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Ci sono addii che scattano nella mente quando arrivi a quel punto di non ritorno, quando sai che non c'è più niente da fare, da dire, da salvare, quando raggiungi quel limite e non puoi più sopportare niente di quello che hai sempre sostenuto con tutte le tue forze, con tutto quel peso sulle spalle. Perché hai lottato e sperato in silenzio ma alla fine hai capito che tutto questo non è servito a niente. Alla fine nonostante tutto, ti ritrovi lo stesso da solo. E non è neanche bello prendere consapevolezza di avere perso ogni cosa, soprattutto l'amore in cui credevi. Di venirne a conoscenza nel bel mezzo di una strada, in mezzo al traffico o durante una conversazione.
Perché improvvisamente ti senti derubato di ogni cosa. Arriva come un pugno dritto allo stomaco e ti senti svuotato.
Ma l'importante in tutto questo è che anche se hai perso una persona, non hai perso quello che hai provato. Non hai perso alcun ricordo che ti ha legato indissolubilmente ad essa. E puoi prendere a calci il mondo, a pugni il muro ma ciò non ti ridarà niente indietro. Solo lividi e cicatrici che si rimargineranno ma che saranno in grado di fare male comunque.
Perché devi imparare a cogliere l'attimo. Devi imparare a prendere il meglio quando ti viene offerto, non più quando tutto svanisce e a te rimangono solo lacrime e tristezza da versare fino a riempirci un lago, un oceano.
Bisogna urlarselo addosso quando ci si ama. Bisogna abbracciarsi forte fino ad aprire lo sterno e a stendersi sul cuore quando ci si vuole eternamente bene. Bisogna baciarsi, farlo senza paura fino a non avere più fiato in corpo. Mordersi, lasciarsi dei segni, dei tatuaggi come simbolo di passaggio sulla pelle. Bisogna toccarsi, afferrarsi e trascinarsi lontano. Bisogna ubriacarsi di vita, di sensazioni, di emozioni. Bisogna ridere e gioire. Bisogna piangere e disperarsi. Bisogna farlo finché si è vivi, finché si è in forze. Perché alla fine i sentimenti fanno proprio questo: ti aiutano a crescere. Ti insegnano ad essere forte. Ma non ti insegnano a sapere gestire il dolore quando arriva come una valanga. Quando ti travolge all'improvviso e ti ritrovi piegato in due, senza fiato. E non è lontanamente paragonabile alla rottura di un osso o al bruciore causato in seguito ad una caduta. È un qualcosa che senti, che si diffonde dentro come un virus diramandosi ovunque. Il dolore prende forma, prende vita dentro di te spingendoti allo stremo.
«Signorina Stevens, ha capito quello che le ho detto? Si sente bene?»
Batto un paio di volte e freneticamente le palpebre mettendo a fuoco la figura del medico che ho davanti: un eccentrico vecchietto spigoloso, parecchio alto quanto un giocatore di basket e attento. La voce pacata. I gesti lenti. Odora di disinfettante ai fiori. Le sue mani sono incrociate sulla cartella aperta posta sulla scrivania piena di fogli di carta impilati l'uno sull'altro, cartelle, un computer, una tastiera, un mouse, una lampada curva. Picchietta la penna stilografica sulla pagina.
Mi ricompongo. «Si, sto bene. Quanto tempo le resta?» stringo le dita sulla borsetta di pelle marrone che oggi indosso su un cappotto verde pino.
Valuta attentamente la mia reazione poco prima di controllare i referti medici. Sfoglia ogni pagina poi chiude la cartella clinica tornando serio. È grave, mi dico preparandomi. Prendo un respiro mentre i miei battiti aumentano creando una colonna sonora inquietante.
«Circa tre mesi. Giorno più, giorno meno. Non è possibile stabilirlo con esattezza e non sono da sottovalutare le crisi o qualche complicazione. Inoltre potrebbe anche superare i quattro mesi. Ha capito quello che intendo?»
Gliene do conferma con un cenno della testa. Attualmente mi sento troppo stordita per riuscire a parlare senza correre il rischio di balbettare. È come se mi avessero appena dato un pugno allo stomaco, un colpo alla nuca e una botta abbastanza forte alla testa. Prendo coraggio alzandomi. Traballo visibilmente. Sorrido seppur tristemente all'uomo che oggi ho davanti. «La ringrazio», dico avviandomi alla porta.
Uscita dall'ufficio, mi dirigo con un grosso peso nel petto e un nodo alla gola, verso la stanza di zia Marin. Non busso. La porta è aperta e all'interno trovo Mirko, l'infermiere che ormai l'accudisce prendendosi cura di lei, accontentando ogni suo capriccio, accettando ogni suo dispetto. Quel poveretto meriterebbe un premio per la pazienza e per la voglia di continuare.
Vedendomi arrivare, zia Marin scaccia le sue mani delicate che le stanno rimboccando la coperta e sistemando il cuscino. Non riesce più ad alzarsi a metà busto e per non farla demoralizzare le hanno sostituito il letto con uno dell'ospedale. Preme infatti il pulsante ritrovandosi in breve comodamente seduta. Mi sorride ma non parte dal cuore. È una smorfia che cela dentro la sofferenza. «Puoi lasciarci sole», dice a Mirko che mi saluta con un cenno uscendo dalla stanza.
Mi siedo sul bordo, nel piccolo spazio che resta ma sufficiente per la mia piccola mole. «Buon anno», le dico accarezzandole la testa prima di toglierle la bandana. I suoi capelli sono bianchissimi seppur corti. Li tocca con una smorfia di disgusto. «Buon anno, ma che ci fai anche oggi qui? Non hai una festa? Non vai a ballare?»
Annuisco. Continuo solo a mentirle. In realtà sto passando ogni giorno da sola. Lentamente mi sto spegnendo anch'io e ben presto di me rimarrà solo un guscio vuoto. Mi sto comportando da ragazzina fragile, me ne rendo conto. Ma tutti questi anni passati a lottare mi hanno letteralmente sfinita. Ho talmente tanta di quella tristezza dentro da non avere più spazio per altro. Non c'è un posto libero perché è tutto occupato dal dolore.
«Si, questa sera la mia amica ha deciso di invitarci nel suo appartamento per una cena», alimento le sue fantasie.
«E ieri sera che hai fatto?»
«Sono andata a ballare. C'era un mucchio di gente in quel locale. Abbiamo brindato e poi siamo tornati a casa sul tardi. Tu che cosa hai fatto?»
Zia Marin chi chiede di passarle la mascherina per l'ossigeno e l'aiuto ad indossarla. «Come vedi...» inspira. «Sono ad un piede dalla fossa. Non mi permettono di fare niente perché ogni movimento potrebbe essermi fatale. Devi smettere...» espira ed inspira di nuovo usando un tono marcato e duro per farmi capire il concetto. «Di stare qui dentro ad aspettare. Quando arriverà il mio momento sarai la prima a saperlo in ogni caso, visto che ho solo te come parente più stretto», dice togliendosi la mascherina. Tira indietro la testa e ad occhi chiusi rimane forse a combattere il dolore.
Passano nel frattempo cinque secondi. Mordo il labbro stringendole la mano. «Lo so ma volevo vederti per farti gli auguri», rispondo piano. «Volevo che per un giorno sembrasse tutto normale», mi incupisco. «Ma sono solo una stupita. Niente è più normale per noi.»
«Che cosa ti ha detto il medico?»
«Vuoi avere la conferma di qualcosa che sai già?»
Sorride. Questa volta lo fa con intenzione. «Ti stavo solo mettendo alla prova», mi prende in giro priva di sarcasmo.
Faccio una smorfia tenendo a freno le battute e le risposte piccate che potrebbero uscirmi di bocca senza controllo. «No, stavi solo cercando di mettermi alla prova. Per quale ragione?»
I suoi occhi ormai opachi mi scrutano. Strizza la palpebra la quale le pulsa. «Da quanto non dormi o non mangi come si deve? Hai l'aspetto di una tossica, lasciatelo dire.»
«Non riprendiamo questo discorso zia. Ti ho già detto che va tutto bene. Sono reduce da una nottata a base alcolica visto che ieri era il trentuno. Mi devo ancora riprendere. Te l'ho detto quello che ho fatto», in realtà ho passato il capodanno ad ammirare tutto dalla finestra. I fuochi d'artificio, la gente per strada, quella sui tetti. Le urla, le risate. Poi c'ero io dietro il vetro: a piangere e a stare male. Ma la colpa è solo mia. Perché continuo a rileggere quei messaggi che Travis non ha intenzione di smettere di mandarmi. Ho proprio iniziato bene l'anno nuovo.
«Non hai conosciuto nessuno? Baciato uno sconosciuto?»
La guardo male e lei ride. Poi, torna immediatamente seria. Come se un pensiero negativo le attraversasse il viso rendendola improvvisamente guardinga. Che succede?
Forse intuisce il mio dubbio riguardo la sua reazione perché si affretta a darmi una spiegazione. «Tra poco arriverà Dan», mi avvisa.
Sento come una fitta. È una sferzata fredda al cuore. «Davvero? Vi siete messi d'accordo per vedervi?»
Nega. «No, no. Vuole venire a salutarmi, a farmi gli auguri. Quindi se non vuoi trovarlo tra i piedi, visto che ancora non vi parlate, ti consiglio di andare via», spiega.
Mi agito dentro. Che cosa ha Dan in mente esattamente? Perché usare proprio lei in un momento simile?
«Ti ha chiesto di me?» passo alle domande.
Conferma con un cenno della testa. «Continuamente. Non ti manca neanche un po'? Tu a lui manchi tanto. Si sta ripulendo e fidati, questa volta per davvero. Sembra essergli servito tutto quello che è accaduto. Adesso appare riposato ed è tornato il ragazzo sereno che conosciamo.»
«Sempre a mie spese! Sembra facile come motivo da usare per riprendere in mano la propria vita, non credi? Ascolta, non sono pronta a vedere nessuno. Sto bene così. Mi sto riprendendo da una brutta delusione, da un brutto momento e con ogni probabilità dovrò prepararmi anche alla tua morte...» non appena pronuncio queste parole, sento un vuoto sotto le scarpe. Questo si ingigantisce come un buco nero quando dalla porta entra proprio Dan.
Ha un aspetto sano. Sembra quasi il solito ragazzo che ho visto in questi anni. Ma, forse anch'io ero appannata dall'affetto che ho sempre nutrito nei suoi confronti. Affetto che, a quanto pare mi è costato caro.
Dan, cappotto marrone addosso che tiene stretti i suoi lineamenti, berretto nero con i ciuffi di capelli chiari sulla fronte, gli occhi grandi e dolci, si ferma sulla soglia come un opossum, cercando di capire se entrare o lasciarci ancora un po' da sole.
Ad alleviare ogni suo dubbio ci pensa zia Marin. «Dan, che piacere vederti ad un piede dalla fossa. Sei un toccasana per i miei occhi sempre più stanchi. Ma che ci fai lì impalato? Entra pure!»
«Se è un brutto momento torno dopo. Posso aspettare fuori», dice continuando a guardare me.
Sento proprio i suoi occhi addosso e scendendo dal letto mi preparo ad uscire dalla stanza dove ormai mi sento di troppo. Ultimamente mi succede spesso. Non riesco più a sentirmi a mio agio e tendo ad isolarmi, a starmene per i fatti miei.
«No, affatto. Vieni, fatti abbracciare giovanotto», zia Marin apre le braccia mentre io sollevo la borsa sistemando la tracolla sulla spalla. «Io vado. Passa una buona serata», le auguro avviandomi alla porta.
Dan mi sbarra la strada anziché spostarsi. «Ehi», dice aspettandosi una brusca reazione da parte mia. «Posso... chiederti solo una cosa. Ti rubo un momento, promesso», mi guarda speranzoso ma io distolgo lo sguardo in fretta, non riuscendo a sostenere i suoi occhi.
«Devo andare ma puoi accompagnarmi all'ascensore se proprio lo ritieni necessario», rispondo decidendo di non dare una mortificazione a zia Marin che ci guarda speranzosa. Perché in fondo lo so che il suo sogno non è mai cambiato. Ma il mio?
Dan sembra sollevato e aprendomi la porta mi lascia passare seguendomi verso l'ascensore.
«Allora? Che cosa vuoi?» premo il tasto rotondo che si illumina di rosso, attendendo che salga l'ascensore in questo primo piano della clinica.
