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«Ti ha urlato contro? Sul serio?»
Annuisco bevendo un sorso del cocktail che il cameriere ci ha appena portato insieme ad un vassoio di tartine salate, mentre con Emerson ce ne stiamo sedute al bar. Un piccolo locale vicino a Central Park. Le pareti sono rosa confetto con rifiniture in gesso molto eleganti. Le poltrone in arte barocca. I tavoli rotondi finemente apparecchiati. Mi sento come in una casa delle bambole. Ho paura di muovermi e rovinare qualcosa.
È tutto delicato, sofisticato. Persino l'aria profuma di cose preziose. C'è così tanta dolcezza intorno che mi viene voglia di prendere a morsi tutto. L'odore tipico di questo posto è simile a quello emanato dallo zucchero filato.
«Dovevi vederlo», gesticolo. «Ha iniziato a sbraitarmi addosso, mi ha persino spinta. Ho ancora un grosso livido sull'anca», rispondo facendo una smorfia ripensando al litigio con Dan, che non vedo ormai da circa tre giorni.
Emerson passa dietro la schiena i capelli leggermente cotonati sulla testa, tirati indietro da un cerchietto lucido. Due cerchi argentati pendono dalle sue orecchie. Indossa un vestitino stretto rosa appariscente. Molto effetto Barbie.
«E non lo hai più visto?» assaggia una tartina arricciando un po' il naso, schioccando subito le dita in direzione di un cameriere.
«Si, signorina?»
«Per favore, porta due fette di torta. Per me ai lamponi, per la mia amica al fondente. Questi portali pure via», ordina facendolo eccitare con le sue movenze e il tono di voce di una che potrebbe fare la conduttrice in radio.
«Grazie», aggiungo.
Il poveretto, un ragazzo di vent'anni circa, si allontana in fretta portando dietro il vassoio. Per poco, nella fretta, non si schianta con l'altro ragazzo appena uscito dalla cucina.
Emerson ride. «È sempre molto divertente», aprendo la borsetta preleva lo specchio tamponando il gloss che ha sulle labbra carnose, lasciando l'impronta sul tovagliolo di carta. Prende poi un pennarello scrivendo il nome del sito dove poterla trovare in caso qualcuno fosse interessato.
«Fai sul serio?»
«Ci servono nuovi clienti. Non lo darò a quel ragazzo. Puzza ancora di latte. Questo è per il proprietario», ghigna divertita mettendosi comoda mentre il ragazzo di prima, torna posando sul tavolo le torte.
Emerson lo costringe ad abbassarsi.
Avvicino la torta assaggiandone un pezzo mentre osservo la scena.
Il ragazzo, capelli biondi, pelle pallidissima, diventa rosso come un peperone quando lei gli sussurra di portare il messaggio al suo capo con tanto di mancia infilata dentro la tasca della camicia.
Quando se ne va, di corsa, lei mi guarda. «Che c'è?»
Lecco le labbra mettendo subito in bocca un'altra forchettata di torta. Lei allontana il piatto. «Che cosa intendi fare con il tuo amico?»
Alzo le spalle. «Non lo so. Non si è fatto vedere. Questo significa soltanto due cose», pulisco le labbra.
«Ovvero?»
«Uno: non sa come parlare con me perché non ha il coraggio. Due: non vuole vedermi perché pensa che devo essere io quella ad andare da lui, a chiedere scusa e tutto il resto.»
Emerson assaggia la torta ai lamponi poi anche la mia emettendo un verso di apprezzamento. «E tu che cosa intendi fare?»
«È già successo. Ci siamo allontanati perché frequentava una compagnia non propriamente raccomandabile. Poi si è trovato nei guai e io e Nic lo abbiamo aiutato ad uscirne. Dan è così. È più impulsivo di me quando si tratta di gelosia o delusione. Non ragiona razionalmente e tende a farne un dramma. Anch'io lo faccio ma porto rancore mentre lui... lui ignora.»
Emerson non sembra seguire il mio ragionamento. «Mi stai dicendo che Dan non si fa sentire perché ha superato la cosa e pensa che tu sia ancora arrabbiata con lui?» gesticola con la forchetta.
«Dan sta chiaramente mandando un messaggio: o torni o sei fuori dalla mia vita.»
Emerson riflette sulle mie parole. «Sono sicura che risolverete. Gli amici fanno sempre così, anche a distanza di anni e di fronte a litigi peggiori. Invece... del bel fusto che è entrato di soppiatto nella tua stanza mentre giravi un video, a tal punto da farti eccitare e farci eccitare e tenere con il fiato sospeso quando sei sparita dall'inquadratura lasciando quella sedia vuota, che mi dici?» parla così in fretta da mettermi in difficoltà.
Arrossisco. Bevo un altro sorso del cocktail al cocco con un retrogusto al mango. «È il mio capo ed è... un ragazzo meraviglioso», ammetto con le guance in fiamme e un sorriso tutto denti.
Emerson mi guarda attentamente. Piega la testa di lato sollevando il suo cocktail fragola e panna. «Con lui hai risolto?»
Mordo il labbro. «Direi di si. Non ci vediamo da quel giorno perché è stato impegnato, ma continua a scrivermi e a chiamare quando ha un po' di tempo.»
Deglutisce dopo avere provocato di proposito il rumore con la cannuccia dentro il bicchiere ormai vuoto. «E avete fatto pace?» ammicca.
Rido. «Non in quel senso ma... sta cercando di convincermi che quello che ha detto non è stato per ferirmi ma per difendersi», rigiro la cannuccia dentro il liquido pieno di scaglie bianche.
Emerson prende un altro pezzo della mia fetta di torta e gli avvicino il piatto assaggiando la sua. È troppo dolce ma non è poi così male se assaggiata insieme al pezzo di quella al fondente.
«E riguardo l'asta?»
«Ho bloccato le offerte e il profilo al momento. Ho due lavori e credo di essere sulla giusta strada per arrivare a fine mese e poter pagare quel dannato conto all'ospedale.»
«Ottimo», sorride. Alza poi la mano chiedendo il conto.
Prendo il portafoglio ma blocca il mio gesto. «Invito mio!» dice minacciosa.
Faccio una smorfia. «Mi farai mai pagare per ringraziarti dell'opportunità che mi hai dato?»
Ci pensa sopra. «Forse sì o forse no», alzandosi si reca verso il bancone. Passa la sua carta facendo tintinnare i suoi bracciali pieni di Swarovski. Si volta strizzandomi l'occhio e comprendo il suo scopo.
Uscite dal locale, camminiamo lungo il marciapiede superando una rampa in cui stanno facendo dei lavori deviando il percorso di tutti i pedoni.
Emerson, mette gli occhiali da sole a specchio aggiustandosi il gloss. Il tutto mentre cammina sui trampoli alti che indossa senza apparente difficoltà. «Riguardo tua zia?»
«Mi ha chiamato ma ci siamo scambiate solo qualche parola, niente di più. Sono ancora furiosa ma so di doverla superare. Andrò a trovarla e le spiegherò tutto. Io e lei non abbiamo mai avuto segreti. Ma adesso basta parlare di me, di te che mi dici? Chi è quel tizio che ho visto negli ultimi due video legato nel letto?»
I suoi occhi si illuminano come luci di Natale. «Quel delizioso cioccolatino?» ride. «È maggiorenne, più di me. Lo so, non sembra ma è così. Ed è un vecchio amico tornato in vacanza», continua a sorridere.
«E?»
Sulle sue guance si deposita un lieve velo di colore. «E diciamo che rivederci è stato come la prima volta. In una sola parola: fuochi d'artificio!» Ride mettendosi a braccetto.
«Pensi di dargli una possibilità?»
La vedo cercare il telefono dentro la borsetta. «Parli del diavolo», dice mostrandomi la foto con la chiamata in arrivo di un ragazzo dalla carnagione caffellatte con due occhi verdi pazzeschi. Un po' troppo muscoloso ma un bel ragazzo nel complesso.
Emerson accetta la chiamata. «Ehi», saluta allegramente accantonando per pochi istanti la donna spietata che c'è in lei insieme a quella sensuale. «Si, ci sarò. A dopo», riaggancia in fretta, non perdendo tempo in inutili chiacchiere.
«Fammi indovinare: nel ripostiglio?»
Ride spingendomi. «No, dentro lo spogliatoio della palestra privata di suo padre. Ma sssh! Questo è uno Spoiler!» dice mettendo l'indice sulle labbra.
Rido. «Non vedo l'ora di vedere tutto», esclamo fermandomi quando arriviamo nel punto in cui le nostre strade si dividono.
«Tra qualche ora. Prima ci divertiremo un po'. Sai, la lontananza...» ghigna abbracciandomi. Prima di allontanarsi strilla: «Va da tua zia e poi stai con lui. Ti cambiano gli occhi quando ne parli!»
Saluto con la mano girando sui tacchi. Attraverso le strisce in tempo camminando verso la villa con la testa tra le nuvole.
Mi stringo sotto la sciarpa sistemata sopra il cappotto, godendomi i raggi di un sole meno caldo ma piacevole sulla pelle.
L'aria è fresca, frizzante. Dalle labbra escono ad intermittenza nuvole di condensa pronte a perdersi in questo luogo pieno di suoni, odori, gente.
Il telefono squilla. Non riconoscendo il numero rispondo.
«Bambi Stevens?» una voce maschile.
«Si, sono io. Chi parla?»
«Chiamo dalla clinica. La signora Marin ha lasciato il suo recapito telefonico e siamo autorizzati a chiamare i parenti più stretti quando succede qualcosa.»
Vedo il mondo inclinarsi. «È successo qualcosa a mia zia?»
«Questa notte ha avuto un lieve malore ed è svenuta. Adesso si trova ricoverata nella zona ospedaliera.»
Il mio cuore prende a battere frenetico, a contrarsi dolorosamente. «Può dirmi se adesso sta bene?»
«Le stiamo facendo alcune analisi di routine, ma può vederla quando vuole. È sveglia e vigile. Mi ha chiesto personalmente di avvertirla.»
«Ok, arrivo subito. La ringrazio.»
«Arrivederci.»
Ho bisogno di un momento per riprendermi. Guardo intorno sentendomi del tutto stordita. Mi appoggio ad un muretto per riprendere fiato e, quando mi sento di nuovo in grado di reggermi da sola in piedi, fermo un taxi dando all'autista l'indirizzo della clinica.
