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Brusio, odore di caffè, musica e allegria mi circondano. Me ne sto seduta sullo sgabello della caffetteria universitaria. Il libro aperto, gli appunti davanti.
Il ragazzo dietro il bancone mi porta il caffè e la brioche che ho ordinato cinque minuti fa quando sono arrivata aspettando il mio turno.
«A lei signorina», dice sorridendomi. I denti dritti con uno spazio al centro, alto quanto un giocatore di basket, magro come uno stecco. Un ciuffo biondo sparato sulla fronte. Guance rosse con qualche piccola cicatrice bianca sotto il mento dovuta probabilmente ad una caduta e poi delle lentiggini spruzzate sul naso.
«Grazie», bevo subito un sorso di caffè continuando a leggere, a ripassare per l'esame che tra circa un'ora o due proverò sperando in una promozione che mi farà arrivare sempre più vicina alla laurea.
Mangiucchio distratta dal flusso di gente che entra ed esce dalla caffetteria. File di studenti come me nervosi o ansiosi.
Il locale è un complesso di mattoni rossi. Un enorme bancone dove potere ordinare quando si entra e poi tavoli alti rotondi per una massimo due persone dotati di sgabelli. Di fianco, le vetrate, una soglia di legno con piccole piante. Ci sono delle mensole sospese in alto sulle nostre teste piene di trofei, bottiglie e vecchie foto. L'aria è satura di odori.
Quando ho finito di fare colazione, chiudo tutto e lasciando la mancia dentro il barattolo, esco fuori avvolgendo intorno al collo una sciarpa color senape.
Il cielo grigio ancora una volta minaccia pioggia ma sono positiva. Riuscirò a svolgere l'esame e ad arrivare a casa senza bagnarmi come un pulcino. Ho controllato il meteo prima di convincermi ad uscire presto per arrivare in perfetto orario.
Cammino lungo la strada seguendo alcuni dei miei colleghi in questa avventura. Mentre li osservo, con le cuffie alle orecchie, mi rendo conto del fatto che in questi anni non ho mai cercato nuove amicizie. Tutti in qualche modo hanno sempre cercato di entrare a far parte di qualche gruppo, sorellanza o fratellanza, mentre io mi sono distaccata facendo del mio meglio per completare il mio percorso di studi travagliato, seppur in linea con i miei desideri, con il mio volere.
Ovviamente non mi sono mai tirata indietro quando qualcuno mi si è avvicinato invitandomi ad una festa. Ho rispettato tutti, aiutato quando mi è stato offerto aiuto.
Mi fermo all'entrata, fumo una sigaretta offerta da un collega che conosco ormai da tempo. Uno dei più geniali tra i presenti.
Rigiro la sigaretta tra le dita, rendendomi conto di avere smesso dopo essere stata licenziata. E sono stupita di quante cose siano successe proprio da quel momento in un susseguirsi di azioni, scelte, lacrime.
Aspiro una boccata di fumo lentamente, riempio i polmoni organizzando mentalmente questa nuova giornata che, sarà sicuramente pesante proprio perché dopo l'esame, come ogni altro giorno del resto, andrò a trovare zia Marin.
Continua a fare le cure, è sempre più burbera, sempre più decisa a tormentarmi fino al suo ultimo respiro.
«Hai studiato?»
«Non come avrei dovuto. Tu?»
«Sto solo provando per capire come funziona. Di sicuro andrà male ma almeno la prossima volta non sarò impreparato.»
Getto la cicca dentro l'apposito contenitore pieno di sabbia entrando con lui in aula. Sono già del parere che supererà anche questo esame senza avere studiato. Lo fa sempre ma è troppo modesto per dirlo.
Ci separiamo sedendoci ognuno nel posto scelto. Recupero una penna, tolgo le cuffie attendendo il docente.
In aula arriva un ragazzo. Moro, occhi verdi e abito elegante blu scuro. Montatura da lettore, orologio costoso al polso e sguardo freddo, si sistema dietro la cattedra. «Buongiorno», saluta osservando l'aula reggendosi con i palmi sulla superficie liscia.
Ci guardiamo tutti straniti. Ovviamente non è il vecchio professore che conosciamo. Ha qualcosa di familiare nelle movenze, nei tratti del viso, ma non riesco ad associarlo bene a qualcuno.
«Sono il professore Larson. Per oggi sostituirò il vostro docente. Sosterrete con me l'esame. Domande? Bene, che ne dite di iniziare e toglierci il pensiero?»
In aula si crea un certo brusio mentre lui distribuisce i test. Giunto davanti a me prendo il foglio e mi rivolge un sorriso accattivante. Quando alza il labbro mi viene subito in mentre Travis.
Mi concentro sul test. Non posso pensare proprio a lui nel bel mezzo di un esame importante, solo perché ho visto in quel sorriso un po' del suo.
In questa settimana passata con alti e bassi, ci siamo incontrati poco ma in quei vissuti insieme, abbiamo scritto un nuovo capitolo della nostra stranissima storia nata per caso grazie alla sua e-mail e al mio annuncio.