Passa il palmo coperto dal guanto sulla nuca. «Che cosa ha detto il medico?» per fortuna non chiede qualcosa riguardo noi. «Pochi mesi, se non succede prima qualcosa ovviamente», rispondo breve attendendo impaziente l'ascensore che oggi sembra metterci più del necessario.
Dan accetta la notizia. Non che sia una grossa novità per lui. Zia Marin prima o poi se ne andrà lasciandomi sola. Abbandonerà anche lui in un certo senso.
«E di noi che mi dici? Saremo mai di nuovo amici?»
Le porte scorrevoli finalmente si aprono e grata entro dentro il quadrato grigio. Lo guardo. «Forse. Quando sarai davvero pulito e senza segreti», rispondo premendo il tasto del pian terreno. Osservo attentamente la sua espressione mutare dal sereno al sorpreso al cupo. Da questo prendo consapevolezza del fatto che mi sta ancora tenendo nascosto qualcosa. Una verità che con ogni probabilità mi farà doppiamente male. Così male da troncare completamente il nostro ormai altalenante rapporto di amicizia.
In questo momento mi sento come quando corri per un paio di ore e quando ti fermi senti tutto il corpo prendere fuoco, formicolare. Avverto un peso nel petto sempre più schiacciato e il fiato corto.
Mi piacerebbe stendermi e dormire. Alzarmi poi e non sentire niente. Non provare dolore.
Mi avvio all'uscita e, anziché tornare a casa, mi dirigo alla villa. So di non trovare nessuno lì dentro oggi, visto che è il primo di gennaio ma avverto proprio un bisogno di distacco, di allontanarmi dalla zona per ritrovarmi altrove. Inoltre, devo proprio vedere come stanno andando gli ultimi ritocchi fatti alla villa che, giorno dopo giorno, finalmente sembra avere preso le sembianze di una casa e non più di un bruttissimo rudere pieno di ragnatele e polvere.
Arrivo dopo circa mezz'ora. È ora di pranzo e nel lotto a fianco qualcuno ha appena iniziato i festeggiamenti organizzando una grigliata sotto la tettoia per ripararsi dalla neve accumulata in questi giorni praticamente ovunque, dal freddo che rende l'aria parecchio frizzante, in grado di pizzicare i polmoni.
Alzo il viso. Il cielo non minaccia altre bufere improvvise. Sembra sereno ma niente riuscirà a fermare un'altra ondata di neve e gelo nelle prossime ore. L'inverno da queste parti è sempre così.
Uso la chiave per aprire il lucchetto che tiene chiuso il cancello, entrando direttamente dall'enorme portone principale. Non appena metto piede dentro, sento tutto sotto controllo. È come se ogni cosa andasse al suo posto, nel giusto ordine.
Tolgo gli stivali per non sporcare il pavimento. Parto dal piano superiore controllando ogni stanza già arredata nonché pronta per essere vissuta. Scatto qualche foto della camera da letto, della sala cinema, del bagno, della palestra per avere un ricordo. Mi giro intorno alla cucina che, finalmente è come l'ho disegnata e immaginata sin dal principio così come il soggiorno, anche se manca ancora la porta zanzariera, quella che conduce in giardino dove abbiamo già avviato i lavori per la costruzione della piscina e per un piccolo orto dotato di salotto esterno in vimini e lampioni bassi ad illuminare il tutto in caso di una festa notturna.
Passando dall'entrata, mi soffermo sullo studio, molto simile a quello di Travis. In parte per arredarlo ho preso ispirazione proprio dal suo. Sfioro la scrivania in mogano. Mi siedo sulla poltrona girevole e aprendo il primo cassetto pesco un post-it. Lo rigiro tra le dita guardando la libreria e i cassettoni attualmente vuoti. Uso poi la penna stilografica per creare una semplice faccina sorridente che appendo dentro il cassetto.
Mi alzo quando sento un rumore all'esterno e allarmata, mi affretto ad uscire dalla villa come una ladra. Prima però, decido di controllare che non ci sia nessuno in giardino.
Con il cuore colmo di ansia e paura, avanzo lentamente e furtivamente verso il roseto. Qui non trovo Travis bensì Nan, la quale quando si accorge della mia presenza, urla spaventata facendo volare qualche pettirosso e uccellino nascosto in mezzo agli alberi vicini.
Le forbici le cadono di mano così come lo spray usato insieme alle due rose appena recise che perdono dei petali.
«Bambi», esclama con voce stridula. «Mi hai spaventata», ammette guardinga.
«Scusa, stavo solo controllando che non ci fosse nessuno. Non ho visto l'auto e mi sono allarmata», spiego standomene impalata e allo stesso tempo in allerta.
Da quanto tempo è qui?
Nan toglie i guanti raccogliendo le rose e anche i petali. «Che ci fai qui?»
«Potrei chiederti la stessa cosa ma so già che non risponderesti dandomi una spiegazione», dico mentre si avvicina.
«Sono solo venuta a prendere queste», risponde indicando le rose. «Il signore mi ha dato il permesso di averne un paio», dice stringendosi nelle spalle. «Ma sono così belle che ho solo preso queste quasi sfiorite perché non mi andava di recidere quelle perfette e nel pieno della loro vita.»
«Lavori anche oggi?»
La sua testa oscilla da una parte all'altra. «Doveva occuparsene lui ma ha permesso a me di dare un'occhiata al suo roseto che, a quanto pare sta bene. Queste mi servono per il bouquet usato come centro tavola. Questa sera io e Mitch finalmente festeggiamo i vent'anni di matrimonio», dice con un grazioso sorriso. «A proposito, grazie per il regalo. È stato davvero gentile da parte tua.»
«Ancora auguri», rispondo avviandomi al cancello. Nan mi segue osservandomi di sottecchi mentre chiudo il lucchetto e, stringendomi sotto il cappotto mi avvio verso la metropolitana.
«E tu? Perché non sei a festeggiare?»
Mi fermo. «Sono sola e non ho niente da festeggiare visto che oggi ho saputo che mia zia tra qualche mese morirà», parlarne ad alta voce mi spaventa perché lo rende reale. Infatti mi rattristo. Il labbro prende persino a tremare.
Nan apre e richiude la bocca riflettendo un momento di troppo su quello che vuole dire. «Come stai?»
«Credo sia evidente. Ma sono viva e me la cavo, come sempre», abbozzo un sorriso che in realtà è solo una smorfia usata per nascondere la tristezza e facendo un altro passo indietro, pronta a girare sui tacchi e a sparire da qui.
Nan fa una smorfia. Non commenta. Si rianima solo quando vede arrivare Mitch mentre io mi irrigidisco sperando di non trovarmi davanti proprio lui.
Prima di entrare, lei si ferma a metà, con un piede dentro l'auto sul tappetino e il palmo sullo sportello. «Si sente parecchio la tua assenza in casa. Buon anno Bi.»
«Grazie, Buon anno anche a te», dico colpita dalle sue parole.
Scendo in metropolitana aspettando il treno che mi condurrà nel mio nuovo ambiente privo di vitalità e senso del gusto. Chiunque preferirebbe un appartamento come quello di Emerson ad uno in affitto che rischia di crollarti addosso da un momento all'altro. Ma io continuo a vivere sul filo del rasoio e, attualmente non posso permettermi un affitto esagerato. Ho due lavori di cui uno ormai quasi del tutto al termine del contratto ma non mi faranno di certo sbancare il lunario. Sono lavori momentanei che mi servono come alternativa. Emerson vorrebbe tanto offrirmi il suo appartamento anche se è un po' arrabbiata per il fatto che l'ultima volta gli ho lasciato una busta con i soldi. Eppure io non voglio continuare a sentirmi ospite. Voglio la mia casa, i miei spazi. Voglio stringere la chiave tra le dita e sorridere mentre penso 'sto per tornare a casa'.
Sospiro salendo sul primo vagone libero che riesco a trovare. Nonostante sia capodanno, qualcuno che lavora c'è sempre. Forse chi è come me. Anche se ci sono persone bisognose che non si lamentano, che non aprono mai bocca, che vivono in silenzio il loro dolore.
Infilo le cuffie alle orecchie ascoltando un po' di musica. Sono giunta a metà strada quando la voce della cantante si abbassa di colpo. Credo di avere la batteria del telefono scarica e invece quando controllo c'è una sua chiamata in arrivo.