I minuti scorrono mentre mi sento in colpa. Perché non c'è cosa peggiore nel non dire quanto si vuole bene ad una persona. Il tempo è prezioso, letale e unico. Non possiamo tornare indietro ma possiamo vivere il presente cercando sempre di non commettere più lo stesso errore. Cercando sempre di dire la verità, di affrontare i problemi, di non prendere altro tempo prezioso.
Io non voglio avere rimpianti o questioni lasciate in sospeso, soprattutto con zia Marin. Lei è tutto quello che resta della mia famiglia. Con o senza litigi, è la persona che ho avuto accanto in questi anni difficili.
Il taxi si ferma davanti il cancello della clinica. Ritornarci mi fa torcere lo stomaco. Pago la corsa al conducente, un uomo tranquillo nel complesso e preparandomi all'impatto, uscendo dal taxi, mi ritrovo con il dito sul citofono e il coraggio sotto le suole delle scarpe.
Prendo un lungo respiro premendo il tasto. Attendo e quando il cancello si apre mi affretto a raggiungere l'entrata.
Supero l'ingresso fermandomi, forse per la prima volta, davanti alla donna dallo chignon stretto. Vista da vicino, è davvero graziosa. I suoi occhi sono colorati da un po' di ombretto verde, una matita nera e del mascara. Sulle labbra un rossetto rosso. «Buongiorno», mi saluta con un sorriso.
«Salve, mia zia è stata ricoverata. Vorrei sapere in quale reparto della clinica e in quale stanza si trova. Si chiama Marin Stevens.»
Cerca subito il nome tra i tanti nello stesso reparto, dopo averlo digitato sul computer in breve mi indica la direzione da prendere.
«Grazie», dico dopo la sua spiegazione, sperando contemporaneamente di non perdermi.
Cammino verso uno stretto corridoio che conduce alla porta della zona ospedaliera. Superata questa di acciaio con un vetro, mi trovo in mezzo ad una sala d'attesa piena zeppa di persone. Il brusio è fastidioso.
Cammino sul pavimento a scacchi superando le fughe senza mai calpestarle, tenendo bene a mente di dovere camminare dritto poi svoltare a sinistra, salire al primo piano ed infine svoltare due corridoi a destra raggiungendo così la stanza in cui hanno portato zia Marin.
Mentre raggiungo il primo piano, inizio ad avere il timore di trovarla emaciata o troppo debole per parlare.
A dispetto di ogni mio cattivo pensiero, per fortuna, quando busso alla porta della stanza e sento la sua voce così cristallina e vivida, rilasso le spalle.
«Avanti!»
Apro la porta avanzando verso l'unico letto presente in questa piccolissima stanza priva di finestre. La luce bianca è accecante. Il ronzio sommesso e la mancanza di spazio, mi fa sentire soffocata.
«Ciao», dico fermandomi ai piedi del letto.
Zia Marin si alza a metà busto nell'immediato. Una flebo attaccata al braccio che, apre insieme all'altro facendomi cenno di avvicinarmi a lei. «Bambi!»
Giro intorno al letto. Impacciata mi lascio abbracciare. «Mi dispiace tanto.»
«Come stai?» decido di sorvolare sull'argomento. Attualmente non voglio peggiorare il suo stato di salute dicendole di avere litigato con Dan ubriaco e di avere messo all'asta la mia verginità per concederle tutto questo lusso nel breve tempo che le rimane, mentre i medici cercano di salvarla. Non posso neanche parlare del ragazzo che mi ha capovolto ogni piano. So come la pensa. Per lei è Dan l'uomo giusto. Ma non sa quello che ha fatto in passato e qualche giorno fa. Non immagina le parole che mi ha rivolto e la pugnalata che mi ha inflitto.
«Ho solo avuto un capogiro. Sto aspettando le analisi per capire quanto sia grave o quanto mi resta da vivere», mi sorride dandomi un buffetto. «Ti trovo bene», guarda il mio abbigliamento. «Dove eri?»
Un cappotto nero, la sciarpa piena di disegni intricati rosso porpora, i pantaloni neri stretti e il maglione morbido porpora. Si sofferma sul mio viso truccato e in ordine. «Colloquio di lavoro?»
«Un aperitivo con una nuova amica nonché il mio capo», dico. In fondo non è una bugia.
Liscia la coperta con le mani piene di piccole rughe e macchioline. Ha tolto l'anello. Questo sì trova sul comodino, accanto al letto. Lo guarda gelosamente. «È com'è questo capo?» chiede interessata indagando.
«Bionda, attraente, stronza... un bel tipo. Sono sicura che ti piacerebbe conoscerla.»
Ascolta e osserva con attenzione. Mi siedo accanto, sulla sedia abbastanza comoda ma in netto contrasto con la stanza e le pareti per il suo colore acceso.
«E ti piace?»
«Ha un ragazzo», le faccio notare con rimprovero. «Comunque mi ha salvato il culo e mi tratta come un'amica a dispetto di molte altre persone che conosco da più tempo.»
Beve un sorso d'acqua. «Non intendevo...»
«No, certo. Come sempre», sussurro mordendomi subito la lingua, stringendo i pugni sulle ginocchia.
«Bi, io voglio solo vederti serena e felice.»
«Non ci crederai ma lo sono. La felicità non mi attrae ma ci sono minuscoli momenti in cui mi sento serena e libera.»
Contrae la mandibola. «E di Dan che mi dici? Ho provato a chiamargli ma mi ha liquidato in breve tempo. Non è da lui. È successo qualcosa?» sonda ancora il campo. Ho notato che la sua espressione è appena cambiata.
Decido di essere sincera. «Si, è piombato in casa di notte parecchio ubriaco. Ha iniziato ad urlarmi contro, mi ha persino spinta a terra e ha letteralmente dato di matto. Devi smetterla di alimentare le sue fantasie perché ecco cosa succede», ringhio alla fine.
Zia Marin non sembra particolarmente allarmata. Non ha vissuto lei l'inferno, mi sembra ovvio. Non può neanche immaginare i pensieri che ho avuto, la paura e il desiderio che tutto questo prima o poi finisse.
«Io ho solo detto...»
«Che siamo fatti l'uno per l'altra?» soffio dalle narici scuotendo la testa. «Sul serio?» piego la testa di lato guardandola freddamente. «Davvero non riesci a capire che io e Dan non staremo mai e poi mai insieme? Siamo amici. Per quanto ci abbracciamo o stiamo vicini io e lui non siamo quello che vedi tu perché non sentì quello che provo io. Per me è sempre stato un fratello. Ho sbagliato ad allentare la presa con lui. Quel filo si è sciolto lasciandolo libero di pensare e soprattutto di illudersi. Ma non ho mai mentito. Non ho mai detto di amarlo come si ama un uomo che ti spaventa avere accanto per l'amore che provi per lui. Dan non ha ancora capito che io mi fido di lui, che gli voglio un gran bene, che farei di tutto per vederlo felice, ma che non staremo mai insieme perché non è lui quell'uomo per me. Che non voglio essere infelice per regalare un sogno a lui.»
Parlo. Gesticolo. Il sangue mi ribolle ovunque, in ogni fibra, in ogni poro. Mi sento accecata dalla tristezza, dal senso di perdita e dall'abbandono.
«Io non voglio perderlo solo perché la tua lingua lunga ha sortito un effetto lampante sulla sua mente. Devi smetterla di indurlo a commettere errori. È adulto. Deve iniziare a sentire e provare da solo le cose. Non è un oggetto da comandare. È una persona e ha dei sentimenti che tu, mi hai fatto ferire.»
Zia Marin passa la mano sui capelli ingrigiti dalle cure, dagli anni di malattia e dalla tristezza che l'ha sempre spinta a non dedicarsi così tanto alla cura di se stessa. «Tu non lo hai mai amato perché non hai mai visto come ti guarda, come ti protegge...»
«L'amore non è solo questo: non è un tetto, non sono i soldi, non è un dannato conto in banca o un lavoro. Renditene conto!» alzo il tono stanca del suo atteggiamento.
Inspira. «Ma può renderti felice.»
Nego. «Solo io posso rendermi felice. Solo io sono l'artefice di ogni mia disgrazia. Non Dan, non tu. Io!»
Scrollo la testa. «Davvero, non capisco come fai a pensare ancora a questa cosa e a non vedere che sono felice altrove...» mi alzo.
La porta della stanza si apre. Zia Marin ha un sussulto. Quando spunta il dottore, rilassa le spalle.
Assottiglio gli occhi. «Aspettavi qualcuno, non è vero?» soffio dal naso. «Sei incredibile!» mi avvio alla porta.
«Ti farai di nuovo male, Bi. Quell'uomo che stai vedendo, non è quello giusto.»
Mi irrigidisco. Non replico. Guardo il dottore. Lui mi fa passare ed esco dalla stanza turbata. Dan gli ha detto tutto?
Attendo fuori dalla porta. Dopo circa due minuti il dottore mi raggiunge.
«Signorina Stevens, temo di avere brutte notizie.»
«Quanto?» Chiedo ricomponendomi, stringendomi sotto il tessuto del cappotto che non mi regala calore.
Il dottore soppesa il mio sguardo come se stesse immaginando se una come me, sia in grado sopportare il peso di una brutta notizia, un nuovo carico da tenere dentro il cuore sempre più colmo di tristezza e dolore.
Ho sempre odiato la mia fragilità nascosta dietro uno sguardo fiero, quel modo che ho di pormi così freddo e un atteggiamento distante, come se avessi paura che le persone mi infettassero con la loro allegria. Ho sempre odiato la mia voglia di scappare altrove. La sensazione di non essere mai abbastanza, mai adatta ad un mondo come questo in cui tutto deve essere perfetto. Non sono mai stata abbastanza. Non mi sono mai piaciuta. Ho troppi difetti, troppe paure tenute nascoste e intrappolate dentro. Ma, ho imparato a fingere: di stare bene, di sorridere, di sentirmi a mio agio, di essere forte e coraggiosa. Mi sono allontanata da me stessa e non ho più smesso.
Adesso sono troppo lontana.
Mi sono persa.
Il dottore alza gli occhi dalla montatura semplice e sottile che porta sul naso.
«Quanto le rimane?» Ripeto con voce stridula.
Tira indietro la testa prendendo un respiro, preparandosi a colpire. «Dai tre ai sei mesi. Tutto dipende da lei e dal suo corpo. Mi dispiace», posa una mano sulla mia spalla per infondermi coraggio.
Non ne ho bisogno. Quello di cui ho bisogno è non sentire dentro questa orribile sensazione di solitudine. Sono e sarò sola ad affrontare una nuova perdita. Nessuno riuscirà mai a capire quello che significa vedere morire uno ad uno ogni membro della propria famiglia.
Il dottore mi tiene d'occhio. Forse vede lo shock sul mio viso. Tiro la tracolla drizzando le spalle. «Grazie per quello che state facendo. Per qualsiasi cosa, non esitate a chiamare.»
Mi accompagna all'uscita. «Non si è mai preparati», dice guardando davanti a sé tenendo sottobraccio una cartella.
«Già, non lo dica a me. Ma soffrirà?»
«Le daremo dei farmaci per farla sentire meglio.»
«Niente sonniferi. Deve vivere questo periodo come una persona e non come un vegetale. Glielo chiedo come favore personale.»
Ci fermiamo all'entrata. Senza neanche rendermene conto sono davanti il bancone, a pochi passi dalla donna che adesso, indaffarata, parla al telefono scrivendo qualcosa su un foglio.
«Faremo il possibile», mi sorride anche se vista la situazione contiene l'entusiasmo.
Mi piacerebbe avere la stessa freddezza, la stessa empatia dei medici. Riescono a mantenere la calma e dopo ogni operazione o dopo ogni paziente perso, hanno la straordinaria capacità di mangiare lo stesso a cena. Io credo solo di essere forte e preparata ad ogni urto riservato dalla vita. In realtà sto fingendo. Perché nel profondo, so che una perdita mi farà male. Così male da sentirmi il cuore strappato via dal petto.
«Adesso devo tornare alle visite. Si riguardi e venga a trovare sua zia.»
Annuisco lasciandolo passare. «Buon lavoro e buona giornata.»
Mi incammino a passo malfermo fuori dalla clinica. Non vedo neanche dove metto i piedi. Mi sento frastornata.
Sto superando il cancello quando mi ritrovo davanti Dan. Tiene in mano un mazzo di fiori e una coperta dentro un sacchetto di carta. Ha un sussulto. Arresta persino la sua camminata aspettandosi chissà quale scenata da parte mia.
In mente, mi ritornano le parole di zia Marin, il suo tentativo di farmi restare ancora. Sapeva che sarebbe arrivato. Erano d'accordo. Mi sento arrabbiata, usata e presa in giro.
Non abbasso neanche il viso, gli vado in contro superandolo come si fa con un estraneo e, una volta dietro l'angolo, lascio uscire tutto il fiato trattenuto e un singhiozzo. Barcollo indietro aggrappandomi all'inferriata, piegata in due dal dolore. Premo la mano al petto e quando mi si avvicina un uomo con il suo cane al guinzaglio, cerco di ricompormi imbarazzata.
«Va tutto bene?»
Abbozzo un sorriso. «Si, grazie.»
Mi allontano camminando verso il centro. Stacco la spina raggiungendo il parco. La mia panchina preferita, dove mi siedo e ammiro il panorama invernale perdendomi in ogni singolo dettaglio.
Ma, intorno a me c'è solo grigio. Tutto cupo. Tutto spento. Continuo a starmene nel mezzo. A sentirmi come un frammento di vetro circondato da meravigliosi cristalli. Mi ritrovo ad avere voglia di fuggire. Di rifugiarmi altrove, raggiungere un posto lontano.
Viviamo momenti così pieni di dolore da volere scappare altrove. Abbiamo tutti quella paura di perdere le persone. Di provare forte quel senso di mancanza che ci rompe il petto, riempendo il cuore di piccole crepe. Segni apparentemente lievi che sono in grado di togliere persino il respiro. Viviamo momenti così pieni di tristezza da avere solo voglia di chiuderci in una stanza per trattenere un po' di quel respiro, un po' di quell'odore nascosto in ogni oggetto, in ogni ricordo. Viviamo di parole non dette, di addii che tolgono il sonno, di paure nascoste e fragili promesse. Viviamo ma non del tutto. Sopravviviamo con qualche pezzo in meno, con gli occhi stanchi, con le braccia vuote e i sorrisi spenti.
Il telefono squilla distogliendomi dai pensieri. Controllo il numero sullo schermo e sentendo il bisogno di una voce amica rispondo.
«Emerson»
«Com'è andata?»
«Le rimane poco e non troveremo mai un punto di incontro perché Dan per lei è l'unico a dovere stare al mio fianco. Io...» sospiro. «Non lo so. Non trovo un senso a tutto questo. Vorrei solo...»
«Dove sei?»
«Al parco»
«Il tuo preferito?»
«Si.»
«Ok, arrivo!»
Riaggancia e guardo il telefono provando un senso di conforto nel gesto di una persona a me estranea ma che ha dimostrato una sensibilità e un affetto nei miei confronti straordinario.
Emerson arriva dopo circa cinque minuti. Si è cambiata. Indossa un cappotto in tartan grigio, tacchi alti di camoscio e un tubino nero molto elegante. I suoi capelli sono legati in una coda di cavallo.
«Ho fatto prima che potevo.»
«Scusa, dovevi passare la giornata con il tuo...»
«No, no. Le amiche sono più importanti. Tu per me lo sei. Non ci conosciamo da un sacco di anni ma mi hai dimostrato più tu di tante altre stronze. Ho contattato Beverly e Natalie ma oggi saranno impegnate quindi noi due, adesso andremo a farci la manicure e poi un po' di shopping. Non preoccuparti, utilizzeremo i coupon», mi sorride cercando di convincermi.
Abbasso le spalle abbracciandola. «Grazie.»
Strofina il palmo sulla mia schiena. «Tu ne hai bisogno e io devo smaltire questo calore che sento dentro. Prima non immagini quello che è successo», esclama divertita.
«Racconta, voglio i dettagli!»
Mettendosi a braccetto, partendo dall'inizio, mi racconta per filo e per segno ogni cosa, anche i dettagli più succosi e osceni.
Emerson è una frizzante compagnia. Mi risolleva il morale con i suoi gesti caparbi. Mi ridona il sorriso in un momento di profonda tristezza. Mi fa sentire meglio con le sue stranezze e i suoi atteggiamenti da donna matura. Mi tratta come una sorella facendomi sentire apprezzata e al sicuro.
Quando mi lascia alla porta di casa, non riesco a contenermi e la ringrazio per tutto regalandole una giornata da passare alla spa con il suo nuovo ragazzo.
Mentre eravamo a farci la manicure, ho sentito il bisogno di fare qualcosa per lei. Così ho pensato ad un regalo che potesse apprezzare.
«Era da un sacco di tempo che ci pensavo», strilla guardando i due biglietti con gli occhi lucidi.
«Tour completo. Divertitevi!»
Mi abbraccia forte. «Grazie. È il regalo più azzeccato della vita. Chiama se hai bisogno di un po' di svago. Domani sarò ad una riunione ma per te posso sempre fare un'eccezione.»
Abbozzo un sorriso. «Grazie. Passa una buona serata.»
«Anche tu», mi saluta.
Entrata in casa mi guardo intorno mentre il freddo mi penetra nelle ossa facendomi sentire incompleta.
Accendo il camino provando a riscaldarmi, a riscaldare la casa immersa nel silenzio.
Premo il tasto del telecomando sintonizzando la tv su un programma di quiz, mentre mi siedo sulla poltrona con una coperta sulle gambe che, porto al petto.
Sento il ronzio del telefono. Mi sporgo afferrandolo. Sorrido nel notare il suo numero. «Ehi»
«Dove sei stata?»
«Mi è mancata la tua voce.»
Sento il suo sorriso. «Sono passato per farti una sorpresa alla villa ma tu l'hai fatta a me. Non c'eri.»
Non nasconde il suo malcontento. «Sono uscita un po' con un'amica e poi mi hanno chiamato dall'ospedale e sono andata a trovare zia Marin», la voce mi si inclina.
«Sta bene? È successo qualcosa? Sei ancora lì?»
«No, sono a casa. Lei, adesso sta bene ma... non le rimane ancora tanto da vivere. Ho chiesto al medico di non darle quelle medicine che la rendono debole o un vegetale facendole perdere qualche altro bel momento. Secondo te, ho fatto bene?»
«Vuoi un po' di compagnia?»
Stringo la coperta. «No, sto bene. Torna pure alle tue cose.»
«Davvero?»
«Si, posso farcela.»
Inspira. «Che cosa farai questa sera? Dimmi almeno che mangerai.»
Guardo la cucina. Il mio stomaco si contorce e mi sale la nausea. «Guarderò un programma in tv», replico con una smorfia. «E mangerò.»
«Ok, ho una chiamata in attesa. Ci sentiamo dopo per la buona notte.»
«Va bene. A dopo.»
Riaggancio appoggiando la testa sullo schienale.
Annoiata e triste, di pessimo umore, mi alzo mettendo tutto in ordine. Apro lo sportello della dispensa tirando tutti i barattoli e le scatolette fuori. Ordinandoli per ordine di scadenza. Pulisco per bene ogni superficie mettendo a soqquadro praticamente tutta la cucina.
Sto aggiustando i cuscini sul divano quando sento due colpetti alla porta.
Con il cuscino in mano, vado ad aprire. Davanti a me una busta di carta color Tiffany. E poi c'è lui. «Ho portato un regalo e un po' di compagnia.»
Lo lascio passare. «Sei gentile. Non dovevi, come vedi sto bene.»
Guarda subito intorno maniacalmente. Si accorge della bacinella con l'acqua piena di prodotto per il legno, dei guanti sul bordo del lavandino. Annusa l'aria ma non commenta.
Raggiunge il ripiano della cucina posandovi sopra la busta. Tira fuori da questa due vasetti enormi. Uno di yogurt e uno di gelato al pistacchio e cioccolato fondente. «Non l'ho fatto perché dovevo o perché sono gentile. L'ho fatto perché volevo vederti», mi si avvicina.
Il mio corpo reagisce nell'immediato al suo tocco quando mi scosta i capelli dalla fronte dandomi un bacio.
Chiudo gli occhi mugolando, lasciandomi attraversare dalla corrente elettrica che si propaga ovunque. «Mi sei mancata», sussurra.
«Sei stato impegnato. Pure io», alzo le spalle posando il cuscino.
Cerca i cucchiai. Indico il cassetto e ne recupera due. Circondandomi la schiena con un braccio mi trascina sul divano dove ci mettiamo comodi.
Solleva il coperchio dandomi lo yogurt. Sorrido continuando a guardarlo di nascosto. «Sono contenta che tu sia qui con me.»
Caccia in bocca un cucchiaio di gelato alzando il volume della tv. «Meglio. Così non dovrai cacciarmi con una scusa per averti disturbata nel bel mezzo delle pulizie.»
Sporgendosi sistema la coperta sulle nostre gambe guardando lo schermo.
«Ok, indovina questa.»
«Secondo me la parola è: Sentimento.»
Sorrido con il cucchiaio in bocca. «Non ci va!»
Aggrotta la fronte. «Si che ci va.»
«Sei negato per questo gioco.»
«Ah si? Sarò bravo in altre cose», replica alzando il mento con un sorrisetto sfrontato.
Rido e si rilassa rubandomi un cucchiaio di yogurt.
Lo osservo e lecca le labbra voltandosi. «Che c'è?»
Poso il barattolo sul tavolo, mettendomi a braccetto appoggio la testa sulla sua spalla. «Niente. Anche tu mi sei mancato.»
Imita il mio gesto accarezzandomi i capelli, dandomi un bacio sulla testa. «Era una dimostrazione quella?»
Sorrido. «Com'è che hai detto? Ah, sentimento. Era un sentimento.»
Strofina il naso sul mio. Mi annusa infondendomi una piacevole sensazione di benessere. «Ho avuto da fare e lo so che non sono stato tanto presente ma...»
«Hai fatto tanto per me, davvero», poso il palmo sulla sua guancia sentendo sotto i polpastrelli la barba, la pelle liscia, il tessuto della maschera. Gliela tolgo e quando provo a baciare la cicatrice, lui è più veloce. Mi ruba un bacio in grado di farmi divampare dentro un incendio indomabile.
Mi attira a sé facendomi sistemare a cavalcioni. Stringo le dita sul suo maglione mentre lui cerca la mia bocca ansimando, rendendo tutto più sensuale e permanente sotto pelle, dentro il cuore.
Ci allontaniamo solo per riprendere fiato. Le sue mani sulla schiena, le mie sul suo viso. Rimaniamo a pochi centimetri, affannati.
«Ti sono proprio mancata, eh?»
Sorride in modo dolce. «Anch'io. Adesso so anche quanto.»
Mordo il labbro avvicinandomi per giocare ancora con le sue. Si spinge verso di me e mi tiro indietro. Mugola e rido tenendo fermo il suo viso quando prova a mordermi. «Stai facendo un gran danno, lo sai?»
Ho le guance in fiamme ma non oso staccarmi da lui. «Lo sento», la mia mano scivola sul suo petto fino al ventre. Lui la afferra come un mosca. «E sei altamente pericolosa», soffia eccitato.
Divertita e rilassata avvicino la bocca alla sua. «Però a te piace», sussurro.
Prende fiato. «Se mi piace?» balbetta guardandomi come se lo avessi appena preso in giro. «Vuoi sapere l'effetto che mi fai tutte le volte che ti vedo da quando ti ho incontrata?»
Annuisco guardandolo timida, tenendo il labbro tra i denti e lui mi costringe a rilasciarlo con le sue. Mi fa scivolare sotto il suo peso. «Mi fai eccitare, tanto. Così tanto che devo trattenermi. E sappi che non è facile.»
Lo abbraccio. «Come fai a resistere?» gli sussurro all'orecchio.
Avvampa. Stringendomisi addosso sussurra: «Non resisto. Mi controllo perché so che cosa vuoi davvero.»
La sua risposta mi stupisce. «E tu che cosa vuoi?»
Lo vedo staccarsi per guardarmi. Accarezzo il suo viso risollevandomi. «Rimani», lo guardo con gli occhioni speranzosa.
Le guance rosee leggermente accaldato scuote il maglione. «Devo dormire sul divano?»
Ci penso su. «Vuoi dormire con me?»
Sorride reggendo il gioco. «Se lo chiedi così non posso rifiutare», esclama divertito.
Tiro il suo maglione alzandomi e lui mi segue in camera. «Prima posso chiamare Mitch?»
«Rimani?» tengo ancora stretto il suo maglione.
Sorride, non riesce a smettere. «Si e dormo con te. Tanto per precisare in boxer e non sul divano.»
Accetto lasciando la presa. «Ok, hai due minuti per raggiungermi o dormirai vestito e a distanza di un cuscino», lo stuzzico.
«Cinque minuti. Ho bisogno di organizzare un paio di cose.»
«Tre, prendere o lasciare.»
Scuote la testa. «Incredibile. Accetto ma se arrivo prima dei tre minuti, mi darai il permesso di toglierti di dosso questi», tira il gancio dei jeans avvicinandomi a sé, schioccandomi un bacio. Si allontana facendomi l'occhiolino, sparendo in soggiorno.
Lascio uscire il fiato sventolandomi, toccandomi le guance tanto calde. Tolgo poi i cuscini di troppo dal letto e quando mi volto questo mi cade dalle mani. Lui è lì, sorride.
Si avvicina come un leone. Mi fermo, in attesa. Il suo profumo mi avvolge, mi stordisce. «Temo che dovrò spogliarti.»
«Uhhh che paura», ansimo quando mi tira a sé di nuovo in quel modo.
Sorride sardonico accorgendosi della mia reazione. I brividi infatti, mi coprono da capo a piedi.
Mi sfila via la maglietta accarezzandomi le braccia, guardandomi il seno coperto dalla stoffa a pois nera con delle trasparenze. Seguo il percorso delle sue dita fino alla vita. Sbottona i jeans lentamente rendendo tutto molto più insopportabile perché eccitante. Tirandoli giù, si inginocchia. Alza la testa continuando a mostrare quel sorriso. Poso i palmi sul suo viso tirandolo, si rialza sfiorandomi le gambe. Baciandomi con possesso. Indietreggio ricadendo sul letto, continuando a stringermi a lui.
Le mie mani sfilano via la sua maschera di nuovo sul suo bellissimo viso, il maglione e poi mi ferma.
Ci stacchiamo affannati. Lo guardo con gli occhi lucidi reggendomi sui gomiti.
Toglie i pantaloni avvicinandosi. Trattengo uno strillo e lui ride colpendomi il cuore. «Ti provoco questa reazione?»
Annuisco posando il palmo sul suo petto poi sul collo ascoltando i suoi battiti. «Si, è una scossa forte.»
«Sopportabile?» Chiede spostando la coperta.
«Si, piacevole», sussurro.
Mi sfiora le labbra. «Bene, perché non ho intenzione di smettere.»
Scivolo sul letto e lui spegne la luce tirando la coperta su di noi. Stendendosi su un fianco, davanti a me, mi osserva. «Sta diventando un vizio.»
«E vuoi smettere?»
«Un vizio piacevole», specifica. «No, non voglio smettere. Dormire con te non è come avevo immaginato.»
Cerco di capire. «Non dirmi che russo o che parlo nel sonno.»
Ride. «No, non russi e non parli nel sonno. È piacevole dormire accanto a te. Mi piace tenerti tra le braccia, sentire il tuo odore, il tuo respiro. Sei così serena quando abbassi del tutto ogni difesa.»
Si fa pensieroso. Mi alzo lievemente posandogli il palmo sull'orecchio per avvicinarlo. «Ho paura», sussurro.
«Posso essere sincero?»
«Sempre.»
«Ho paura anch'io.»
Gioco con la cicatrice. «Davvero?»
Ferma la mia mano baciando il palmo. «Parecchia.»
Mi tengo appoggiata al polso con il gomito sul materasso. «Di cosa hai paura?»
«Per la prima volta nella mia vita ho paura di perdere il presente, di perdere te che ne fai parte.»
Lo guardo con occhi lucidi. Mi abbraccia stringendomi forte. Mugolo. «È bello quello che hai detto.»
«Non succederà più.»
Trattengo una risata. «Lo so che sei un cubetto di ghiaccio», mugugno. «Ma so anche che in fondo sei dal cuore caldo», sussurro sull'orecchio.
Mi giro e mi abbraccia. «Buona notte», strofina il naso sulla nuca.
«Trav!»
Ride. «Mi mancava anche questo.»
«Dormi o ti mando in soggiorno», minaccio.
Stringe la presa. «Ma neanche se mi ci trascini con la forza», mi sfida.
«Non ci provare. So essere persuasiva e forte.»
Sorride baciandomi il collo. «Non ne dubito.»
I minuti passano. Stringo la sua mano al petto giocando con le sue dita che cercando di sfiorarmi le labbra.
Il cuore sta battendo senza più controllo. Ascolto la sinfonia che mi scatena dentro.
«Travis»
«Si?»
«Mi manchi.»
Può mancarti così tanto una persona che non conosci?
Succede. Passi una vita intera a nascondere pensieri, a spegnere sorrisi, a riempirti di illusioni e delusioni. E poi, un giorno, arriva qualcuno. Incroci uno sguardo, così diverso dal tuo, così distante eppure in grado di attrarti, di trascinarti altrove. E in quegli occhi scuri come la notte, tu ci vedi le stelle. I segreti nascosti di un'anima in frantumi. I sogni appesi come desideri intorno a un filo, legati ad un palloncino che ben presto volerà nel cielo. Ci vedi un po' di te stessa in quell'oscurità spaziosa ma non ingombrante. E allora scopri che ci sono mancanze che significano tutto. Perché ci sono posti sconosciuti degni di essere visitati da un cuore solitario come il tuo. Ci sono pensieri profondi, da dover essere sfiorati. Ci sono sguardi tristi in grado di unire le persone. E allora ti accorgi proprio di questo: può mancarti una persona che non conosci. Succede. Succede quando incontri qualcuno in grado di sostituire il frammento di te che hai perso nell'oceano buio delle tue più profonde paure. Succede quando incontri qualcuno in grado di completarti. Perché sei nato a metà. Perché il destino ti ha spezzato in due. Succede che ti affezioni di due occhi, di un cuore puro e non ne esci. Da certe mancanze non ne esci.

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Come proiettile nel cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora