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Ditemi che non è uno scherzo. Ditemi che non sto avendo un altro dei miei incubi. Ditemi che tra poco mi sveglierò e questa angoscia che sento forte lacerarmi il cuore e ottenebrarmi la mente, cesserà di tormentarmi, perché è come una forte stilettata al petto.
Questo penso guardandolo. Cercando invano di non fissarlo tanto a lungo da farlo sentire a disagio.
Il suo viso: un tempo da modello, da ragazzo per bene, adesso coperto, sulla parte sinistra, da una maschera bianca da fantasma dell'opera a fare da scudo, a nascondere, una porzione del viso completamente deturpata.
Sull'occhio color pece, un taglio profondo e netto sul sopracciglio. L'altro occhio, nascosto sotto la maschera: è grigio, quasi bianco.
Indossa un abito elegante, di sartoria. Un guanto nero a coprire la mano sinistra, probabilmente bruciata, come la carne che si intravede sul collo. Sopra il labbro un'altra cicatrice, molto più piccola rispetto alle altre e, quasi bianca, sul punto di svanire.
«Di qualcosa», mi esorta quasi a disagio alzando il tono che esce cupo.
È strano ma riesco a percepirlo, così vivido, ancora fresco, tanto intenso, il suo dolore. Sento come pulsa nelle sue vene scandendo ogni nuovo battito, ogni singolo respiro della sua fragile esistenza, messa alla prova da un destino crudele che, facendosi beffa di lui, ha iniziato nel più brutto dei modi a tormentarlo.
Prendo fiato e l'unica cosa che posso fare è ridere. Rido forte tappandomi la bocca ma non riesco proprio a trattenermi.
Se non è uno scherzo che altro può essere?
«Se sapevo che questa sera avrei incontrato un personaggio nuovo degli Avengers, mi sarei messa in tiro», replico asciugandomi le lacrime.
«Non è la reazione che generalmente mi aspetto», si allontana dalla scrivania nascondendosi ancora dietro la tenda. Incredulo, stringe le labbra dilatando lievemente le narici.
Mi ricompongo immediatamente percependo il suo disagio.
«Scusa ma... non capisco perché ti nascondi», gesticolo fendendo l'aria.
«Sei priva di tatto, adesso lo so», in un primo momento mi stuzzica guardando in basso, verso la strada.
Mi avvicino a lui. «Perché ti nascondi?» Chiedo ancora.
Mi guarda di nuovo in quel modo e mi sento travolta, svuotata da ogni consapevolezza.
Non è una scossa come le altre quella che ricevo. È più un maremoto. Un terremoto. Un'onda improvvisa a travolgermi. È una sensazione che va oltre, al di là di ogni immaginazione.
«Sono un mostro. Ti basta come risposta?»
«Cazzate! Sei solo un codardo.»
Si avvicina. Non indietreggio, non mi ritraggo. Corruga la fronte. «Non è un aggettivo che mi appartiene», dice con un tono basso, rendendosi conto della brusca reazione appena avuta.
Avvicino la mano al suo viso e con un movimento fulmineo mi afferra il polso fermando il mio gesto.
Il contatto delle sue dita sulla mia pelle, mi fa rabbrividire.
Anche lui sembra avere la stessa reazione. Si ravvede e all'unisono, ci allontaniamo di un passo muovendoci in direzione opposta in un sincrono perfetto.
«Non toccare mai il mio viso», soffia a fatica trattenendo la minaccia.
Massaggio il polso bruciato dalle sue dita calde come fuoco sulla carne sensibile. Sono ancora del tutto stordita da quello che ho provato pochi istanti fa. Un lungo attimo in grado di colpirmi nuovamente e con una forza straordinaria al cuore.
«Ok, scusa», balbetto. «Ma non dovresti portare una maschera. Non ne hai bisogno.»
Alza il labbro in una smorfia triste. «Dici?»
Prendo fiato. Annuisco brevemente ma con più sicurezza.
È così?
«Sei una pessima bugiarda», staccandosi va a sedersi sulla comoda poltrona girevole incrociando le dita sulla scrivania tenuta a lucido e in ordine.
«Siediti», mi indica la poltrona davanti.
Indugio valutando e avanzando l'idea di rispondere per le righe. Non mi piace essere presa per bugiarda. Questo credo valga anche per lui.
Ma, per non creare fraintendimenti, raccolgo tutta la buona volontà di cui posso disporre e faccio come dice, guardandomi intorno curiosa. In fondo, non sono a casa mia. Sono nel covo del nemico. Posso curiosare senza toccare.
Alle narici mi arriva costante l'odore della sua colonia. Non è invadente ma, penetra sotto pelle scavando delle crepe.
Ormai da qualche minuto sento circolare nel sangue anche altro, ed è una sensazione simile a veleno. Mi annebbia la mente. Mi fa sentire in alto mare. Trascinata via da una corrente inarrestabile.
C'è anche un odore lieve di legno, di spray per i mobili al miele e di ammorbidente.
«Ciao», assume una posa professionale lisciandosi la giacca nera dell'abito elegante che indossa sopra una camicia bianca. Niente cravatta.
Ha le spalle massicce, il petto apparentemente scolpito. Deve essere un tipo sportivo, altrimenti non si spiega la mole.
Sta cercando di mettermi a mio agio quando in realtà dovrei essere io quella a comportarmi con un certo rispetto.
«Ciao», osservo il cassettone privo di foto o elementi personali, riconducibili alla sua famiglia, alla sua personalità. Ma, non c'è niente di suo sopra, a parte un posacenere di cristallo e un vaso quadrato vuoto, con davanti un buco a formare un albero. Ci starebbe bene una candela, rifletto. In questo modo creerebbe la figura su una parete.
«Non amo riempire gli spazi con oggetti inutili», si sente in diritto di spiegare, notando forse il mio sguardo critico. «Non troverai foto qui dentro perché è un posto di lavoro non di distrazioni o ricordi.»
Schiarisco la gola. «Non era mia intenzione...»
«L'hai fatto lo stesso. Ti metto a disagio?» valuta ogni mia reazione. È molto attento.
Nego. «No, ho solo tante, troppe domande e non sono sull'offerta di lavoro», ammetto. «E non mi piace essere invadente, quindi puoi immaginare il mio conflitto interiore.»
Intuisce. È perspicace, intelligente. Il modo in cui mi guarda però, mi scaglia addosso molteplici sensazioni. Una più intensa dell'altra. Non so se riuscirò a rimanere ancora per molto qui dentro senza dare di matto. Ma, l'ho voluto io. Sono stata io ad innescare un meccanismo, un effetto domino a causa della mia reazione iniziale dopo avere notato la sua assenza. Perché mi ha dato fastidio non trovarlo in quel posto dopo che ha insistito tanto.
«Mi è stato riferito che hai rifiutato la mia proposta», inizia passando all'attacco, forse per farmi capire che non intende parlare di sé o della sua vita.
È scaltro, evasivo, lo terrò a mente.
«Si. Non credo di essere la persona adatta a ristrutturare la tua vecchia casa. Sempre che sia tua.»
Apre un quaderno rilegato in pelle. Solleva la penna facendo scattare fuori la mina. Lo gira lasciandolo scivolare con due dita nella mia direzione. Posa poi la penna sul foglio. «Firma.»
Mi sporgo per vedere di cosa si tratta e nel leggere noto che è un contratto. «Non firmerò finché non mi illustrerai ogni singolo punto su questa bizzarra offerta di lavoro.»
«Tu firma e ti illustrerò quello che vuoi a cena», dice alzandosi.
È davvero alto. Molto. Zoppica lievemente ma non si nota neppure. Riesce a mantenere l'equilibrio, la tipica compostezza di un ragazzo nato e cresciuto nel benessere che non accetta questa nuova condizione.
Ha capito bene che con il dolore o ti ci scontri o ti lasci logorare dentro. O lotti o ti lasci abbattere.
Lui ha capito bene. Si è fatto consumare fino a ridursi in cenere per poterlo superare. Ma, non ne è uscito del tutto illeso.
Gira intorno alla scrivania sedendosi sulla poltrona accanto.
Sollevo il quaderno leggendo le prime righe di un contratto di lavoro ben redatto e stipulato. Non ho il coraggio di perdermi ancora nei suoi occhi.
«Hai così tanta fretta?»
«Si, ho tanta fame. Tu no?» Mi guarda con malizia e arrossisco.
Accavallo le gambe. «Mi hai trascinata fino a qui per prenderti quello che vuoi non è vero?»
Corruga la fronte. Ci mette poco ad intuire. «Assolutamente no!» mi guarda in parte offeso. «Ti ho detto sin dal primo istante che avremo trattato. Bene, siamo qui. Hai chiesto di mostrarti la faccia ed eccola. So che non ti piace vedere lo scempio. Adesso accetta, tu lavori e io ti do i soldi. Non mi sembra tanto difficile da capire e non penso ci sia altro modo per spiegarlo.»
Batto le palpebre. «Quindi tu non vuoi portarmi a letto?» mi indico agitandomi sulla poltrona.
«No», replica in tono neutro.
Non sembro fargli alcun effetto. Seppur in minima parte, mi infastidisce.
«Dove sta la fregatura?» Assottiglio gli occhi poi guardo il foglio cercando una clausola.
Posa la mano sulla pagina. La vista del guanto di pelle mi scatena uno spasmo allo stomaco. Drizzo la schiena ripercorrendo il profilo della sua mano, dell'avambraccio coperto dalla giacca e del braccio, raggiungendo il suo viso sfigurato, i suoi occhi così diversi e fissi nei miei.
«Nessuna fregatura. Non ci sono clausole. Tu porti a termine il tuo lavoro e intaschi la somma che hai scelto per mettere all'asta la tua verginità.»
Faccio una smorfia. «Mi stai chiedendo di fidarmi di te dopo che hai fatto lo stalker, inviato regali e chiamato un paio di volte con il chiaro intento di stuzzicarmi?»
L'accenno di un sorriso si insinua sulle sue labbra che lentamente si incurvano. «Che cosa vuoi?» assottiglia gli occhi.
La mia mano si sporge verso il suo viso fermandosi sulla cicatrice che ha sull'occhio buono. Non intaccato da chissà quale strazio. «Dimmi la verità.»
Lo sento: trattiene il fiato. Non si scansa. «Fallo!»
Ritiro immediatamente la mano alzandomi, lasciando cadere tutto a terra.
Che diavolo sto facendo?
«Devo andare», balbetto correndo verso la porta.
«Tutto qua? Che ne hai fatto della ragazza sfacciata e spontanea?»
«Quella ragazza si è appena messa in un bel guaio», replico aprendo la porta dell'ufficio sentendomi sul punto di scoppiare.
Che cosa credevo? Perché sono sempre così impulsiva?
Trovo Nan in corridoio. Sta mettendo in ordine il bucato ripiegandolo per bene sulla sedia. Appena mi vede prende in fretta le mie cose lasciando il lavoro che ha appena iniziato.
«Grazie», balbetto sentendomi in colpa per lei. «Non dovevi. Potevo prenderlo da sola.»
«Non mi dispiace.»
«Bambi»
Mi irrigidisco.
Nan se ne accorge e vedendolo arrivare si dilegua con una strana espressione in volto.
Mi giro lentamente. Un passo malfermo e i battiti sempre più in aumento, come quando rubi un biscotto dalla scatola e cerchi di non farti beccare mentre lo divori.
Travis si ferma a debita distanza, rispetta i miei confini ma non demorde.
«Non intendo accettare il tuo lavoro. Cercati un'altra persona più qualificata, soprattutto pronta ad assecondare i tuoi bisogni. Ho altro a cui pensare.»
Mi raggiunge. Questa volta non si ferma, non mantiene alcuna distanza tra me e lui. L'aria si carica, si surriscalda come gas tossico. «Guardami», ringhia stringendo i denti.
Lo faccio senza problemi o paura e il suo viso cupo mi fa stringere ancora il cuore in una morsa dolorosa.
«Non vorrai farmi mangiare una pizza tutto da solo», mette le mani dietro la schiena. Adesso somiglia ad un bambino.
Mi scappa un sorriso. Mi ha appena colta di sorpresa questa sua reazione. «Hai appena usato la carta della pizza per farmi rimanere nel tuo appartamento di lusso?»
Alza le spalle. «Funziona?»
Rido. «C'è anche un film?»
«E lo yogurt», trattiene il ghigno soddisfatto nel notare la mia reazione.
«E perché non l'hai detto prima?»
Tolgo il cappotto e lui lo sistema subito sull'attaccapanni all'entrata poi mi fa cenno di seguirlo mantenendosi ad una certa distanza ma soddisfatto.
Le sue spalle non sono più tese come prima. Neanche i solchi in evidenza sul viso si notano alla luce dei fari posti in alto in questo appartamento ben arredato e davvero bello da vedere. Mi sento quasi come una turista in un museo, sono molti i quadri astratti a colpirmi con i loro colori sgargianti in netto contrasto con l'arredamento monocolore, seppur piacevole alla vista.
Superiamo una bellissima cucina ad isola con il ripiano in onice, un soggiorno immenso e, aperta una porta scorrevole in legno riciclato dal colore grigio chiaro con striature appositamente create dall'artigiano che le ha fatte, mi ritrovo in un cinema vero e proprio. Una stanza quadrata dove al centro esatto vi è un divano letto apparentemente comodo, spazioso. Due cuscini bianchi, una testiera che si incurva a C. Tutto trapuntato. Un materasso con una coperta morbida blu notte.
«Mettiti pure comoda», dice sparendo dalla stanza.
Rimasta sola, mi guardo ancora intorno con la mia solita curiosità morbosa.
Le pareti sono pallide, il pavimento rivestito da un tappeto morbido sempre sul tono del grigio chiaro. Il divano letto disposto ordinatamente al centro, e infine: un enorme schermo sulla parete davanti.
Tolgo le scarpe per non rovinare il pavimento, sedendomi al centro del divano, quasi sul bordo, sentendomi stranamente rilassata.
Ho tante cose da metabolizzare. Troppe da potere mettere in ordine in fretta. Tanti pensieri e teorie.
Le luci dei fari posizionati in alto, si abbassano.
Compare sulla soglia con in mano due cartoni di pizza, una confezione di lattine e una ciotola di popcorn sopra i cartoni.
«Scegli il film», dice lanciandomi un tablet dopo avere disposto tutto sul tavolo basso pieghevole che recupera da sotto il divano.
Lo afferro al volo leggendo i titoli. Sorrido e credendo di fargli un dispetto, scelgo il cartone animato "Nemo", uno dei miei preferiti.