Aspetto uno, due, tre secondi. Attendo impaziente che stacchi ma non lo fa. Il telefono continua a squillare, ad indicarmi il suo numero. Che cosa vuole? Perché farmi ancora questo? Perché cercarmi? Nan gli ha riferito qualcosa ed è arrabbiato perché ho varcato la soglia del suo giardino segreto?
Tutto ciò che so è che la mia pelle ha appena preso fuoco. Molte sono le domande che mi frullano per la testa.
In fondo non mi importa della felicità, quella effimera, di cui parlano tutti. Io ero felice quando l'avevo vicino e potevo ammirare i suoi occhi, sentire il suono della sua voce e di conseguenza il rumore dei miei battiti. Mi bastava.
Se fosse qui adesso non penso che riuscirei a frenare l'istinto. Probabilmente lo abbraccerei con tutta la forza di cui dispongo fino a spezzarmi le ossa nell'impeto di ciò che sento e che sono costretta, a causa dell'orgoglio, a tenere per me.
E io lo so che sarà difficile lasciarlo andare perché c'è un legame impossibile da descrivere. Non è un legame solo fatto di sguardi, di parole, di momenti. È fatto di sensazioni che si sentono forti sotto pelle, di emozioni che travolgono il cuore.
Aspetto ancora fino a quando la musica non aumenta. Quando finalmente succede, rilasso le spalle arrivando a destinazione. Esco fuori dalla metropolitana venendo investita dall'aria fredda. C'è anche un po' di vento che spazza da una parte all'altra quei fiocchi di neve non aderiti bene al suolo.
Mi stringo sotto il cappotto soffiando sul colletto per scaldarmi e corro dentro il palazzo infreddolita. Uso le scale anche se hanno aggiustato l'ascensore ma ho paura di rimanerci dentro come quella vicina che si è messa ad urlare come una pazza svegliandoci tutti. Perché qui le pareti sono sottili.
Mi blocco impallidendo. Davanti alla porta trovo Emerson. Vedendomi arrivare si volta con disinvoltura ma non con quella di sempre e mi sorride in maniera triste. Non sono agitata di vederla, mi preoccupa il fatto che sia venuta in questa bettola e che si disgusterà non appena aprirò la porta. Di sicuro esclamerà qualcosa anche se dalla sua visita di emergenza ed improvvisa come d'accordo, credo proprio che sia successo qualcosa.
«Ehi», saluta aprendo le braccia. Indossa un tubino rosa cipria sotto il cappotto nero e cosa più assurda sono le scarpe: pantofole bianche a forma di cane di peluche. «Buon anno!» mi stringe subito a sé.
Le strofino la schiena intuendo la ragione della sua visita. «Buon anno», replico aprendo la porta, lasciandola passare.
Avanza in punta di piedi ma senza disgusto, questo con mia enorme sorpresa. Guarda però tutto assimilando ogni particolare. «L'hai sistemata meglio di com'era, vero?» non nasconde la curiosità andandosi subito a sedere dopo la breve entrata, sul divano.
«Ho fatto del mio meglio», dico togliendo il cappotto e sedendomi accanto a lei. «Che cosa è successo? Sei a chilometri di distanza dal tuo appartamento. Non mentire e va dritta al punto», la esorto.
Emerson si agita poi stringendosi sotto il cappotto, mi guarda. «Ho litigato con Brian», scoppia in singhiozzi come una bambina.
Mi fa paura. Non credo di averla mai vista così triste e così a terra prima di adesso. L'abbraccio forte. «Per quale ragione ci hai litigato il giorno di capodanno?»
Tira su con il naso ricomponendosi. Ad un certo punto esce persino uno specchietto dalla tasca per asciugarsi le lacrime e ritoccarsi quelle sfumature del trucco deturpate dal pianto. Adesso è più se stessa ma comunque si nota la tristezza. Emerson è la donna più forte che io abbia conosciuto in questi mesi. Ma è anche la migliore quando si tratta di amicizia. Con le altre non credo di avere lo stesso rapporto, anche se gli voglio bene lo stesso perché non dimenticherò mai quello che hanno fatto per me sin dall'inizio. Ho un grosso debito con queste ragazze, me ne rendo conto quando mi guardo dentro.
«Non lo so. Era tutto perfetto poi abbiamo iniziato a bere e quando i nostri genitori ci hanno posto delle domande è scoppiato il putiferio.»
«Fammi un esempio»
«Volete avere dei figli? Io ho detto no lui ha risposto di sì. Poi mi ha chiesto come mai? Davanti a loro, capisci? Ed è iniziata una discussione che si è subito spostata in camera dove abbiamo litigato su ogni cosa che credevamo di avere in comune ma che a quanto pare non abbiamo per potere stare insieme», abbassa il viso singhiozzando e si stende mettendo la testa sulle mie ginocchia.
«Ma non avete detto la tipica frase 'ti mollo' ecc., vero?»
Nega e mi rilasso. «Allora possiamo risolvere le cose. Insomma alla morte non vi è rimedio ma a queste cose possiamo sempre rimediare con i gesti, con le dimostrazioni», replico accarezzandole la guancia. «Davvero non vuoi avere figli?» le domando facendo partire una chiamata per Brian che, dovrà ascoltarci all'insaputa della mia amica. Solo così potranno smettere di prevalere l'uno sull'altra. Perché in fondo è questo il problema tra di loro, sono troppo simili.
«Non è che non voglio avere figli... io... ho paura», singhiozza. «Insomma, gestisco un sito dove le donne fanno video di un certo tipo e il pensiero che mio figlio possa anche solo essere preso in giro per questo mi destabilizza», tira su con il naso un paio di volte e le passo la scatola di fazzoletti.
Rido. «Ma non puoi prevederlo. Quante possibilità ci sono che non sia così? È un bambino non una macchina per fare soldi o un mezzo per tenere legate due persone. È il frutto dell'amore di due che vorrebbero urlassi costantemente addosso di tenerci ma che...»
Emerson mi interrompe con i suoi singhiozzi così forti da spaventarmi. «Mi dispiace. Sono sciocchezze, me ne rendo conto. Dovrei comportarmi da adulta ma ho litigato come una ragazzina impaurita dalla prospettiva del futuro. Me ne vergogno. Io amo Brian e farei più di un figlio con lui, anche perché a letto lui è... focoso e davvero, davvero bravo..»
Riaggancio la chiamata ghignando. Brian dovrà ascoltare direttamente con le sue orecchie e parlando con lei a quattr'occhi, non dietro uno schermo. Con questo credo di avere richiamato e attirato abbastanza la sua attenzione.
«Poi per cosa avete discusso?»
«Lui non vuole vivere davvero qui a New York. Vuole tornare nel suo piccolo paese. Ma non posso lasciare il lavoro e...» sospira passano la mano tra i capelli. «Per fare questa conversazione ho bisogno di bere. Prendimi qualcosa di forte», ordina.
Le offro una bottiglia di vodka. Tracanna direttamente dal collo dopo averla stappata con urgenza. «Dicevo che su questo possiamo anche accordarci ma io non ho niente a parte lui lì. Mentre lui qui ha tutto. Non so che cosa fare, che cosa...» ringhia bevendo come acqua la vodka.
Provo a fermarla ma scaccia il mio tentativo. «Lasciami fare. Ho bisogno di zittire ogni singolo pensiero o paranoia», inarca un sopracciglio. «Forse anche tu dovresti.»
Rifiuto. «Hai davvero bisogno di bere così tanto per affrontare il fatto che ami davvero un uomo?»
Drizza la schiena alzando il viso. «È proprio questo il problema», ammette. «Si, io ho paura di amare tanto Brian.»
«E perché mai? Ti ama tanto altrimenti non ti avrebbe mai dato una seconda possibilità», affronto l'argomento che la ferisce di più. Infatti si irrigidisce. «Hai ragione», sospira piagnucolando. Le metto davanti una ciotola di patatine e una scatola di cioccolatini. «Non finirli tutti», le dico minacciosa.
Mostra i denti facendo la finta ingenua. Vedendomi un po' distratta decide di mettere il dito nella piaga. «Perché sembri sul punto di dovere scappare?»
Prendo un lungo respiro. «Non ne ho idea. Ho solo uno strano presentimento», dico controllando il telefono. Trovo parecchie chiamate perse, tutte da parte di una persona che continua a starmi addosso. Non mi dispiace il fatto che lui voglia in qualche modo rappacificarsi con me, ma non credo di essere ancora pronta. Ho troppe cose da sistemare attualmente e sono sicura che rivederlo mi farebbe solo perdere la testa e la concentrazione.
«Per questo hai già controllato tre volte il telefono che continua a vibrare?» Chiede attenta posando la bottiglia vuota sul tavolo basso. «È lui?»
«Si, oggi sono andata alla villa e ho incontrato Nan. Lui non c'era ma subito dopo ha iniziato a chiamare. Non credo sia per il fatto che io abbia controllato nel suo giardino ma avevo sentito un rumore e non potevo lasciar correre...»
Emerson stringe la presa sulle mie braccia facendomi sedere accanto a lei. «Respira, Bi!»
Inspiro ed espiro davanti a lei che annuendo fa lo stesso. «Ti starà chiamando perché gli manchi e perché ha saputo che eri sola il giorno di capodanno. Magari ci crederà tua zia alle fandonie che le hai inventato ma lui non credo», caccia in bocca un cioccolatino. «Uhm...» spalanca gli occhi poi sorride leccandosi le labbra. «Adesso capisco perché devo mangiarli con parsimonia», aggiunge togliendo l'alone di cioccolato agli angoli della bocca.
Credi che a me piaccia stare da sola? Purtroppo sono fatta male. Sono nata con un danno di fabbrica, non riesco più ad avvicinarmi a nessuno. Adesso, più di ogni altro momento, è come se mi mancasse una porzione importante dell'anima. Mi sento come un pezzo di puzzle ma incapace di incastrarmi a qualcuno per paura di soffrire ancora, di formare un quadro bellissimo. Perché ancora una volta tutto è piombato giù di colpo e io sono rimasta a pezzi, tra le macerie. Ho perso tutto. Perderò ancora tanto. E di me non resterà più niente.
Non so neanche dove troverò la forza e se la troverò per rimanere in piedi senza mai appoggiarmi a nessuno. Perché tra qualche mese o minuto succederà di nuovo qualcosa di insopportabile e non resisterò. Non ce la farò. E mi farò ancora male. Mi sparpaglierò come polvere.
Penso e nel tentativo di frenare l'istinto, caccio anch'io in bocca un cioccolatino. «Anche lui mi manca ma non posso vederlo e perdermi. Devo affrontare una cosa alla volta. È già tutto così maledettamente difficile», parlo corrucciata passando i palmi tra i capelli.
Emerson scruta nei miei occhi. «Hai bisogno di rilassarti. Vai a fare una doccia. Io me ne starò qui e farò la brava. Promesso», recupera il suo telefono guardando i video nuovi delle nostre amiche.
Mentre mi allontano verso il bagno, la sento ridere a crepapelle. «Beverly ha colpito ancora!» mi fa presente.
Sorrido. «Niente spoiler! Lo guarderò dopo», entro in bagno lasciando la porta socchiusa qualora le bisognasse il water per vomitare.
Mi spoglio entrando nella vasca. Aggiusto il soffione, tiro la tendina e mi godo davvero la doccia accompagnata dalle risate di Emerson provenienti dalla stanza accanto.
Avvolta da un asciugamano, esco a controllare e la trovo comodamente addormentata sul divano. L'alcol deve averle dato alla testa. Spengo la luce posta sul piccolo mobile, chiudo la finestra per non farle sentire freddo e poi mi avvio in camera dove cerco qualche indumento pulito per cambiarmi. Mi toccherà andare in lavanderia, rifletto notando la cesta piena. Alcuni indumenti sono riuscita a lavarli a mano, ma non è la stessa cosa.
Sto asciugando i capelli quando sento bussare alla porta. Mi aspetto di vedere Brian, per cui vado ad aprire senza il timore di svegliare Emerson che potrebbe reagire in svariati modi alla sua presenza. Non la chiamo guardandola solamente con un sorriso pieno di affetto. È proprio fortunata ad avere un uomo che ha accettato il suo errore e ha rischiato lo stesso.
Apro la porta e tutto crolla in un atto.

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