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Ferma immobile sul portico della casa, controllo il progetto più e più volte elaborato.
Ho preso seriamente il lavoro, iniziato da circa una settimana, dopo avere firmato il contratto ed essermi accertata di non trovare alcun ragno o insetto nei paraggi.
Sono sola. Oggi ho deciso così. Ho bisogno di vedere come vanno le cose e soprattutto devo decidere come procedere con i lavori che, grazie ad alcuni operai bisognosi di una occupazione, sto portando avanti ad un ritmo sostenuto.
Infilo il casco, la tuta, la mascherina entrando in casa. Sistemo la tendina fatta appositamente con il cellophane che pende da un estremo all'altro della parete grazie ad una corda, azionando un particolare ventilatore al suo interno. Serve per asciugare l'umidità sulla parete del salotto, quella che ho deciso di non demolire del tutto. È stato un azzardo, lo so, ma sono positiva.
All'inizio mi stavo scoraggiando. Gli operai, uomini esperti nel settore più di me, mi hanno messa subito in guardia sui rischi, sui materiali da usare e sui costi. Sono stata, in un certo qual senso, costretta a scavare la parete togliendo alcuni strati, anziché buttarla giù come tutte le altre, ormai in attesa di essere dipinte, risalendo all'origine del problema e adesso, sto cercando di salvare un primo pezzo originale di questa casa immensa. Tutto per la mia ostinazione.
Il fatto è che ho adorato sin dal primo istante intravedere i mattoni tra le crepe create dall'umidità. È partita proprio da questo dettaglio la mia idea di salvare la parete e far sì che rimanga nel suo stato originale, visibile all'occhio umano.
Sorrido quando mi accorgo che il mio piano sta funzionando e, spostandomi in cucina, recupero un attrezzo sfogando tutto contro la parete che apro, buco dopo buco, lasciando un muretto per far sì che la cucina arieggi maggiormente. Ma non è solo questo a non farmi chiudere occhio la notte; sto creando su una delle pareti del soggiorno, quella tra due pilastri, un'apertura a forma di occhio, dove ho in mente di inserire un acquario o un semplice vetro con dentro delle piante o delle mensole per poi disporvi sopra le bottiglie di vino.
Ho così tante idee da non riuscire a decidermi per cosa utilizzare esattamente quello spazio, dove prima o poi vi saranno divani e mobili.
Nel frattempo continuo a rompere la parete per creare l'arco partendo da un muretto che possa permettere a questa cucina di liberarsi lasciando entrare un po' di aria in più, così come la luce.
Sento un rumore proveniente dalla strada ma non me ne curo. Passano molte auto in questa zona.
Continuo a scardinare il muro a canticchiare e a segnare sul blocco di appunti ogni nuova idea.
Tolgo il casco, la mascherina e i guanti aprendo la tuta, allacciando le maniche intorno alla vita.
Disegno sul blocco la forma ad isola della cucina. Poi, recuperando il campionario con i colori, scelgo quello adatto ad una cucina in muratura provando le varie tonalità su una porzione della parete già stuccata.
Lo stile della casa, al suo interno, è alquanto rustico. Ma, posso sempre unire questo stile al moderno creando un ambiente accogliente e di buon gusto.
Seduta a terra, tra i giornali e la pellicola a coprire il nuovo pavimento piastrellato con dei mattoni in cotto, dove al centro ho creato una sorta di mosaico sulla quale verrà sistemato un tavolo rettangolare a pochi passi dalla vetrina che, vedo bene sulla parete alle mie spalle, quella dove si trova anche la porta che conduce in giardino e quindi sul retro.
Una parete è tutta interamente di pietra mentre le due più l'arco dovranno essere dipinte.
«Hai già licenziato tutti o sono scappati perché sei insopportabile come capo?»
Sobbalzo. Porto una mano al petto voltandomi di scatto in direzione dell'arco.
Il mio cuore si ferma poco prima di battere all'impazzata prendendo un ritmo estremo.
Non lo vedo da quel giorno. Una settimana e mezzo circa passata ad evitarlo.
Ritrovarlo adesso a pochi passi, mi provoca ancora la stessa sensazione. Quella che ho cercato di placare concentrandomi sul lavoro, sullo studio e sul pagamento finale, per le cure di zia Marin, all'ospedale nella quale è stata ricoverata tempo fa.
Mi trascino dietro i resti di un passato difficile da sopportare. E non posso, io non posso lasciarmi distrarre da un uomo che tenta di sabotare ogni mio piano presentandosi di colpo come una folata di vento.
«Stai facendo i lavori da sola?» chiede ancora smanioso di sapere, guardando la parete e poi le mura in attesa del colore che renda ogni stanza più allegra.
Poso il quaderno alzandomi. Sto ancora tremando come una foglia mossa dalla brezza invernale.
Lo supero senza dire una parola, raggiungendo il soggiorno dopo essermi aggiustata la tuta. Infilandomi dentro la tenda di cellophane spengo il ventilatore, facendo finalmente cessare il frastuono dovuto alla ventola in movimento. In questo spazio, fa particolarmente freddo. Più di quello che sento già addosso dopo avere sentito la sua voce.
È stato come la prima volta quando mi ha chiamato al telefono senza preavviso. Riesce a tendermi delle trappole. Proprio per questo, sto cercando in tutti i modi di sfuggirgli.
«Ho dato loro una giornata libera. Oggi è sabato», rispondo freddamente recuperando un livello per misurare se è venuto bene il muretto.
Travis passeggia da una parte all'altra osservando ogni novità. Si sofferma sulla parete scavata ad occhio sfiorando poi i pilastri di mattoni in fase di asciugatura. Non dice quello che pensa. Tiene solo per sé i commenti.
«E tu non hai preso una giornata libera visto che è sabato?»
Alzo le spalle incastrando la matita sull'orecchio. «Non ho impegni a parte lavorare.»
Sorrido soddisfatta nel notare la mia precisione maniacale.
Travis sparisce da qualche parte per circa tre minuti. Quando ricompare indossa anche lui una tuta come la mia.
Cerco di capire. «Neanche io ho impegni oggi. Posso aiutare in qualche modo?»
Valuto la sua proposta. Vuole aiutarmi o ha qualcosa in mente?
Decido di scoprirlo recuperando il colore e un rullo. Glielo passo. «Al piano di sopra, seconda stanza a sinistra. Lì c'è bisogno di imbiancare la parete. Quindi si, i tuoi servigi sono bene accetti», esclamo.
Non si tira indietro. Afferra il rullo e il contenitore con il colore bianco avviandosi verso la scala dove, per proteggerla mentre il cemento si asciuga, ho fatto costruire una rampa di legno.
Avere Travis qui, a pochi passi, mi deconcentra e non poco.
Oggi sono venuta in questo posto per avere un momento tutto mio.
Ho passato una settimana piena. Tra lavoro, studio e le continue visite fatte a zia Marin, non ho avuto il tempo di fermarmi e rilassarmi. Ho anche continuato a creare dei video sul mio blog che mi hanno fruttato abbastanza denaro da poterlo aggiungere al gruzzolo destinato al conto per l'ospedale.
Quando mi sono svegliata questa mattina, ho sentito il bisogno di allontanarmi da tutto. Ho anche percepito un brutto senso di insoddisfazione.
Per questa ragione ho deciso di dare una giornata libera agli operai e di trovarmi tutta sola, lontana da casa e dalle continue pressioni di Dan, sempre pronto ad assecondare i capricci di zia Marin, convinta del fatto che le sto nascondendo qualcosa di importante.
Forse la cosa peggiore è che mi sono abituata a vivere privandomi sempre di qualcosa. Mi sono adattata proprio come quelle persone che hanno perso un arto.
Quando mi alzo al mattino, sopravvivo costantemente in quell'aria priva di colore e vado avanti così per tutto il giorno, forse per tutta la vita. Ma non sono soddisfatta. Sento che è così quando mi ritrovo a ridere, a sorridere, ad arrabbiarmi ad imbarazzarmi.
Mi sono accontentata di poco e continuo a fingere che mi basti, che sia sufficiente per andare avanti.
Scrollando la testa, concentrandomi, torno al mio lavoro. Cerco un altro rullo e aperto il contenitore di latta pieno di colore bianco, mi dedico alle pareti e al tetto. Il fatto che il pavimento sia ancora rivestito da giornali e pellicola mi aiuta accelerando i tempi.
Accendo un po' di musica tinteggiando per bene le pareti, facendo attenzione agli angoli.
La musica si interrompe. Mi volto e lui si sta avvicinando. Non ha una sola macchia di colore sulla tuta. Sotto indossa un abbigliamento casual. Sta proprio bene con tutto. I suoi capelli castani sono scompigliati e la maschera color carne quasi non si nota e nasconde bene le cicatrici.
Mi chiedo se sia fastidioso portarla continuamente.
«Mi stai evitando?» Chiede aiutandomi.
Mordo l'interno guancia. «No, sto solo lavorando.»
Fingendo indifferenza mi sposto in soggiorno dove tiro la tenda creata con il cellophane. Sposto il ventilatore toccando il muro. «Perfetto», dico tra me e me soddisfatta, spruzzandovi sopra una sostanza che andrà a creare una patina. Questa servirà per mantenere i mattoni sani e non soggetti alle intemperie.
«Io dico di sì», mi raggiunge.
«No, oggi devo inviarti una relazione sui lavori.»
«Cazzate!» sbotta. «Non hai risposto alle mie e-mail, neanche alle chiamate. C'è qualcosa che non va?»
Guardo il muro. «Prendo seriamente le promesse e cerco sempre di mantenerle. Inoltre, ho dovuto giostrarmi tra casa e lavoro. Ho una vita oltre a questo. Zia Marin ha persino preteso le mie visite serali. Tra poche ore dovrò tornare da lei che, a quanto pare mi sta facendo tenere d'occhio dal mio amico, incapace di dirle di no.»
Parlo a vanvera e con un certo grado di frustrazione. Recuperando la scala mi sposto nuovamente in cucina per dipingere il tetto.
Travis posa un piede sul primo gradino della scala per tenerla ferma mentre mi arrampico senza neanche riflettere, tanto sono distratta e nervosa.
«Prendi così seriamente il tuo lavoro a tal punto da ignorare i messaggi del tuo capo? Mi stupisci!» esclama con sarcasmo e una punta di rimprovero.
Lo guardo male. «Il mio capo otterrà il suo stramaledetto riassunto dei lavori settimanali entro fine giornata. Inoltre, cito testuali parole: non siamo amici.»
Strizza la palpebra mentre l'altra fatica a muoversi. «No», mormora. «A quanto pare no. Voglio che chiami la tua squadra al completo. La prossima settimana voglio conoscere tutti i miei dipendenti e i loro curriculum», dice brusco togliendo i guanti, allontanandosi dalla scala più che nervoso, facendo attenzione a non mostrare niente della sua mano.
Lo osservo mentre si avvicina ai miei appunti leggendoli con attenzione.
Scendo in fretta raggiungendolo. Gli strappo dalle mani il blocco. «Adesso ti comporterai da capo cattivo? Che c'è, mi terrai persino il broncio?» lo stuzzico usando un tono provocatorio.
Finalmente mi guarda e i suoi occhi sono freddi. «No. Mi comporterò da stronzo. Sembra che a te piaccia di più.»
Detto ciò si allontana scuotendo ripetutamente la testa borbottando qualcosa.
Faccio una smorfia. Una volta tanto decido di frenare l'orgoglio affrontando il problema. Tolgo i guanti e nel frattempo corro da lui. «Ok, è vero!» alzo il tono per farmi sentire.
Si ferma voltandosi. «E per quale assurda ragione mi stai evitando?» sbraita. La sua voce rimbomba diffondendosi come un tuono.
«Perché mi hai confusa e perché zia Marin mi sta con il fiato sul collo facendomi controllare. Perché mi sento braccata», esplodo gesticolando. Non ne sono neanche sicura.
Ci troviamo al centro del soggiorno. Entrambi nervosi. Entrambi arrabbiati e delusi l'uno dal comportamento dell'altra.
Spalanca un solo occhio, l'altro si muove dopo pochi secondi. «Io... ho confuso te?» mi guarda proprio come se lo avessi appena colpito in faccia facendogli un gran male. Sbuffa poi dal naso incrociando le braccia. «Incredibile!» urla scuotendo ripetutamente la testa. «Sei semplicemente incredibile!» prova ad andarsene con il viso paonazzo.
Questo suo gesto smuove dentro di me qualcosa e scatto verso di lui. Senza riflettere lo fermo posando la mano sul suo braccio.
Si volta in fretta come un serpente pronto a mordere, scansandosi rabbioso. Provo come un vuoto d'aria. Un po' come quando salti da un posto abbastanza pericoloso. Il mio stomaco si contrae. Indietreggio inciampando sui miei passi. Per poco non cado rovinando a terra. I suoi riflessi sono però come quelli di un falco e mi afferra al volo stringendo i palmi sulle mie braccia tenendomi sollevata, ferma.
Il mio cuore, ancora una volta, prende a battere forsennato nel petto. Sbatte irruentemente contro la gabbia toracica. Incapace di parlare, finendo così per balbettare come una matricola sotto effetto di una qualche sostanza, continuo a fissarlo negli occhi mentre lui rimane in bilico, senza il coraggio di lasciarmi andare.
«Mi dispiace», balbetta di colpo. «Non mi piace quando mi toccano senza darmi un preavviso», spiega in parte sentendosi in colpa per avermi spaventata.
Prova a lasciarmi andare ma io sono ancora impietrita e nella stessa posizione instabile di prima. Ciò gli impedisce di staccarsi.
Deglutisco a fatica. «No, dispiace a me. Non lo sapevo. Io... volevo solo fermarti», balbetto riprendendo lentamente il controllo del mio corpo.
Drizzo le spalle e lui mi lascia andare assicurandosi che riesca a reggermi da sola in piedi. Lo fa con una lentezza impressionante. Un passo, poi un altro e si trova a circa mezzo metro di distanza.
Sento ancora sulle braccia l'impronta della sua presa ferrea. Le sfioro con le mie mani, tenendo ancora un po' per me il suo calore.
Porto una ciocca dietro l'orecchio. «Ti ho evitato perché riesci a fare uscire un lato di me che ho tenuto fermo per tanto tempo in un angolo. Ti ho evitato perché non volevo sentirmi sotto pressione. Perché dovevo avere almeno una cosa sotto controllo», sussurro alla fine.
Passa una mano fra i capelli. «Lo so. È per questo che ho deciso di stuzzicarti. Nelle e-mail ti poni in modo diverso, ma il tuo non rispondermi mi ha in qualche modo fatto incazzare.»
«Ti sei sentito messo da parte. Ti sei sentito ignorato dell'unica persona che si è dimostrata sincera nei tuoi confronti e non lo hai sopportato», concludo per lui.
Annuisce appoggiandosi al pilastro. «Sembra assurdo ma è così. E non mi capitava da tanto tempo.»
Abbassa lo sguardo sul pavimento perdendosi. «Ma adesso non sentirti in colpa», mormora.
«Non mi sento in colpa. L'ho fatto perché ho avuto le mie ragioni», rispondo acida.
«Allora adesso torna pure al tuo lavoro», dice brusco lasciandomi sola.
E lo so, so che rovino sempre tutto. Ma la paura mi fa perdere la ragione. E allora parlo senza riflettere, salto subito a conclusioni affrettate per non farmi ferire, parlo, urlo senza pensare all'effetto che le mie parole potrebbero avere sulle persone. Continuo a tenere tutti a debita distanza perché io non so più come si controlla un cuore spezzato a metà.
Inspiro gonfiando il petto. Attendo uno, due, tre secondi poi lo seguo.
Si sposta sul retro addentrandosi nel labirinto. Cammino tra le siepi abbracciata, circondata dall'odore intenso di terriccio, muschio e fiori, fino a raggiungere il roseto dove lo trovo impegnato a spruzzare qualcosa sulle rose. Si muove con una calma degna di un aguzzino.
«Mi stupisce che tu sia ancora qui dopo una settimana. Insomma, non sopporti la mia presenza, te ne stai sempre sulla difensiva poi hai come un momento di lucidità e mi tratti in modo dolce. Ancora di più mi stupisce questo, il tuo atteggiamento incoerente. Non riesco proprio a capirti. Hai paura di qualcosa...»
Evito di toccare le rose appoggiandomi al tavolo. «Perché riesci a mantenere il controllo?»
«Perché se reagisco male lascio uscire una parte di me che ho domato e tentato di fare fuori parecchie volte. Quella insopportabile, fredda e distaccata. Quella crudele...»
Annusa una rosa tagliando alcune foglie che getta sul terreno. Toglie poi quelle raggrinzire ammucchiandole fino a formare un mazzo che lega con uno spago.
«E ti preoccupa che possa uscire fuori?»
Finalmente mi guarda. «Ogni giorno.»
«E cosa fai esattamente?»
Mi passa le forbici. «Trovo delle distrazioni, proprio come te.»
Poso le forbici passandogli un annaffiatoio pieno di acqua.
«E funziona?»
«Mi hai appena chiesto come faccio a mantenere il controllo...»
Mi avvicino a lui poi mi ricordo che non è Dan, che non reagisce come una normalissima persona alle dimostrazioni e mi blocco stringendo i palmi sul bordo del tavolo, fino a sbiancarmi le nocche.
«Che altro fai per mantenere il controllo?»
Mi raggiunge e drizzo le spalle. È così vicino da percepire forte, come un pugno sul naso, il suo profumo.
Posa l'annaffiatoio sul tavolo facendo di proposito rumore per provocarmi la reazione che ho nell'immediato. Infatti: sobbalzo.
«Vuoi una lista?»
Alzo le spalle. «Se vuoi...»
Inumidisce le labbra. «Giardinaggio, palestra, lavoro...»
«Qualcosa che non so già?»
Si avvicina ulteriormente. La sua mano avanza verso la mia guancia. Mi sfiora la pelle e quando il tessuto del guanto mi attraversa, mi regala una scossa dietro l'altra che si diffonde ovunque sul mio corpo in un formicolio piacevole, fino a depositarsi tutto sulle guance sotto forma di calore. Schiudo le labbra ammirando le sue circondate da una breve spruzzata di barba. Non mi scanso.