Seduto accanto, noto che ha tolto la giacca del vestito. La camicia è sbottonata sui primi passanti ma le maniche non hanno i risvolti. Da questo comprendo che deve metterlo ancora a disagio mostrare una parte del suo corpo colpita da chissà quale sventura.
Mi porge il cartone della pizza, e mettendosi comodo batte le mani una sola volta. Le luci si spengono del tutto.
Quando sullo schermo compare il film da me selezionato, nasconde un sorriso.
Apro il cartone tirando fuori un trancio di pizza. Mangio serena guardando lo schermo che permette una visione migliore di una comune tv o un tablet.
Quando mi volto, stuzzicata da una forte sensazione e da uno stranissimo formicolio sulla pelle che, mi si abbatte addosso come una folata lieve di vento, mi accorgo che mi sta osservando.
I suoi occhi in netto contrasto cromatico tra loro, mi studiano, mi trasmettono una delle più forti reazioni interiori che io abbia mai provato o vissuto. È difficile da spiegare. Mi fanno sentire in mezzo al caos di battiti sempre più in aumento del mio cuore. È come se attendessi come una naufraga di raggiungere la riva per potermi riposare.
«Non è casuale la tua scelta», non è una domanda e la sua voce mi coglie alla sprovvista colpendomi ancora il petto, già squarciato in due dai battiti. «Pensavi di farmi un dispetto ma ti sbagli. È nella lista non perché qualcuno lo ha inserito per sbaglio, ma perché lo adoro. Per rispondere alla tua domanda inespressa: si, sono anche un tipo da cartone animato.»
Deglutisco. Non so come reagire. Non so se scoppiare ancora a ridere o se comportarmi da persona matura. Mi manda il tilt il cervello. Ora come ora, non credo di avere fatto la scelta giusta. Quando ho iniziato lo scambio di e-mail lui era una scatola chiusa ermeticamente. Adesso però, mi rendo conto che è ben diverso.
«Bene, perché non intendo cambiare per vedere qualcos'altro», appoggio bene la schiena alla testiera con le gambe sotto il sedere.
Porto una ciocca dietro l'orecchio sentendo ancora il bisogno di riempire il silenzio tra di noi che, con mia enorme sorpresa, non è carico di imbarazzo.
«Perché proprio io?» chiedo durante la breve pausa dopo il primo tempo.
«Ti deludo se ti dico che sei stata una scelta casuale?»
Nego. «No, deludermi è un parolone visto che stai mentendo».
Conferma celando l'ombra di un sorriso. «Già. Però voglio essere sincero: a differenza delle altre, non hai inserito una tua foto, non hai fatto finte promesse o avuto pretese. Non hai fatto sfoggio delle tua capacità. Hai semplicemente messo te stessa, quello che hai a disposizione con un messaggio chiaro e diretto. Niente apparenza. Leggendo, ho notato il tuo bisogno, nascosto in una banalissima ma per te importante richiesta di aiuto e non ho resistito. Così, ti ho inviato quell'e-mail».
Mordo il bordo della pizza, una delle più buone che io abbia assaggiato. «Mi dici adesso come hai scoperto tutto il resto su di me?»
Non esita. «Te l'ho detto, sono bravo con i computer.»
Beve un sorso di birra guardando lo schermo. Le dita non coperte dal guanto grattano via la carta. La mano destra è curata, apparentemente morbida. Non porta anelli o bracciali. Nessuna collana. È semplice, elegante.
«Che cosa ci facevi esattamente in quel sito?»
«Mi annoiavo.»
Inarco un sopracciglio. «E quindi hai deciso su due piedi di offrire un lavoro ad una sconosciuta anziché lasciarla a qualche maniaco o approfittarne persino tu?»
Contrae la mascella. «Non la metterei in questi termini ma, si. Sempre meglio di lasciarti ad un maniaco.»
Rimango per qualche istante in silenzio. Non mi sento a disagio. Non ho voglia di scappare. Ho solo questo bisogno di capire tutto.
«Di chi è quella casa?»
«Mia.»
Risponde in modo robotico.
Chiudo il cartone pulendo le dita. «Credi davvero che io sia capace di rimetterla in sesto?»
Termina la birra. Fa un breve cenno con la testa. «Ogni settimana mi farai vedere quello che hai realizzato e se vorrai ti darò un mio parere.»
«Avrò uno stipendio?»
«Si e anche un budget settimanale per la casa.»
«Sei molto generoso», dico togliendogli la bottiglia dalle mani. Richiamando così la sua attenzione, si volta.
«Sto solo offrendo un lavoro a chi ne ha bisogno. E tu non neghi di avere bisogno dei soldi e io, semplicemente te li sto offrendo in modo pulito. Questo non fa di te una senzatetto o una mendicante. Hai fatto un colloquio e hai ottenuto il lavoro regolarmente. Questo sarà un trampolino di lancio per la tua carriera. Che cosa non ti va a genio?»
Mordo il labbro. Riprende la bottiglia e sporgendosi ne afferra una piena stappandola, lasciando quella vuota in un angolo.
«Mi sembra strano. Insomma, non capita tutti i giorni di ricevere un'offerta di lavoro così vantaggiosa dopo avere messo la propria verginità su di un sito in un momento di disperazione. È un prezzo alto quello che pagherai, più del valore della casa», dico bevendo un altro sorso della birra al liquore che scende giù che è una meraviglia. «Non voglio sottrarti anche quello che non mi spetta.»
«I soldi non sono un problema per me. La casa ha un valore, quello che le si attribuisce in base all'affetto. Voglio solo mettere di nuovo in piedi quello che tu chiami vecchio rudere.»
«Sarò libera di arredarla come voglio?»
«Si», azzanna un trancio di pizza.
Una semplice margherita. Niente di raffinato o troppo pretenzioso. Mastica lentamente, godendosi il pezzo come se fosse l'ultimo della sua vita.
«E per rispondere alla domanda che stai per fare: verrò a controllare personalmente qualche volta. Non sopporto neanche io le prese per il culo. Per il resto puoi fare quello che vuoi. Non ti darò fastidio.»
Rifletto un momento. «Come fai ad anticipare sempre tutto?»
Passa l'indice sul labbro inumidendolo. Non perdo neanche un gesto. Non riesco a non starmene qui ad osservarlo. È interessante.
«Non guardarmi come un fenomeno da baraccone. Sei facile da comprendere e difficile allo stesso tempo. Non hai una via di mezzo, il che è frustrante.»
Rimango in silenzio per un po'. Non trovo le parole per fargli capire che non penso di lui tutto questo. Non lo guardo perché è sfigurato. Lo guardo perché mi incuriosisce ogni suo movimento, ogni scelta.
«Ti ho spaventata prima?»
Mi stendo su un fianco allungando le gambe. «No. Non mi aspettavo niente del genere, lo ammetto.»
«Fattelo dire: hai poco tatto», vedendomi stringere chiede velocemente: «senti freddo?»
«Un po'.»
Lo seguo con gli occhi mentre si alza agilmente. Sparisce per qualche minuto e quando ricompare sulla soglia, tiene tra le mani un plaid morbido.
Provo a sollevarmi ma le ossa sembrano fatte di piombo, non so se per la birra superalcolica o se per la stanchezza. «Non dovevi. Tra poco me ne vado. Tolgo il disturbo lasciandoti alle tue cose. Sarai pieno di impegni.»
«Intanto, visto che senti freddo, ti copri. Al resto pensiamo dopo», dice sistemandomi il plaid sulle spalle con delicatezza, facendomi sentire un piccolo uccellino ferito. I suoi gesti rimangono allo stesso tempo misurati.
«E comunque non è vero che ho poco tatto. Sono solo sincera», mi imbarazzo nel dirlo. Lo so. So di non essere come tutte le ragazze a modo. Ho i miei innumerevoli difetti che non riesco a migliorare. A causa di ciò, spesso esce fuori un lato orribile del mio carattere, direi freddo e distaccato. Insensibile, credo sia questa la parola adatta.
Ride. «È stata la reazione più esilarante che io abbia mai visto da quando sono ridotto così. Credimi, non mi aspettavo di certo che ti mettessi a ridere», scuote la testa guardando lo schermo ormai fermo sull'immagine di Nemo abbracciato a suo padre.
«Che cosa avrei dovuto fare?»
«Urlare, scappare o puntarmi qualcosa contro chiedendomi di non avvicinarmi», dice teatralmente sporgendosi.
Lo spingo. «Uno: non mi fai paura. Due: devi togliere quella maschera perché non ti serve e perché non siamo in un film o in un libro e tre: sono sicura che avresti saputo come disarmarmi.»
Spalanca lievemente l'occhio mentre l'altro coperto dalla maschera bianca non si muove se non in ritardo. «Che cosa hai che non va?» Sussurra.
Mi sento offesa. «Solo perché la gente vedendoti è abituata ad abbassare il viso nascondendo la curiosità non significa che io debba fare lo stesso. Non nascondo la mia curiosità, ma non sono così insensibile da chiederti che cosa hai fatto senza neanche conoscerti almeno un po'», rispondo d'impulso con un tono acido. «In realtà ora come ora non voglio neanche saperlo. È una cosa che riguarda te. Sappi solo che non sei così orribile come pensi.»
Ed è vero: è un bel ragazzo. I suoi capelli di un comunissimo castano tagliati corti, sono in ordine. Ha solo delle cicatrici. Niente di così intollerabile alla vista.
Si irrigidisce allontanandosi. Quasi volesse nascondere quella parte di sé sfigurata.
«Un esperimento andato male», mi mette alla prova.
Alzo il sopracciglio. «Niente ragnatele. Niente artigli metallici. Sembri più Freddy Krueger in versione giovane con i capelli e meno bruciata», sporgendomi annuso l'aria. Noto però che, ancora una volta si è irrigidito. «E non puzzi di bruciato. Hai un buon odore. A proposito: mi piace il tuo profumo.»
Schiude lievemente le labbra forse lasciando uscire il fiato. «Sei sicura di essere umana?» Sulla fronte noto una linea marcata.
«Tu sei il figlio nascosto di un Avengers o di Freddy Krueger e dai a me dell'aliena?»
Ride e io a ruota.
«Mi sembra solo... strana questa tua calma. Di solito... ci si sente a disagio accanto a me.»
Alzo le spalle. «La gente si sente in dovere di provare pena per chiunque. Io ho smesso di provare pena, sopratutto pietà. La vita è questa. Le cose capitano. Hai avuto un incidente, ma sei vivo. Non avrai l'aspetto normale di chiunque ma al giorno d'oggi questo termine dovrebbe solo essere usato per i poveri di intelletto. Sei originale.»
Scivola sulla superficie fissando il tetto. In questo momento, mi sembra la persona più umana del mondo.
«È la cosa più bella che io abbia sentito negli ultimi anni.»
Mi avvicino ancora un po' a lui. Sono infreddolita. Il plaid non aiuta perché continuo solo a sentire freddo causato dai brividi che mi provoca. Sbadiglio. «Non abituarti. Vedrai che domani tornerò in me e non farò più complimenti gratuiti.»
Sul soffitto noto solo adesso delle stelle. Prima, sotto la luce dei fari non si vedevano.
«Sei triste oggi», si fa attento.
Abbasso le palpebre. «Sono tanto stanca», ammetto. «Continuo a trovare qualcosa da fare solo perché devo pagare quel dannato conto all'ospedale. Non ho tempo perché ho solo un mese. Non mi sono fermata un attimo da quando ho perso il lavoro. Mi si sono scaricate le batterie ma... vedrai che domani sarò di nuovo in me. Anche i più duri hanno bisogno di dormire, Trev», sbadiglio ancora chiudendo gli occhi.
«Non mi dispiace quando mi chiami così.»
Sento una carezza lieve sulla guancia ma sono troppo altrove per riacquistare conoscenza e chiedergli di non farlo. Di non trattarmi come un essere indifeso.
Dopo quelli che a me sembrano secondi, attimi nella quale la vocina dentro la mia testa fa suonare molteplici campanelli d'allarme, spalanco gli occhi.
Attorno c'è buio e sono ancora avvolta dal plaid come in un bozzolo. Controllo velocemente e, accanto a me non c'è nessuno. Mi sento in disordine, frastornata.
Sguscio malamente via dalla coperta e, recuperando le scarpe esco dalla stanza. Mi stiracchio legando i capelli in una crocchia cercando di domare i nodi.
Una luce accecante mi investe e rimango per pochi istanti abbagliata dalla bellissima visione dell'alba, i primi spiragli di luce di una giornata limpida seppur fredda.
Cammino lungo il corridoio, cercando di non imbambolarmi, supero le due colonne basse con i vasi pieni di aste e canne intrecciate fermandomi sotto l'arco quando davanti a me, noto il ragazzo che mi ha fatto dormire a casa sua, senza pretese.
Imbarazzata mi avvicino allo sgabello della cucina dove sta canticchiando preparando qualcosa su una padella.
Mi sente arrivare, perché si volta. «Ti sei svegliata presto», corruga lievemente la fronte. Il viso coperto ancora dalla maschera, questa color carne, i capelli umidi. Indossa una tuta e sembra totalmente diverso, direi quasi a suo agio.
«Avresti dovuto svegliarmi prima.»
Posa due piatti sul ripiano del bancone. Sopra vi sono uova strapazzate, bacon e purè di patate. Al centro mette un altro piatto con i toast.
Gira intorno sedendosi accanto a me. «Ti sei addormentata come un ghiro. Sembrava non dormissi da anni e ti ho lasciata tranquilla. Hai dormito bene, spero», dice prendendo un toast.
Assaggio il purè di patate allontanando il bacon.
Lo nota e mi toglie subito il piatto. «Che fai?» chiedo biascicando con la forchetta ancora in bocca.
Toglie il bacon recuperando dal forno un vassoio con un piatto pieno di muffin, pancake e cupcake.
«Ti adatti troppo. Per una volta pensa un po' a te stessa», mi posa sotto il naso il vassoio.
Riafferro il piatto di prima. «Il resto delle cose vanno bene. Solo perché non mangio il bacon non significa che dovevi prepararmi anche tutto questo», indico il ben di Dio.
Torna a sedersi accanto. «Mangia e non pensarci troppo. Non adattarsi sempre a qualsiasi cosa.»
Sembra arrabbiato al posto mio. Ma, è nella mia natura adattarmi. Non posso farci niente. «Non è poi così brutto adattarsi», dico assaggiando le uova. È un ottimo cuoco, non lo avrei mai detto.
Spazzola in poche e semplici morsi la sua colazione. Poi mi ruba un muffin e alzandosi preme il pulsante del bollitore riempendo due tazze. «No, ma da quello che ho notato non batti mai ciglio. Sei accondiscendente e questo non fa di te una persona necessariamente sottomessa ma: infelice, braccata.»
Apro e richiudo la bocca mandando giù il boccone pieno. «È un complimento?»
Annuisce. «Ti fa onore.»
Sorrido dandogli una lieve spallata quando torna a sedersi accanto a me. «Chi lo avrebbe detto che MisterX avesse un lato tenero», lo prendo in giro bevendo un sorso di caffè. «Non so se hai notato ma hai anche scelto un nome da Avengers», ridacchio mordendomi il labbro.
Inumidisce le sue sospirando. «Posso chiederti se almeno hai dormito bene?» Appoggia il gomito sulla superficie.
Guardo il piatto vuoto. «Se per bene intendi non accorgersi di essersi addormentati oppure che mi è sembrato di chiudere un secondo gli occhi e non sentire più niente se non una piacevole sensazione di benessere, si, ho dormito bene e ti ringrazio per questo, ma avresti dovuto mandarmi a casa.»
Nega. «Non permetterei mai ad una ragazza di girare da sola di notte. Non sai mai chi troverai per strada.»
Mi abbraccio. «Avrei chiamato Dan.»
Si irrigidisce. «Dan?»
«Il mio amico. È come un fratello. Lavoravo per lui ma a causa del suo socio in affari sono stata licenziata.»
Sta per replicare quando spunta Nan. Indossa una divisa diversa oggi.
Si ferma di colpo sulla soglia spalancando gli occhi. I sacchetti della spesa tra le mani per poco non le scivolano a terra. «Buongiorno», schiarisce subito la voce che, sulle prime sillabe fuoriesce stridula. «Mi scusi, non sapevo che avevamo visite», a capo chino lascia i sacchetti sul ripiano.
«Se te lo stai chiedendo mi sono addormentata e non abbiamo fatto quello che credi. Non vado a letto con il capo. Quindi non scusarti. Sono io quella ad avere invaso casa vostra.»
Travis mi fissa divertito nascondendo il ghigno sotto la mano che tiene sulle labbra appoggiandosi con il gomito sul ripiano.
«Vado a riordinare la stanza, con permesso. Bambi», mi saluta con un lieve sorriso.
Ricambio sentendomi in imbarazzo.
Quando rimaniamo soli, Travis scoppia a ridere. «L'hai detto sul serio?» non riesce a smettere e gli mollo un colpetto. «Sembrava che avesse appena visto un fantasma», esclamo. «Che cosa c'è di male?»
«Non vede mai nessuno nei paraggi», mi fa presente.
Mi alzo per sparecchiare e scatta velocemente in piedi per fermare il mio gesto.
Non osa toccarmi, forse ricordando la reazione avuta poche ore fa quando la sua mano ha bloccato il mio tentativo di toccargli il viso.
«Non devi», prende il piatto posandolo dentro il lavandino.
Non resisto e alzando il mento apro il getto dell'acqua cercando una spugna e il sapone per i piatti. «Ho mangiato anch'io. Dove tieni...»
Appoggiato al ripiano a poca distanza mi indica l'angolo in basso.
Lavo i piatti e le tazze riscaldando le dita sempre fredde, un po' segnate dai lavori come cameriera e lavapiatti. Sono affusolate con qualche vecchia cicatrice. Le unghie smaltate da un color vino scuro.
Sento il suo odore vicino, una commistione di dopobarba delicato, colonia e ammorbidente. Mi volto lievemente e il suo viso è così vicino da sfiorare il mio. Mi si rizza la pelle. Mi sento proprio come se mi stesse superando un animale pericoloso ignorandomi.
Prende uno strofinaccio pulito dal cassetto asciugando le posate. «Non era tuo compito», non nasconde il suo malcontento.
Alzo le spalle. «Non mi sembra giusto che io abbia mangiato e qualcun altro debba lavare quello che ho usato. A Nan serve una pausa ogni tanto. Sapevi che ha un master che potrebbe usare per creare il suo business?»
Piega la testa di lato studiandomi.
«Che c'è?»
«Dove hai lavorato esattamente?» mi guarda facendo su e giù lentamente. Sento i suoi occhi scivolarmi addosso come seta, ed è come se una folata di vento mi attraversasse il corpo.
«È importante? Stai riempendo un modulo con le mie referenze di nascosto?»
Alza il labbro. «Sono solo curioso. Sei sempre così fastidiosamente prevenuta?»
«Solo quando mi sento messa alle strette», rispondo senza attendere o pensare.
«Non batti ciglio, mangi anche quello che non ti piace e...»
«Ho iniziato a quindici anni, quando sono morti i miei genitori a distanza di tre mesi circa. Hanno avuto un incidente. Erano insieme al marito di zia Marin anche lui morto sul colpo come mia madre. Facevo la cameriera in un hotel poi sono passata in un locale come lavapiatti perché un ricco uomo d'affari credeva di essere in diritto di toccarmi. Nel frattempo ho studiato e non da casa. Poi zia Marin tre anni fa circa si è ammalata e ho iniziato ad esibirmi al locale di Dan. Si, ballavo su un cubo o intorno ad un palo.
Nel frattempo facevo e faccio ancora la fotografa, la designer nel tempo libero e lavoro per qualche nuova mostra.
Pochi giorni fa ho perso il lavoro perché Patrick, il secondo proprietario del locale, non mi ha dato la paga che mi spettava e io ho reagito male. Abbiamo avuto una discussione accesa, lui ha alzato le mani e mi ha licenziata. Così, presa dalla disperazione ho messo l'annuncio perché lui non mi permetterà più di lavorare nei locali e perché ho solo questo da offrire: la mia verginità. E credimi, mi imbarazza e mi fa sentire uno schifo doverlo fare per aiutare l'unica persona che mi resta e per salvarmi il culo. Altro che vuoi sapere o aggiungere al mio curriculum?»
«No», si allontana.
Mi sento a disagio nella mia stessa pelle e guardandomi, senza dire niente mi avvio alla porta più che mortificata.
Ancora una volta ho lasciato andare le parole come un fiume in piena. Non sono riuscita a trattenermi.
Sento dei passi svelti alle mie spalle. Infilo il cappotto avvolgendomi la sciarpa intorno al collo, decisa ad uscire da questo posto.
«Dove vai?»
«Tolgo il disturbo. Ti ho fatto perdere abbastanza tempo.»
Sistemo la tracolla. «Grazie per... la colazione e la dormita. Buona giornata.»
Chiude la porta quando tento di spalancarla. Sobbalzo. «Pensi di avermi destabilizzato e ti sbagli.»
«Ma ho visto il disgusto sul tuo viso. Mi è bastato e non preoccuparti. Ne provo anch'io tanto, ogni giorno, per me stessa.»
«Cosa?» Mi guarda come se gli avessi appena mollato uno schiaffo. «No, provo disgusto per quello che hai dovuto passare. Non oso neanche immaginare...» si ferma. «Andiamo», aprendo la porta mi fa cenno di seguirlo.
«Devo andare a casa, cambiarmi e poi...»
«Ti porterò a casa ma poi verrai con me».
Tengo per me i cattivi pensieri nonché i commenti acidi. Odio quando devono decidere per me. Glielo faccio presente. «Andrò a casa ma non verrò con te chissà dove solo perché ti senti in dovere di proteggermi. Me la cavo benissimo da sola.»
Passa la mano sul viso non coperto dalla maschera. Sembra improvvisamente esasperato. Sospira pesantemente. «Non ne dubito», risponde stringendo i denti. «E nessuno ti vedrà camminare con un mostro», replica acido avviandosi all'ascensore.
«Non è per questo. Non mi importa del pensiero della gente. Non voglio che qualcuno decida per me. Tutto qua.»
«Ok, dimenticavo questo dettaglio di te. Ti va di uscire? Così va meglio?»
Alzo gli occhi al cielo. «Si, così va meglio», replico con finto sarcasmo.
Entro in ascensore. Travis mi segue, preme il tasto rotondo sulla tastiera con il numero 0, scegliendo il sotterraneo.
Dentro l'abitacolo si respira aria tesa. Qualcosa da quando ci siamo visti sta cambiando.
Quando le porte si aprono, si avvia verso l'auto dove si trova Mitch già in attesa. Io, torno a respirare stringendomi nel cappotto.
«Signore», lo saluta con riverenza quasi sgranando gli occhi. «Non devo avere sentito la sua chiamata. Va tutto bene?»
Vedendomi ha la stessa reazione della moglie. «Signorina», alza il cappello.
«Signor Lester», mi inchino lievemente e Travis per poco non scoppia a ridere. Mantiene però il controllo. «Per oggi tu e Nan siete liberi. Dille di lasciare tutto così com'è. Non serve che ogni cosa continui a splendere», ordina.
Mitch per poco non ha un infarto. «Non ha bisogno di me?»
Scrolla la testa. «Si diverta», dandogli una pacca affettuosa sulla spalla apre la portiera dell'auto.
Attende una mia mossa mentre salgo senza dire la mia.
Mettendosi al volante indossa un cappello da baseball prendendolo dal cruscotto e girando la chiave nel quadro avvia il motore dell'auto.
«Non mi dici dove mi porti?»
«No. E prima che tu dica che odi le sorprese, non mi importa.»
Nascondo sotto la sciarpa il mio sorriso. In qualche modo, pur non conoscendomi, riesce a stuzzicare la mia attenzione. Ma, allo stesso tempo, questa sua capacità di attrarmi come una falena impazzita a causa della luce, mi spaventa.
Bisogna fare attenzione alle persone che ti fanno stare bene con poco. Perché sono quelle che possono distruggerti con un niente.

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