I lavori alla villa nel frattempo continuano anche se a causa del maltempo non siamo ancora stati in grado di occuparci del giardino, la parte in cui mi piacerebbe sistemare meglio il viale per potermi dedicare all'albero che intendo piantare o alle aiuole da disporre ordinatamente sulla striscia di terreno lungo il bordo del viale.
Mi concentro sul test rispondendo alle domande. In tutto sono dieci ma ben elaborate. Il tempo a disposizione a quanto pare è inferiore rispetto agli altri esami svolti nell'ultimo periodo.
Dopo circa mezz'ora, quando ho finito e ricontrollato per bene ogni risposta, mi avvicino al professore lasciando il compito sulla cattedra.
Ovviamente il risultato lo saprò tramite e-mail e dovrò aspettare qualche giorno o settimana prima di potermi rilassare del tutto.
Non sosto oltre in aula. Esco da questa pescando il telefono dalla tasca interna dello zainetto. Qualcuno mi sta chiamando. Rispondo senza controllare dirigendomi verso la stazione più vicina.
«Pronto?»
«Com'è andata?»
Guardo i palazzi, il cielo che sembra tanto vicino ad essi, tutte le nuvole ammassate. Mi giro e ci sono: persone, cartelloni pubblicitari. Il resto: Colori, suoni, voci. È tutto un caos e io sento il bisogno di mettere ogni cosa in ordine. Non mi sento nel posto giusto.
«Dovrò attendere i risultati», faccio una smorfia.«Tu? Che cosa combini?»
«Riunioni estenuanti dove non si conclude quasi mai niente. Adesso mi sono messo comodo e in questi minuti di pausa ho deciso di farmi vivo.»
«Bene perché non so se ne uscirò viva io dopo un altro incontro con mia zia», brontolo scendendo i gradini per raggiungere la metro. «Quindi hai fatto bene a chiamarmi ora.»
«Starai lì per tutto il pomeriggio?»
Ci rifletto su un momento. «No, non credo. Vado a trovarla per pochi minuti. Devo portarle alcune cose che mi ha scritto su una lista. Non posso reggere altri dei suoi attacchi.»
«Dan?»
«Non si è fatto vivo durante le visite ma potrebbe sempre apparire. Conoscendo mia zia ha ancora in serbo qualcosa per me. Me lo sento.»
«Posso presentarmi?»
Rido. «Ti piacerebbe», scherzo.
«In effetti si, così non dovrei avere il pensiero costante che tu sia con un rivale.»
Attendo l'arrivo della metro. «Rivale? Dove siamo, nel medioevo?»
Sento il suo divertimento. «Sono bravo con le armi.»
«Sei anche molto presuntuoso», rispondo convinta.
Ride. «So cosa voglio e so cosa mi fa ingelosire. Ad esempio sapere che questo Dan ha dormito con te dalle elementari.»
«Dormito è un parolone, caro MisterX. Diciamo che è un amico che conosce bene come dormo, come mi muovo, le cazzate che ho fatto nella vita. Praticamente sa tutto di me.»
Pensare a Dan mi fa intristire. Non ci vediamo ormai da troppo tempo. Nessuno dei due ha ancora fatto il primo passo per riappacificarsi. Ognuno vede le parole dell'altro come coltelli affilati piantati sulla schiena. Soprattutto io.
«E questo adesso mi basta per stare in pensiero. Ti avviso, se non esci da lì entro le sette ti vengo a prendere. Non mi importa se ti imbarazzerai nel trovarmi dietro quel cancello o se ti incazzerai quando continuerò a chiamarti, ma tu dovrai raggiungermi.»
Sorrido entrando sul vagone sistemandomi in un angolo. «Sei parecchio carico oggi. Hai dormito bene?»
Immagino il suo modo di guardarmi alzando il sopracciglio, con quegli occhi sempre attenti anche se così diversi. «Dormo sempre bene quando ci sei tu nel letto accanto a me.»
«Adotta un gatto», lo prendo in giro.
«Ne ho già una e sa anche graffiare forte», risponde a tono.
Sorrido guardando fuori dal finestrino. Di tanto in tanto ci vedo il mio riflesso così sereno. «Ah si? Forse la tua gatta dovrebbe affondare gli artigli qualche volta.»
Emette un verso simile alla negazione. «No, so come coccolarla e farla miagolare», ride e anch'io con lui scuotendo la testa. «Adesso devo andare. Tra poco perderò il segnale.»
«Torno al lavoro. Mangia e porta una spessa armatura da tua zia.»
«Tu non stressarti troppo o le tue prestazioni caleranno.»
Ride di gusto e mi rilasso. «Non contarci. Ciao», saluta.
«Ciao.»
Il viaggio in metro va a rilento. Arrivo a casa con venti minuti di ritardo trovando fuori dal cancello, seduto sul bordo del marciapiede, paziente e distratto dal telefono: il fattorino della pizza.
Vedendomi arrivare si mette subito in piedi. «Bambi Stevens?»
Annuisco guardandomi intorno. «Non ho...» guardo il biglietto che mi sta passando.

Come proiettile nel cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora