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Per anni ho lottato. Per anni ho fatto i conti con questo cuore colmo d'amore, di dolore. Per anni ho amato anche senza permesso e mi sono lasciata ferire perché stupidamente ho pensato di potere avere anch'io un lieto fine. Mi sono illusa fino a provare forte la delusione. Ho permesso agli altri di farmi soffrire, di calpestarmi. E non ho avuto scelta. Lentamente mi sono allontanata. Ho ridimensionato la mia vita. Non ho più pianto, non mi sono più disperata. Mi sono rimboccata le maniche e sono andata avanti tenendo dentro un peso consistente. Ho finto di essere forte, di potere superare tutto costruendomi una corazza, nascondendomi dietro quel muro di indifferenza che, alla fine ha iniziato a creparsi e poi a sfaldarsi fino a crollarmi addosso. Tutto questo perché ho amato. Ma l'amore non è per tutti. E a volte bisogna smettere.
Sento come una fitta alla testa. Un po' come quando ti colpiscono abbastanza forte e perdi i sensi. Un po' come quando ti addormenti ubriaca e ti svegli assetata, stordita, in cerca di risposte che non avrai mai.
Sollevo le palpebre provando un senso di stanchezza in grado di provocarmi un certo dolore al petto. Simile ma più tenue rispetto a quello provato prima di...
Mi agito alzandomi immediatamente a metà busto credendo di essermi piegata ed avere perso i sensi solo per pochi istanti. Ma, sono su un letto e non è il mio. Sono su una branda d'ospedale più che scomoda, incolore, in una stanza altrettanto asettica. La luce al neon ferisce le mie povere iridi e mi lamento.
I miei occhi adattandosi lentamente, seppur continuando a bruciare, vagano intorno.
Sono in una comunissima stanza d'ospedale. Le pareti bianche. Una finestra le cui tende spesse sono tirate ad impedire il passaggio della luce dall'esterno all'interno. C'è una poltrona accanto al letto ma è vuota. Sul bracciolo il cappotto scuro di Travis.
Il mio cuore prende a battere forsennato. Il petto torna a farmi male al ricordo di quello che ho scoperto.
Scostando la coperta mi alzo velocemente, un po' troppo, dopo avere staccato la flebo come se togliessi un cerotto.
I miei piedi nudi aderiscono al pavimento lucido e liscio. È freddo. Traballo sentendomi ubriaca. Raggiungo la porta e poco prima di aprirla, questa si spalanca costringendomi ad indietreggiare malamente con il rischio di cadere.
Travis, il viso stanco, la barba ispida, i capelli scuri scompigliati, ha un sussulto nel vedermi in piedi e pronta a scappare. Il bicchiere con il caffè che tiene in mano trema e per poco non si rovescia sul pavimento riversando all'esterno tutto il caffè che contiene, ma con i riflessi di un falco fa in modo che questo non succeda.
Piuttosto stringe i denti tenendo per sè quello che vorrebbe urlare.
«Ti sei svegliata», fa una smorfia più che un sorriso posando il bicchiere sul comodino, avvicinandosi.
Indietreggio. «Non toccarmi per favore», lo avviso cercando di parlare senza piangere, ricacciando dentro il nodo che rischia di soffocarmi.
Mentalmente ripercorro le ultime ore passate, ripenso a quello che ho scoperto, alla reazione che mi ha provocato tutto lo stress e il dolore che è riaffiorato in un battibaleno schiacciandomi come se fossi una nocciola.
Si blocca. «Puoi stenderti? Hai avuto un attacco di panico e non respiravi più. Dovresti riposare», silenziosamente mi prega di non fare i capricci.
Inizialmente sono pronta a protestare. Eppure, quando mi rendo conto di come mi sta guardando, non riesco a contrastarlo. Non ce la faccio ad oppormi. E come una bambina, torno sotto la coperta guardandomi prima un momento per capire se ho addosso uno di quegli orribili camici aperti sul dietro. A dispetto di quanto penso, indosso un pigiama morbido.
Chi è stato a mettermelo?
Travis, in parte rincuorato dalla mia risposta così docile, si siede sulla poltrona. Massaggia la fronte con una serie di smorfie poi recupera dal capotto un flacone di pillole prendendone una insieme ad un sorso di caffè. Appoggia la testa chiudendo un secondo gli occhi e si rilassa visibilmente come se volesse attivare il principio della pillola prima del previsto.
Non è solo stanco. Me ne rendo conto adesso che lo ritrovo qui davanti. Appare distrutto, distratto da qualcosa. Non un pensiero, forse una serie di ricordi che continuano a fargli male.
«Stai male?»
«È solo un lieve mal di testa. Ogni tanto ritorna», spiega massaggiandosi la nuca muovendo la testa da una parte, premendo i polpastrelli sul collo. «Soffro di emicrania da quando ho picchiato forte la testa contro un masso bello grosso.»
Evito proprio adesso di sparare a raffica le mie domande sull'argomento. «Da quanto sono qui?» Chiedo invece.
«Qualche ora», guarda l'orologio al polso come per accertarsi di avere detto la verità. «Hai avuto una crisi respiratoria e hanno dovuto sedarti perché continuavi a tremare come una foglia.»
Deglutisco a fatica. Non riesco a guardarlo per più di due secondi negli occhi. Prendo il bicchiere sul comodino. È tutto azzurro con una cannuccia dello stesso colore. Bevo un lungo sorso d'acqua per attenuare la sete. Sento la gola bruciare terribilmente.
«Mi hai portata tu qui?»
«Si. Ho chiamato Mitch e prima il pronto soccorso perché ero nel panico anch'io. Insomma... è stata colpa mia.»
Chiudo gli occhi. «Non ora», mormoro.
Sospira. «E quando? Bi, io non posso perderti così. Non posso neanche fare finta di niente perché è successo. Non voglio negare l'evidenza.»
I miei occhi iniziano a bruciare. Batto le palpebre velocemente. Bevo un altro sorso d'acqua mandando insieme ad essa il nodo che sale. «L'hai ammazzato...» scoppio inevitabilmente in lacrime. La mia testa oscilla e la prendo tra le mani tirando al petto le ginocchia.
Travis nega più volte alzandosi, sedendosi sul bordo del letto, e non ascoltando la mia richiesta mi abbraccia. Mi tiene stretta a sé senza neanche preoccuparsi del dolore che sento ancora al petto.
«Io gli ho creduto. Stavo parlando con lui. Volevo aiutarlo quando è successo tutto il resto in un susseguirsi di attimi che continuo a sognare e a rivivere ogni singola notte.» Fatica a parlare. La voce gli si inclina persino uscendo stridula.
«Chi te lo ha impedito? Chi ti ha impedito di parlare con lui e salvarlo?»
«Un uomo che in seguito ha messo il piede su quella dannata bomba.»
Strizzo le palpebre. Non oso immaginare gli ultimi istanti di vita di Nic, tantomeno i terribili momenti vissuti da Travis poco prima di essere sbalzato via e dilaniato da una bomba.
In tutto questo però, c'è una cosa che voglio sapere. So che mi farà stare male ma ho bisogno di conoscere un pezzo di verità.
«Ha sofferto?»
«Bambi...» cantilena.
Stringo la sua mano guardandolo implorante. «Ti prego, dimmelo», la voce si inclina e ancora una volta mi ricompongo per non crollare.
Travis raccoglie le parole da usare per spiegarmi come sono andate le cose. Ma alla morte non c'è rimedio. Neanche alla sofferenza provata da una persona in un posto lontano, nel bel mezzo di un attacco a sorpresa. Tutti cercano di alleggerire il peso dicendo che la morte sia solo un attimo.
«All'inizio lo hanno colpito alla caviglia... se non sbaglio poi...» si volta.
Giro il suo viso. «Guardami negli occhi e dimmi se ha sofferto», uso un tono deciso.
«Spero di no. Mi ha solo detto...» contrae la mascella. «Mi ha detto "sono come te".»
Trattengo il fiato. «Ecco perché ti sei irrigidito quando ti ho detto questa cosa e quando ti ho spiegato che non puoi salvare tutti...»
Annuisce provando ad allontanarsi. Lo fermo. Finalmente ci guardiamo negli occhi. «Aveva paura?»
Abbassa la testa. «Ne avevo anch'io.»
«Che cosa mi consigli di fare? Io non so più come si spera in una vita migliore.»
«Ti direi che sperare a volte va bene, può essere un modo come tanti per andare avanti. Ma sappiamo che ci illudiamo soltanto.»
«Come hai imparato?»
«A fare che cosa?»
«Ad andare avanti.»
«Ascoltami, tutti perdiamo qualcosa. Io ho perso la mia vita. Ma questo non mi ha fermato. Ho provato ad andare avanti, a consolarmi dicendo che prima o poi tutto sarebbe passato, che sarei stato bene. Facevo finta che non fosse mai successo. E allora mi sono tenuto occupato. Ho ricostruito ogni cosa dalle fondamenta.»
«Ha funzionato?»
«Non ci ho pensato per un po', poi però è tornato. Perché non possiamo dimenticare quello che abbiamo perso. E non possiamo usare per sempre una maschera.»
«Ti senti bene adesso o era solo una brutta illusione?»
«Troviamo molte distrazioni e continuiamo a riempire quel vuoti che rimarranno voragini oscure e silenziose nel cuore. Nessuno sta bene veramente.»
Scivolo verso di lui, ci abbracciamo.
«Credimi, non lo dimenticherò mai.»
Mi bacia la spalla. «Spero vivamente che lui non abbia sofferto come sto soffrendo io.»
Stringo il suo viso tra le mani e lo vedo fragile, con gli occhi colmi di lacrime. Di un'emozione nuova. «Voglio risparmiarti i dettagli quindi ti prego di capire...»
Mi stringo a lui. «Grazie», sussurro ad occhi chiusi. «Finalmente potrà avere riposo.»
Stringo la dita sulle sua spalle che rilassa. «Nic non era un terrorista», mi dice accarezzandomi il viso, guardandomi intensamente. «Era un eroe, ok?»
Singhiozzo ma sto sorridendo per la sua infinita dolcezza.
Come fa a sopportare tutto questo? Come fa a resistere all'impulso di mandarmi a quel paese proprio perché sto piangendo per un altro?
Nego. «No, era uno stronzo a cui piaceva scombussolare tutto.»
Sorride a sua volta baciandomi la fronte poi le labbra tirandosi indietro insicuro dopo il gesto. Lo avvicino.
«Perdonami», sussurra. «Non sono un mostro...»
Muovo subito le labbra sulle sue. «No, non lo sei. E non devi assolutamente pensarlo. Tu... non lo sei. Tu... sei... ah, io ti...»
Veniamo interrotti dall'arrivo di un dottore. Travis si siede sulla poltrona bevendo il suo caffè mentre questi mi si avvicina dopo avere salutato. Legge la mia cartella annotando sulla sua qualcosa. Abbassa gli occhiali concentrandosi su ciò che deve dire.
«Posso parlarle un momento signorina Stevens?»
«Si, dottore», corrugo la fronte. «Va tutto bene?» Domando.
«Signor Williams può uscire dalla stanza?»
«È mia moglie! Può parlare anche con me qui presente.»
Travis appare confuso ma quando il dottore gli schiocca un'occhiata di rimprovero, esce dalla stanza corrugando la fronte, scrutandolo fino a quando non sparisce.
Il dottore è un uomo sulla quarantina, non molto alto e dall'aspetto ordinario. Nessun segno particolare. Sembra avere tanto l'aria anonima.
«Signorina Stevens, le abbiamo fatto delle analisi mentre era incosciente e una risonanza e da queste abbiamo scoperto che lei ha una piccola massa sul seno destro. Possiamo analizzarlo se ce lo permette e...»
Il mondo mi crolla ancora una volta addosso. So cosa significa.
«Si», balbetto.
«Signorina... cioè signora, capisco che deve essere una doccia gelata per lei ma, prima procediamo con i controlli prima potrà tornarsene a casa tranquillamente.»
«Mia zia è ammalata. Abbiamo scoperto così quello che aveva. So cosa significa tutto questo. La ringrazio e possiamo procedere subito con le analisi.»
Non capisco niente. Ai miei occhi appare tutto confuso. Ho bisogno di stendermi. La testa mi gira vorticosamente. E vorrei urlare, dare di matto, comportarmi da pazza contro questo destino che non mi sta dando pace. Invece me ne sto ferma, colpita un'altra volta duramente.
«Bene», finalmente mi sorride.
Mi rassicura in un certo senso, mi fa ben sperare questa sua risposta. Almeno fino a quando non entra Travis. Mi raggiunge preoccupato, notando il mio sguardo improvvisamente spaventato. Perché è così che mi sento: ho paura di dirgli la verità. Conosco gli effetti. Ciò che provoca dentro.
Il dottore ci lascia soli e quando Travis si siede sul bordo del letto, senza indugiare, lo abbraccio cercando le parole giuste per dirgli quello che ho appena scoperto e che mi ha destabilizzata.
«Che succede?»
«Devo fare delle analisi.»
Per lui questa risposta è fin troppo breve. «Analisi? Perché? Di che tipo?»
Scoppio in lacrime. Non voglio ferirlo.
«Ehi, Bi. Calma. Che succede? Spiegami.»
«Dalla lastra hanno notato una macchia sul seno e vogliono controllarla. Ho paura Trav...»
Noto la sua espressione mentre mi abbraccia cercando di darmi forza e contemporaneamente di trattenere per sé ogni altro pensiero.
«Ok, andrà tutto bene.»
Nego. «Certe cose sono genetiche...»
Scrolla immediatamente la testa come se non volesse accettarlo e neanche sentire tutto questo. «No. Tu... non hai niente ok? Tu stai benissimo e quando otterremo i risultati noi due ce ne andremo immediatamente da qualche parte e faremo l'amore e non mi staccherò più da te perché...»
Premo le dita sulle sue labbra prima di abbassare il suo viso per baciarlo.
È nel panico. Lo so. Per certe notizie non c'è un'anteprima disponibile. Non ti danno delle regole da seguire per non fare prendere uno spavento a chi ami.
«Mi starai accanto almeno per le analisi?»
Asciuga le mie lacrime nascondendo le sue tenendomi stretta al petto. «Non mi staccherò un momento da te.»
Tiro su con il naso. «Perché tutte a me? Che cosa ho fatto di male? Che cosa ho di sbagliato?»
Alza gli occhi al cielo per non cedere. «Andrà tutto bene ok? Adesso facciamo le analisi e ci togliamo il pensiero», dice alzandosi e sparendo dalla stanza più che agitato senza neanche darmi una spiegazione.
Asciugo le lacrime e notando il mio telefono sul comodino e accanto ad esso la collana, prendo il primo contattando le mie amiche per avvertirle dell'ennesimo problema piombato nella mia vita. Del caos in cui mi ritrovo costantemente.

Come proiettile nel cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora