessanta minuti a partire da adesso».
Il professor Winchester è un uomo basso, calvo. Scruta i presenti con i suoi occhietti furbi nascosti da una spessa montatura nera. Indossa una camicia bianca, un gilet tappezzato di stoffe diverse e una cravatta verde. In quanto a stile potrei metterlo in discussione.
Giro il foglio trovando domande a risposta multipla, altre aperte. Sono sessanta in tutto. Sessanta quesiti nella quale cerco di impegnarmi rientrando in un tot di parole, come richiesto tra parentesi e in grassetto sulle domande aperte, per ogni singolo argomento trattato.
Per fortuna ho studiato abbastanza di notte e ricordo ogni singolo argomento del grosso volume che ho fatto entrare nella mia testa quasi al limite.
Ho cercato di assimilare tutto mentre mi allenavo, lavoravo o aiutavo zia Marin. Forse per questo sono spesso altrove con la testa. Il mio cervello in qualche modo sta cercando di suggerirmi qualcosa. Ma non posso fermarmi o prendermi alcuna pausa. Non ora.
Soddisfatta nel complesso per avere finito con largo anticipo, porto il test al docente che, corregge immediatamente seguendo uno schema ben preciso, facendo un paio di smorfie, qualche annotazione con la penna sul foglio. Infine, togliendo gli occhiali mi rivolge la sua attenzione.
«È in grado di rispondere a delle domande signorina...» cerca il mio nome sul test. «Bambi Stevens», replico per non perdere tempo.
Al professore non sembra dispiacere la mia attenzione.
Annuisco e sotto suo invito mi siedo per l'orale davanti a lui.
Mettendosi comodo avvia il suo immancabile cronometro. «Le farò cinque domande. Ogni risposta esatta aumenterà le probabilità di un ottimo risultato. Al contrario...» mi fa capire perfettamente che dovrò rifare l'esame quando indica la porta e, in cuor mio spero vivamente che ciò non accada.
Ho troppe cose da fare. Non avrei più il tempo di giostrarmi tra casa, lavoro e studio. Per non parlare delle dannate bollette che continuano arrivare ammassandosi sul ripiano della cucina, così come le spese mediche dopo l'ultimo ricovero di zia Marin.
«Sono stato chiaro?»
«Si, signore».
Lecca le labbra guardando ancora il mio test scritto. «Bene, iniziamo».
Dopo ben cinque minuti in cui vengo interrotta, il docente, intreccia le mani sulla grossa cattedra in mogano.
«Impressionante», dice ed io mi sgonfio come un palloncino. So già che cosa significa: fuori uno.
Ringrazio e dopo avere visto il risultato corro verso il secondo esame della giornata. Si trova in un polo diverso. Per questa ragione mi tocca ripercorrere i miei passi, riprendere la metro, attraversare un paio di strade rischiando di essere investita da pedoni distratti, auto noleggiate, persino da turisti incapaci di guidare e autobus o taxi in ritardo.
Arrivo in anticipo e dopo ben due ore di agonia, un test difficile con una prova grafica, esco vittoriosa e con un ampio sorriso.
Soddisfatta, lascio uscire un lungo sospiro. «Bene, ne manca uno e siamo a cavallo», prendo un caffè per tenermi sveglia.
Facendo orari assurdi non ho neanche il tempo di dormire bene e a lungo. Non ricordo neanche quando è stata l'ultima volta che ho dormito comodamente senza dovermi preoccupare di tasse, relazioni sociali, studio e lavoro.
Avrei dovuto iscrivermi ad un'università online come ogni persona priva di tempo ma, ho avvertito la necessità di imparare direttamente sul campo, di partecipare attivamente alle lezioni per non sentirmi "diversa" o distante dalla vita reale di una comunissima ragazza.
Solo nel tardo pomeriggio dopo quattro ore di duro lavoro, una fila di studenti ansiosi in segreteria, riesco finalmente a sentirmi soddisfatta.
Ne manca ancora uno ma ho già alleggerito un peso enorme che avrebbe fatto vacillare ogni equilibrio in caso di insuccesso.
Di ottimo umore, passo come promesso da Dan al "LupoNero" per comprare il brodo e i dolcetti alla zia più buona che io abbia mai avuto.
Le voglio davvero bene. Se non fosse stato per lei sarei andata a vivere chissà dove. Forse adesso sarei sotto un ponte insieme ai clochard della zona.
«Altro giro altra corsa?»
Prendo le confezioni già pronte sul bancone. «Grazie», rivolgo un cenno a Dan poi ai signori seduti al solito tavolo infilando una banconota nel barattolo già pieno.
«Non correre!»
Rido. «Ho troppe cose da fare», alzo il tono sovrastando la musica che si diffonde dalla tv a schermo piatto posta su una mensola di mattoni antichi. Una della caratteristica principale del locale è proprio il tetto a cupola antico.
Dan, il proprietario del locale, nonché mio migliore amico da una vita, scuote la testa portandosi uno straccio pieno di salsa sulla spalla. «Ogni tanto prova a staccare la spina», mi consiglia avvicinandosi ad un tavolo per pulirlo.
Spingo la porta con il sedere. «Lo terrò a mente. A tra poco», saluto.
Corro dritta verso casa rischiando di versarmi addosso la cena, che non riuscirò neanche a consumare perché non voglio far tardi al lavoro.
Per questa ragione e per arrivare incolume a casa, chiamo un taxi sperando vivamente di non pagare un rene. Soprattutto spero di trovare zia Marin sulla sedia e non per terra come l'ultima volta.
Pago la corsa cercando di non dissentire sul prezzo e sulla guida dell'autista, un tantino curioso e chiacchierone per i miei gusti.
Zia Marin, per fortuna, mi aspetta alla porta. La apre poco prima che io metta piede sul portico.
«Allora? Com'è andata?»
Non aspetta neanche tempestandomi di domande. Poso il sacchetto sulle sue gambe trascinandola in cucina, dove apparecchio subito la tavola.
«È andata bene», lavo i piatti sporchi sentendola mangiare rumorosamente il suo brodo. «Ne manca solo uno».
«Non ceni?» biascica non nascondendo il suo orgoglio nei miei confronti.
Asciugo le mani. «Devo andare. Mangerò qualcosa dopo il lavoro. Le bollette non si pagano da sole e ne abbiamo troppe sul ripiano», sorrido rubandole un pezzo di pane che mastico salendo le scale.
«Mi dispiace non riuscire a dare il mio contributo», dice sincera.
So che le dispiace. Ma non deve assolutamente sentirsi in colpa. Posso farcela. Posso prendermi cura di lei.
Sbuco fuori dalla stanza fermandomi sulla scala mentre mi vesto sciogliendo i capelli.
«Hai una piccola pensione che ci permette di mangiare almeno una volta a settimana il famoso brodo di pollo di Dan», replico infilando i tacchi stringendo il laccio sulla caviglia. «Anche se preferisco nettamente le ali piccanti».
Scendo le scale lentamente. Corro in bagno lavandomi il viso, i denti, mettendo un po' di mascara e un rossetto a lunga durata. Pettino i lunghi capelli stringendo i denti quando il pettine si incastra a causa dei nodi.
Quando sono pronta, raggiungo il soggiorno girando intorno per farmi vedere. «Come sto?» solita domanda. Ormai è un rito.
Zia Marin non accetta il mio lavoro serale al bar dove ballo intorno ad un palo.
Il lavoro però mi permette di racimolare molti più soldi di una normalissima commessa al supermercato; per non parlare degli extra che ricevo quando c'è qualche festa privata o qualche ragazzo alticcio pronto a riempirmi le tasche solo per fargli un ultimo ballo.
«Sei bellissima figlia mia. Sai però come la penso. Per me sei sprecata per quella bettola piena di ubriachi», scuote la testa sentendosi maggiormente in colpa. «Puoi continuare con i servizi fotografici a quei ricconi o con le locandine...»
Mi avvicino a lei abbracciandola. «Questa sera copriremo circa tre mesi di pagamento e tra un anno il debito con l'ospedale sarà in parte estinto», la rassicuro.
Le scappa una lacrima dai suoi occhi scuri e tristi, incupendosi senza una ragione.
Mi fa una carezza. «Non tornare sola a casa. Usa lo spray al peperoncino se esagerano. E fatti accompagnare da Dan non da quell'altro, mi raccomando».
«Certo zia. Tu non fare tardi e non dimenticare la medicina».
Infilo il giubbotto di pelle uscendo fuori di casa quando vedo arrivare e fermarsi per strada la Mustangs rossa di Dan, che è anche il proprietario del "The Hell Night". Un locale situato in una zona centrale, affollata. Un grande magazzino, pieno di divani e banconi sulla quale esibirsi.
Soprattutto pieno di clienti, ricchi stronzi pronti a pagare un mucchio di soldi per uno spettacolo privato.
Infreddolita mi affretto a salire in auto. Dan mi sorride. «Somigli sempre di più a Supergirl. Non so come ci riesci», preme sull'acceleratore facendo rombare il motore.
Stringo la mano sul bracciolo. «Sai che non mi piace tutto questo», ammetto guardando fuori dal finestrino pieno di gocce di pioggia.
«Ma continui a farlo», replica canticchiando una hit trasmessa in radio.
Sospiro. «Non ho scelta. L'unica cosa positiva è che per qualche ora staccherò la spina e riuscirò anche a svagarmi un momento come una comunissima ragazza. Devo solo tenere a mente che sto lavorando».
I palazzi si fanno via via più frequenti poi è il turno dei grattacieli, dei grossi tabelloni pubblicitari in grado di cambiare dopo qualche secondo.
Ovunque ti giri New York è incanto. Ma può essere anche una trappola mortale.
«Vedrai che stasera riceverai il doppio se non il triplo dell'incasso. Devi solo avere pazienza con Patrick».
Alzo gli occhi al cielo emettendo un lamento. «Perché devi avere un socio in affari così stronzo?»
Alza le spalle massicce. «Sai che si occupa degli incassi meglio di me, visto che è lui quello ad accettare gli ingaggi più importanti e ad organizzare ogni serata».
Faccio una smorfia. «Ma tu non ci sei quando mi frega», lo guardo male.
Posa una mano sulla mia coscia. Un gesto che fa sempre pensando di poterselo permettere.
«Forse perché sono occupato a tenere lontano da te tutti quei ricchi viziati pronti a mettere le mani dove non dovrebbero?» mi scocca un'occhiata complice.
Tolgo la sua mano spingendolo affettuosamente e ride.
Sono questi i momenti più tranquilli che vivo con il mio amico.
Quando arriviamo, fermi sul retro del locale, nella zona dove è possibile posteggiare le auto, mi guardo allo specchio.
«Che lo show abbia inizio», sorrido e Dan mi apre la portiera. «Spacca tutto», mi incoraggia schioccando le ossa delle mani e del collo preparandosi.
Nonostante la mia sicurezza sfoggiata, dentro sto già tremando.
È sempre la stessa sensazione. Sento di vendere un pezzo di me ogni volta che salgo su quel bancone lercio per ballare le stesse musiche, facendo gli stessi sguardi carichi di malizia e passi, pur di guadagnarmi da vivere. Ho anche il timore di essere importunata da qualcuno o di apparire inopportuna.
Per fortuna c'è Dan, sempre attento e pronto a portarmi via dalle grinfie di ogni singolo stupido pronto ad allungare le mani.
Saluto Patrick con un cenno. Tra noi non corre buon sangue, eppure sono la sua fonte di guadagno primaria. Tra di noi c'è una sorta di rispetto "del nemico". In fondo, so che mi vuole bene. Ormai lavoro qui da circa tre anni. Ho iniziato due anni dopo che zia Marin si ammalasse.
«Pronta?»
Tolgo il giubbotto posandolo dentro l'ufficio adiacente alla sala. Supero lo stretto corridoio con la moquette e la carta da parati a righe spostando la tendina piena di cristalli che riflettono la luce. «Il triplo o me ne vado dopo un'ora», passo subito alla contrattazione.
Patrick caccia in bocca il suo stecco di liquirizia. «Va bene», ghigna guardandomi da capo a piedi. «Devi darti da fare».
Lo spingo. «Non farmi chiamare Dan», minaccio.
Si sposta divertito verso il bancone dove saluto Mirta e Magnolia, le mie colleghe. C'è anche un nuovo dj già pronto a scatenarsi.
In sala ben presto iniziano ad arrivare i primi clienti. Ospiti della festa privata. Un addio al nubilato di un ricco uomo d'affari.
Salgo sul bancone dopo avere bevuto uno shottino con le ragazze per scaldarmi. Una sorta di rito per inaugurare una nuova serata.
Patrick accende le luci e facendo un cenno al dj, parte la musica. In questo modo diamo inizio allo spettacolo.
Dopo circa tre ore, quattro shottini, una rissa sventata da Dan e l'altro buttafuori del locale, Magnolia ubriaca addormentata nel salottino, Mirta a vomitare nel bagno dei maschi in compagnia di un ragazzo che, a quanto pare conosce bene e un casino per terra di banconote, alcol, cibo e chissà che altro, considero conclusa la festa e tutta questa giornata pesante, sfiancante.
Infilo il giubbotto di pelle uscendo dall'ufficio ritrovandomi di fronte Patrick che mi segue sul retro dove, come di consueto, fumiamo una sigaretta all'aria aperta e gelida dell'autunno.
Per terra carte sciolte, sigarette annegate in una pozzanghera maleodorante e puzza di umido ovunque.
Mi stringo nel giubbotto aspirando una boccata di fumo sentendo i polmoni e il naso bruciare.
Devo smettere. Purtroppo non ci riesco.
«Questa sera ti sei davvero superata», conta i suoi maledetti soldi tenendo tra le labbra una sigaretta accesa.
«Significa che avrò il triplo più un extra, spero.»
Non risponde fermandosi per pochi istanti dal suo calcolo prima di entrare nel locale.
Getto la cicca dentro la pozzanghera seguendolo lungo lo stretto corridoio per capire.
«Patrick, non ho tutta la notte», dico cercando di riprendermi dal freddo. I tacchi non aiutano di certo.
Si ferma. «Ecco a te», dice passandomi i soldi infilando il resto del mazzetto dentro la tasca della camicia nera da cui esce una collana d'oro con una croce.
I suoi riccioli pieni di gel gli ricadono sulla fronte ampia.
Conto le banconote. «Avevamo detto il triplo», dico guardandolo male. «Un patto è un patto», gesticolo.
«Devi accontentarti, cazzo!» si lamenta con la sua voce graffiante.
«Che cosa? Mi prendi in giro?» alzo il tono stizzita. «Ho lavorato per tre fottute ore e ho visto i guadagni che hai fatto in cassa. Adesso dammi i miei soldi!»
Si avvicina minaccioso. «Che cosa hai detto?» alza il tono afferrandomi per il mento.
Scaccio via la sua lurida mano. Ho notato che è alticcio ma non si è mai comportato così rabbiosamente nei miei confronti. «Pat, voglio solo i miei soldi», spiego. «Mi servono. Devo...»
«Pagare le bollette e i debiti della tua vecchia zia. Certo, certo. Da quanto dura questa storia? Tre anni?»
Incrocio le braccia sentendomi offesa. «Lavoro qui da tempo e non mi hai mai dato quello che mi spetta», gli faccio notare.
Mi guarda male. «Se non ti piace la mia paga perché cazzo non te ne vai altrove?» indica la porta.
«Sai bene che non posso. Senti, dammi solo la mia paga e finiamola con questa stupita discussione. Sono anche i miei soldi. Li ho guadagnati anch'io».
«Ti ho già dato ciò che ti spetta», dice secco. «Adesso vattene!»
Qualcosa mi ribolle dentro. «Sei un lurido bastardo schifoso, lo sai? Un approfittatore!»
Mi sbatte contro la parete stringendomi il collo. «Ripetilo se ne hai il coraggio, stupida ragazzina.»
Puzza di fumo e alcol. Arriccio il naso. Gli mollo una ginocchiata e nonostante sia piegato, quando cerco di scappare, mi tira per una caviglia facendomi cadere.
Finisco sotto il suo peso, mi dimeno ma mi tiene ferma. «Vuoi guadagnarti qualcosa in più? Bene, perché non ti dai da fare», ringhia slacciandosi la cintura.
«Pat, smettila!» urlo spingendolo.
Sorride. «Perché? Non ti piaccio? Be' l'unico modo per avere i soldi è ingraziarti il capo. Prendere o lasciare, piccola», si avventa sul collo.
Urlo forte spingendolo. Riesco a rialzarmi e corro lungo il corridoio, ma chissà come i suoi riflessi sono come quelli di un animale inferocito.
Mi sbatte ancora contro la parete strappandomi la spallina del tubino che indosso. «Vuoi più soldi? Soddisfami!»
«Mi fai schifo!» lo tengo lontano da me, purtroppo è così forte da sovrastarmi.
Sto andando nel panico e nei paraggi non sembra esserci nessuno.
«Perché? Non sono come Dan oppure come qualcuno della tua età? Andiamo piccola Bambi. Non dirmi che non hai mai fatto un giro in giostra», ride leccandosi le labbra.
Capendo la risposta dal mio silenzio il suo sorriso si allarga. «Be' questo merita una paga consistente non credi?»
Lo spingo rabbiosa. «Non toccarmi lurido porco!»
Ghigna stringendomisi addosso. Strappa le calze affondando la mano sotto il bordo del tubino. Mi oppongo urlando come una pazza di smetterla.
«Ti ho sempre trattata come una sorella ma ecco che ti ribelli. Ma so già come metterti al tuo posto. Vedrai, appena finiremo ne vorrai ancora», ride baciandomi il collo.
«NO! Fermati!» lo spingo e va a sbattere contro la parete.
Lo guardo con disprezzo mentre tiene la mano sulla testa dalla quale esce del sangue. Questo lo fa infuriare maggiormente e scatta in avanti. Mi copro e dal fondo del corridoio si sente una voce poi accanto a me si materializza Dan che manda a terra Patrick con un forte pugno sulla mascella.
«Che cosa le hai fatto? Sei impazzito?»
Mi appoggio alla parete senza peso e senza fiato. Spaventata e scioccata.
Patrick si rialza cercando di colpirlo a sua volta. «È tutta colpa tua!» lo accusa. «L'hai portata tu qui dentro mettendo subito in chiaro di non toccarla», passa la manica sotto il naso pieno di sangue mentre Dan tenta di tenerlo lontano da me.
«Hai portato tu quella pudica puttanella nel mio locale», urla facendomi sussultare. «Non la voglio più vedere. È licenziata. Se solo si azzarda a rimettere piede qui non sarà il tuo pugno a fermarmi», ghigna.
Dan gli molla un altro manrovescio. «Vattene in ufficio. Con te parlerò più tardi», lo minaccia spingendolo verso la porta.
Patrick mi passa da vicino. «Ti rimane una sola soluzione e si chiama sito po...», ride non continuando perché Dan lo spinge facendolo barcollare in avanti.
«Porta fuori questa cagna arrabbiata e vedi di trovarne una che mi porti rispetto», alza il tono sparendo.
Scivolo lentamente a terra. Non tocco il sudicio pavimento perché Dan mi sorregge.
«Ti ha fatto qualcosa?»
Sono troppo sconvolta per rispondere. Semplicemente lo abbraccio con il cuore in gola.
«Andiamo».
Mi trascina in auto dove tolgo le scarpe portando le ginocchia al petto.
Dan non si lamenta. Sbatte la portiera picchiando il pugno pieno di lividi e sangue sul volante con così tanta forza da farmi sussultare.
«Cazzo!» urla. «Dannazione, Bambi ti avevo chiesto di non stuzzicarlo troppo. Ti avevo chiesto di non avvicinarti a lui. Ti ha fatto del male e poteva...» scuote la testa avviando il motore.
Non usa la solita scorciatoia. Fa un giro lento fermandosi al suo locale chiuso. Attendo in auto e quando torna ci dirigiamo fuori città, nel nostro piccolo posto tranquillo in mezzo al verde. Quando arriviamo posteggia malamente aprendo le scatole per passarmi le patatine.
Fisso davanti a me senza muovermi. Non ho fame. Non riuscirei a mettere niente dentro lo stomaco senza poi vomitare.
Sto ancora tremando come una foglia. «Sai che ha stuprato le altre. Tu hai sempre saputo e...» scuoto la testa disgustata.
Dan chiude il cartone facendomi voltare. «Non ero presente e lui mi ha solo parlato, cito testuali parole: di scopate consenzienti».
Scrollo la sua mano sul mento dove avrò un brutto livido domani. Questo lo coglie impreparato. «Sul serio Bambi. Io non c'ero per fermarlo».
«Però lo sapevi!» urlo. «Lo sapevi e non l'hai mandato via!» la voce mi si inclina.
Passa le mani sul viso. «Credi che non mi senta in colpa?»
«Questo ti fa scendere al suo livello», scuoto la testa. «Cazzo!» ripenso a tutti i debiti. «Come farò?»
Dan sembra combattuto. «Dammi un paio di giorni. Ci penso io. Cercherò di farlo ragionare. Solo... fidati di me, ok?»
Picchio i palmi sul suo petto spingendolo. «Come faccio? Come? Dio, come farò? Come dirò a zia Marin di essere stata licenziata?» mi agito andando nel panico.
Dan mi abbraccia. Oppongo resistenza poi mi lascio avvolgere.
«Ti farò avere il bonus e una sistemazione. In alternativa... inizia a cercare qualcosa, anche online se necessario. Sei brava con le grafiche e le foto», sussurra cupo. «Hai già qualche cliente affezionato».
Lo guardo stordita. «Mi stai dicendo che Patrick farà in modo che io non abbia più alcun lavoro nei locali? Mi stai dicendo che la mia unica alternativa sarà come cassiera o come ha suggerito lui come escort?» alzo il tono che esce stridulo ed inclinato.
Dan appare a disagio. Sappiamo entrambi che mi sono messa contro il pesce grosso. La mia vita è rovinata.
Passo i palmi tra i capelli. «Finirà mai questa agonia?»
Mi stringe al petto. «Andrà tutto bene. Troverai qualcosa. Sei la ragazza più super che io abbia mai conosciuto».
Mi scappa finalmente un sorriso e lui mi bacia la fronte. «Mangia qualcosa o zia Marin mi ammazzerà se quando rientrando sarà ancora sveglia, si accorgerà che sei pallida».
Mi convince e ceniamo in silenzio.
Quando accosta davanti il cancello di casa, sento tutto il peso del mondo crollarmi addosso.
«Mi dispiace per come sono andate le cose», sussurro con la portiera socchiusa. Questo sarà sicuramente un addio. Lo sappiamo entrambi. Non possiamo più frequentarci se non di nascosto. Ritorneremo quelli di un tempo. Il pensiero mi distrugge.
In cuor mio però so che troverà sempre un modo per dimostrarmi il suo affetto. Anche se saremo lontani.
Chiude la portiera per trattenermi. Mi abbraccia.
«Prenditi cura di te, ok? Non fare cazzate di cui poi ti potresti pentire», mi guarda con i suoi occhi sinceri.
Annuisco. «E tu non lasciarti sovrastare da un pallone gonfiato. Hai due locali e devi essere coraggioso una volta tanto. Usa il pugno alla Dan e non solo per togliere i malintenzionati dal bancone».
Abbozza un sorriso accarezzandomi il viso.
Per un istante, rivedo il ragazzo di qualche anno fa. Malinconico, silenzioso.
«Sai che...»
Annuisco. «Lo so. Lo so Dan», la voce si inclina ma ricaccio dentro il nodo. «Sei stato tutto per me e non smetterò mai di ringraziarti», strofino la punta del naso sul suo.
«Mi dispiace tanto. Mi mancherai al locale», mi stringe ancora a sé. «Mi stavo abituando a vederti sculettare di tanto in tanto nella mia direzione per farmi avvicinare», esclama con sarcasmo.
Inspiro il suo profumo. Nicotina, colonia, erba e un sentore di sudore. Non è mai cambiato.
«Mi verrai a trovare per una cena veloce o per prendere il brodo di pollo?»
Annuisco. «Se avrò tempo anche per quelle buonissime ali di pollo. Sai che le preferisco. Ciao Dan», sussurro con un filo di voce aprendo la portiera. «Grazie». Mi volto incamminandosi. Riesco a fare solo due passi perché Dan mi raggiunge in fretta.
Tirandomi per un braccio mi costringe a voltarmi e, senza darmene il tempo, venendo meno alla promessa, mi bacia.
Un bacio lungo nella quale però nessuno dei due si rifugia.
Siamo amici. Non c'è mai stato niente. Solo affetto reciproco.
Ricambio il gesto staccandomi lentamente.
«Sta attenta».
«Evita il rum, ti dà alla testa».
Infila i pugni dentro le tasche dei jeans con un sorriso guardandomi da sotto le ciglia entrare in casa.
Chiusa la porta, ogni breve consapevolezza mi ricade addosso. Sprofondo nello sconforto, soprattutto quando trovo le luci spente e finalmente nessuno ad osservarmi. In questo momento posso essere me stessa, mi dico.
Mi trascino in cucina dove prendo un biscotto e un bicchiere di te' caldo da portare in camera. Un'amara consolazione.
Sul ripiano della cucina c'è una busta gialla. Zia Marin deve avere dimenticato ad avvisarmi che anche oggi è arrivata posta.
Giro intorno il bancone strappandola, leggendo il contenuto. Quando lo faccio mi sento mancare.
A causa dei tagli, l'ospedale con largo anticipo dà un preavviso di un mese per il pagamento definitivo della somma. Scivolo a terra, la busta cade sul pavimento. Porto le mani tra i capelli dondolando.
Ecco perché zia Marin era così emotiva oggi.
Che cosa faccio adesso?
Non ho niente!
Non ho un lavoro. Non ho dei soldi messi da parte. Niente!
Continuo a fissare la busta e la mia disperazione prende sempre più forma.
Accartoccio il foglio.
Pensa, Bambi. Pensa, mi dico.
Corro in camera. Tolgo i tacchi lanciandoli all'angolo rifugiandomi in bagno dove aperto il rubinetto dell'acqua riempio la vasca usando una saponetta che si scioglie creando sulla superficie un colore azzurro calmante e nell'aria un odore leggero di viola.
Mi immergo fino a sparire in fondo. Riemergendo dopo poco aggrappandomi al bordo della vasca annaspando e tossendo. Passo i palmi sul viso, tra i capelli e rimango ancora a pensare.
Qualcosa in mezzo all'oscurità mi fa capire di avere ancora una possibilità. Seppur sciocca, posso sempre provare.
Ho solo una cosa. Ha un gran valore. Posso venderla e avere una vita senza dovere pensare al domani, alla povertà.
Uscita dalla vasca mi guardo allo specchio.
Sono totalmente nuda.
Osservo il mio riflesso ritenuto grazioso e sofisticato. Il naso leggermente all'insù, gli occhi grandi, chiari.
Avvolta dall'asciugamano porto sul letto il portatile digitando sul motore di ricerca i modi per vedere la propria "purezza".
Già, la disperazione mi ha appena spinta verso qualcosa di estremamente pericoloso. Ma, le alternative attualmente non sono poi così tante.
Ho bisogno di estinguere il debito di zia Marin il prima possibile. Lo faccio per lei, mi dico mordendomi il labbro mentre mi iscrivo su un sito dove è possibile mettersi all'asta, come carne al macello.
La cosa più assurda: non sono l'unica. Milioni i profili di giovani ragazze con foto e sorrisi esagerati. Corpi messi in bella mostra per accaparrarsi il più grande dei miliardari. Probabilmente anche il più porco e vecchio che ci sia.
Senza sentirmi troppo in colpa o a disagio, procedo creando il mio profilo. Non metto niente di personale. Nessuna foto sensuale come le altre. Nessun dettaglio sconvolgente. Solo una frase ad effetto.
Seguo i vari step arrivando alla scelta sulla quota per dare inizio all'asta: milioni? Miliardi? Quanto sono disposti a pagare per me?
Chiudo il portatile mordendomi un'unghia. Lascio in sospeso questo step che posso anche modificare in seguito.
Dopo un paio di minuti di indecisione mentre mangio un cookies, riaccendendo il portatile navigando tra i vari siti presenti, collegandomi infine sul "meno peggio".
Il sito si chiama: "IncontriAmocialCaldo". Un nome che non lascia alcun dubbio sull'entità del sito stesso. Principalmente per i vari profili presenti con i relativi video e scatti fotografici parecchio spinti.
La prima regola del sito? Nessun pudore.
Mentre guardo alcuni dei profili per farmi un'idea, cerco di non beccarmi anche qualche virus, distruggendo così l'unica mia fondate di svago e di ricerca.
Faccio attenzione a dove spingo il cursore infilando le cuffie prima di contattare chi gestisce la pagina con i video più hot che io abbia mai visto.
Sotto la pagina ci sono dei recapiti e la voce in grassetto: "contattaci". Ci clicco sopra e mi si apre subito una chat.

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