«Mi piace fare incazzare una ragazza a tratti fragile, a tratti feroce e spietata come una pantera», sussurra.
Le mie labbra si incurvano in un sorriso. «Altro?»
Piega la testa di lato studiandomi. «Vuoi sapere i miei hobby?»
Annuisco con un breve cenno della testa e il labbro tra i denti. Lo sto guardando con attenzione, bramosa di ottenere nuove informazioni su di lui.
«Guardare film, leggere, andare al poligono...»
Sgrano gli occhi. «Hai detto... poligono?»
Alza e abbassa la testa. Un movimento che, intensifica la sensazione sullo stomaco che si sprigiona in uno sfarfallio fastidioso quando per poco non mi tocca. «Si, ci vado di sera quando non c'è nessuno.»
«Fai tutto di sera e di nascosto?»
«Per oggi abbiamo terminato le domande a disposizione», sussurra alzando il labbro in un lieve ghigno staccandosi da me.
Lascio uscire tutto il fiato toccandomi la guancia in fiamme. Lo seguo in silenzio. Camminiamo verso la casa che, adesso inizia ad assumere un aspetto più sano.
Travis guarda le pareti ricostruite con una certa soddisfazione. Fermandosi alla sua auto lasciata sul viale, apre la portiera del passeggero recuperando qualcosa dal dal cassetto del cruscotto.
Mi porge poi una busta.
«Che cos'è? Mi hai scritto una lettera?»
«Aprila», mi incita.
Strappo piano la busta tirando fuori un foglio ripiegato. Spalanco gli occhi e la bocca. «Questo è...» alzo il viso e lui sta già confermando.
«Il tuo primo stipendio. Ho visto il lavoro che hai fatto e lo meriti, davvero.»
Scuoto la testa. «Io non... posso accettarli», provo a restituirgli l'assegno, il più alto che io abbia mai visto in vita mia.
«I tuoi operai hanno accettato di buon grado. In quanto suo capo anche tu dovresti», mi sorride. «Hai fatto davvero un ottimo lavoro. Sono venuto personalmente perché Nan continuava a parlare della tua bravura e a chiedermi di raggiungere questo posto e controllare. Non immaginavo... questo...» indica la casa.
Sono lusingata e imbarazzata. Ecco perché Nan veniva spesso portando il pranzo. Stava controllando per andare a riferire tutto al suo capo, cercando al contempo di farmi raggiungere da lui.
Che donna astuta!
«Ma sono parecchi soldi...»
«Non sono neanche la metà di quelli che hai chiesto per la tua... com'è che la chiami? Purezza?»
Lo spingo e ride. «Non sei divertente!»
«Accettali. La prossima volta non sarò così clemente con te», torna serio.
Picchio la busta sul palmo. «Ah no?» mi avvicino.
Alza il mento. «No, negativo!»
Lo guardo da sotto le ciglia. «Sono sicura di potere trovare il modo di farti sciogliere come un cubetto di ghiaccio al sole», la mia mano si posa sul suo petto ma lui questa volta non ha nessuna brusca reazione. Non si scansa. Non mi rifiuta.
Osserva la mia mano aperta e delicata sulla tuta a fare da scudo al suo petto. Chiudo gli occhi percependo vividi i suoi battiti. Un suono che mi si riverbera addosso come un eco potente.
Fa un passo avanti e sento il suo fiato caldo sulla pelle. Percepisco com'è una vampata di calore diffondersi in posti nascosti del mio corpo.
«Che cosa stai facendo?» chiede piano, senza fiato.
Apro gli occhi ritrovando i suoi ad intrappolarmi. «Non sei un uomo di latta, Trev», picchio il palmo piano sul suo petto allontanandomi, tornando in casa dove avvolta dall'aria fresca mista a colore e impregnante che si respira, continuo il mio lavoro.
Travis mi raggiunge. «Lo prendo come un complimento», mi sussurra all'orecchio.
«Non abituarti», gli lancio un rullo colpendolo.
Spalanco la bocca tappandola con le mani. «Ohhh», sorrido poi rido.
Lui guarda incredulo la macchina bianca sulla tuta. Prende il rullo avvicinandosi.
«No!» lo minaccio. «Non provarci nemmeno!» scappo.
Mi sbarra la strada passandolo sulla mia guancia. Lo spingo. «L'hai fatto davvero?» Chiedo incredula e divertita sentendo la sostanza viscida scivolare dalla mia pelle.
«Non è poi così diverso dal trucco», ghigna.
Lo guardo male togliendo la sostanza fredda con la manica e premendo la mano sul colore, avvicinandomi mentre tenta di bloccarmi, lascio la mia impronta sulla sua guancia; quella non intaccata dai segni.
Le sue labbra si incurvano fino a formare una "o". «Hai appena sporcato il viso al tuo capo?»
Rido. «Tu hai sporcato quello della tua dipendente», metto le mani dietro la schiena prima di ricevere una sferzata di colore che non riesco ad evitare. Sono incredula. «Fai sul serio?» guardo la tuta dalla quale cola il liquido bianco.
Ride. «Non perdo mai, ricordi?»
«Hai appena dichiarato guerra?»
Gli lancio la spugna addosso e lui para il colpo avvicinandosi. «Si e sto per farti fare un bel bagno dentro il colore.»
Cerco di capire che cosa intende, ma afferrandomi per le ginocchia mi solleva caricandomi in spalla con una mossa impercettibile. Come se fossi una piuma, mi porta verso il contenitore pieno di colore.
«No, non farlo!» strillo divertita e stupita dal suo comportamento.
«Che cosa me lo impedirà?»
«Dico sul serio, Trev. Se lo fai...»
Sentiamo schiarirsi una voce. Travis mi rimette subito a terra. Quando poso i piedi sul giornale, barcollo lievemente guardando stordita la figura comparsa sulla soglia.
Nan, appare sorpresa e allo stesso tempo contiene il sorriso guardando il suo capo. Non sa proprio come comportarsi dinanzi alla scena.
Indossa un completo elegante blu scuro. Niente divisa da lavoro, oggi. Somiglia tanto ad una donna d'affari.
«Mi scusi signore», fatica a trattenersi.
Scoppio a ridere. «Non posso crederci», esclamo nascondendo il viso con una mano. «Ti ha appena beccato a giocare con il colore delle pareti con una dipendente. Sei nei guai», cantileno per provocarlo.
Nan nasconde il sorriso. «Bambi», mi saluta in modo dolce. «Come stai?»
«Nan», ricambio. «Adesso decisamente meglio. Tu?»
«Una meraviglia.»
Travis si schiarisce la gola.
Intuendo il suo messaggio giro sui tacchi. «Vi lascio soli», dico dandogli una pacca sulla spalla superando Nan. Mi volto e mimo: «perdente!» facendogli la linguaccia.
Lui nasconde il divertimento e guardando Nan quasi in imbarazzo le rivolge tutta la sua attenzione. «Come mai sei qui?» Chiede.
In cucina noto il casino provocato dal nostro gioco improvvisato. Metto in ordine origliando la conversazione e di tanto in tanto, in modo furtivo, li osservo per non sentirmi messa da parte o del tutto ignorata.
«Non sapevo come contattarla. Ha dimenticato il telefono sul ripiano della cucina e...»
«L'ho lasciato di proposito a casa per non essere disturbato.»
«Ah, io non lo sapevo. Solitamente mi avvisa. Mi dispiace signore...»
«Dovevo avvertirti. Che succede?»
«Hanno chiamato dall'ufficio. Volevano il suo parere e la sua firma per procedere. Mi hanno detto che era urgente, così quando è arrivato in casa il fascicolo dopo l'e-mail, mi sono permessa di portarlo qui. Non pensavo...»
«Non hai disturbato. E smetti di guardarmi come se fossi impazzito! Stavo facendo quello che hai visto. Fammi vedere quel dannato progetto e poi riferisci a chiunque che per oggi non sarò disponibile.»
«Si, signore!»
Sento il ticchettio dei tacchi di Nan. Va fuori a recuperare qualcosa. Quando torna da lui gli mostra un foglio. Travis lo analizza prendendo la penna che lei gli sta porgendo, indugia ma non firma. «Digli che non ne vale la pena.»
Nan spalanca gli occhi. «Ma...»
«Hai sentito bene. È una follia. Ci faranno perdere troppi soldi che potremmo usare per altro.»
Nan abbassa gli occhi sul progetto leggendolo. «Come ho fatto a non pensarci?»
Si sorridono complici. «Le auguro una buona giornata.»
Mi avvicino e lei mi rivolge la sua attenzione. «Bambi», mi saluta.
«Nan», rispondo mentre se ne va.
Ormai sembra la prassi tra di noi.
Rimasti soli mi volto e lui è così vicino da farmi strillare. «Dio, smettila di essere così silenzioso!»
Ride. «Ti faccio paura?»
«Quando fai così? No, ma mi provoca una sensazione molto simile alla paura e tu lo sai benissimo quindi non fare il finto tonto.»
Alza gli occhi al cielo. «Va bene», mi rassicura. Toglie la tuta. «Hai fame?»
«Un po'.»
«Bene, adesso andiamo a mangiare», avvicinandosi mi tira giù la zip della tuta regalandomi un nuovo brivido. «Non pensare troppo quando sei con me devi rischiare, ricordi?»
Annuisco. «Ok», anche se insicura tolgo la tuta. Recupero le mie cose seguendolo in auto.
Apro la bocca per parlare ma lui mi sta già rispondendo: «Non ti dirò dove andiamo a mangiare. Sappi solo che non mi piace mostrarmi in pubblico in pieno giorno. Intesi?»
Allaccio la cintura. «Ricevuto. E per la cronaca non mi imbarazzerebbe mostrarmi con te in giro. Ma visto che ti senti a disagio, accetterò senza discutere. Anche perché mi hai invitata a pranzo tu.»
Inserisce la retromarcia. «Questo significa che per oggi decido io? Com'è quel gioco che fanno sui social? Ah, i miei follower controllano la mia vita per un giorno.»
«No, tu non controllerai la mia vita per un giorno, perché non sei neanche un mio amico», replico mettendomi comoda.
Sorride scuotendo la testa. «Sai che cosa mi piace di te?»
Attendo curiosa. «La tua tenacia. Sei incredibile, ti difendi anche bene.»
«Acquisto "punti amicizia"?»
Ride. «Qualcosa del genere.»
Imbocchiamo la strada che conduce a destra superato un incrocio.
Il silenzio che si crea dentro l'abitacolo non è imbarazzante. Nonostante le molteplici domande che continuano a circolarmi dentro la testa tengo a freno la lingua. Mi volto e lui appare a suo agio, rilassato.
«Ti piace la mia presenza perché so tenere a freno la curiosità?»
Rallenta stringendo la presa sul volante fino a fermarsi ad un semaforo dietro una lunga fila di auto, motociclisti e pedoni che corrono sulle strisce.
Adesso che mi guardò bene intorno e dentro l'abitacolo, noto che ci troviamo in un'auto diversa da quella d'epoca usata dal Mitch. Questa è enorme, dai vetri oscurati. Probabilmente è la sua auto, quella per nasconderlo al mondo.
Apro di proposito il finestrino nonostante fuori si congeli.
Se gli dà fastidio, non lo fa notare. «Non userei questi termini.»
«Allora rispondimi sincero: perché da quando ci siamo incontrati tenti costantemente di stare con me se non sei il tipo da "apparizioni" in pubblico?»
Inserisce la freccia svoltando a destra. In questo quartiere vi sono palazzi alti a fare ombra praticamente ovunque. È opprimente. Non potrei mai abitare in un posto così spento, rifletto mentre ci allontaniamo.
«Perché mi piace la tua compagnia.»
«Mi sembra ovvio», sussurro nascondendo il sorriso, guardando fuori dal finestrino.
«Tu non mi giudichi. Non mi fai le domande sbagliate, anche se spesso tenti di raggirarmi e io per poco non ci casco. Non sei mai finta, non segui un copione. Sei sincera e di persone come te ce ne sono poche a questo mondo. E si, prendilo come un complimento.»
Si volta guardandomi in modo complice. Sulle mie guance si è appena fermato un flusso di sangue partito dal cuore in tumulto.
Sento ancora il suo sguardo, quando mi giro dall'altra parte ad osservare i palazzi, la strada piena di gente, auto in doppia fila, e sono distratta dal calore che inonda le mie guance. Io lo sento che mi guarda. Con la coda dell'occhio lo scruto e, non vedo altro che il suo bellissimo sorriso. Uno dei migliori e sinceri che mi abbiano mai rivolto.
«Ti ho fatto arrossire?»
Nascondo il viso con la sciarpa. «Un po'», ammetto. Sbircio e lui sorride ancora in quel modo. Sembra così sereno da trasmettere anche a me una piacevole sensazione di leggerezza.
«Ok, per evitarlo applica il tuo filtro.»
Ricorda sempre quello che dico. «Niente complimenti costruiti. Odio quando si dice qualcosa perché è necessario farlo a causa della situazione.»
«Altro che devo evitare?»
«Di portare quella stupida maschera altrimenti sarò costretta a portarne una anch'io per non sentirmi diversa.»
Ride. Il suo petto scosso. «È la cosa più assurda che io abbia mai sentito. È così che ti senti?»
Alzo una spalla appoggiando per pochi istanti la guancia. «Non ne hai bisogno ma se ci farà diventare amici ne indosserò una anch'io.»
Si ferma nel parcheggio sotterraneo di un palazzo diverso dal suo. Lo stile però è quasi identico.
Prima di aprire la portiera dell'auto si gira. «Non siamo ancora amici quindi dovrai comprare una maschera.»
«Pensi che riusciremo ad essere amici un giorno?»
Ci riflette. «Sembra tanto che io e te siamo incompatibili. Forse soffriamo di un disturbo diverso ma allo stesso tempo siamo due casi disperati che ne formano uno solo.»
«Intendi dire in modo contorto che per noi c'è una possibilità di riuscita?»
«Qualcosa del genere», mormora.
Accade questo quando con il passare degli anni cresci: ti rendi conto del fatto che ci sono legami destinati a spezzarsi per sempre e allo stesso tempo, altri, pronti a formarsi e ad essere più resistenti. Perché siamo cuori feriti in certa di un filo ingarbugliato ma resistente.
Non capisco se sta scherzando o se è serio. Mi apre la portiera e scendo dall'auto seguendolo dentro l'ascensore che si trova a pochi metri di distanza. Abbassa il viso quando insieme a noi entrano altre persone.
Mi sistemo davanti a lui e coraggiosamente, non calcolando una sua possibile reazione negativa, afferrandogli i polsi lo obbligo ad abbracciarmi. In questo modo i miei capelli legati nasconderanno il suo viso.
Non so che cosa sta pensando o provando ma so cosa mi sta provocando dentro. È un mare tempestoso in grado di travolgermi con le suo onde alte.
Mi adagio al suo petto osservando le persone che animano l'interno dell'ascensore con il loro chiacchiericcio. Qualcuno curioso ci osserva in modo discreto.
Travis abbassa il viso. Sento il suo fiato caldo e piego la testa esponendo la gola.
«Un punto amicizia per te», cantilena in un soffio.
Sorrido guardandolo e i suoi occhi scavano una voragine nella mia anima. «Raccolgo i bollini fedeltà, così prima o poi ti fiderai di me a tal punto da togliere la maschera.»
Sulla guancia gli si forma quella fossetta nascosta. «Vedremo se riuscirai a raggiungere il premio fedeltà. Ancora ne hai di strada da fare.»
Stringe le braccia intorno alla mia vita quando l'ascensore si riempie ulteriormente. Entrano dei ragazzi, una coppia di anziani con il loro piccolo cane tremolante.
La mia mano si posa sulla sua. Il pollice ad accarezzare la porzione libera di pelle liscia.
«Proprio oggi doveva esserci così tanta gente», lo sento brontolare.
Noto il numero del piano vicinissimo a quello scelto da lui quando siamo saliti in ascensore. I suoi occhi sono fissi su quel numero. Quando diventa verde, dal rosso iniziale, mi spinge verso le porte.
Seguo il suo ritmo e in pochi e semplici passi siamo fuori dall'ascensore dove lo vedo riprendere fiato.
Drizza le spalle diventando ai miei occhi più alto di prima e con compostezza estrae una chiave aprendo la porta di uno dei tre appartamenti presenti nel pianerottolo in cui ci troviamo.
Mi guarda.
Il mio problema sono i suoi occhi maledetti. Ha quello sguardo in grado di lasciarmi senza aria, ogni volta che mi scivola addosso anche solo per sbaglio, per distrazione sento il terreno aprirsi. L'impatto è letale. I suoi sono occhi immensi. Occhi che rubano un pezzo alla volta della mia anima trascinandola chissà dove. E io lo so, so che bisogna fare attenzione a certi sguardi. Perché ci sono occhi che fanno tremare il cuore. Ci sono occhi che ti fanno sentire di nuovo viva.
«Dimenticavo: ti va di pranzare con me?»
Rido. «Sei proprio un idiota!»
Mi fa cenno di seguirlo dentro più che divertito e così faccio.
Possiamo fare finta di essere forti. Possiamo affermare che niente ci importi, neanche essere felici. Ma la verità è che la felicità spaventa. Crediamo di non meritarla. Ci assale l'ansia quando tutto sta andando per il verso giusto perché pensiamo che dietro l'angolo quasi sempre ci attende una fregatura. Gestiamo meglio le cose negative, un po' come per il dolore. Forse perché la felicità è come quel salto nel vuoto. Spaventa così tanto da farti arretrare o persino cadere.
Mi sono promessa tante cose in questi anni. Che sarei stata forte. Che non avrei più mostrato il mio dolore. Che non mi sarei più illusa. E cosa più importante, ho promesso a me stessa di non affezionarmi più. Ma, evidentemente, non posso tenere sotto controllo un cuore che sta già cercando il modo di liberarsi dalle catene alla quale l'ho legato.

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