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Si ha sempre l'idea di essere nati nell'anno sbagliato, di essersi trovati nell'epoca sbagliata, nel periodo sbagliato. Si ha sempre l'idea che la vita degli altri sia più semplice, senza problemi, senza paure, senza dolore. Ma per quanto ci affanniamo a capire il segreto della felicità, prima o poi andiamo a sbattere contro quei momenti che tolgono il fiato, che spingono a terra, che schiacciano e fanno male.
«Signorina Stevens, posso parlare un momento con lei?»
Il dottore della clinica, un tipo alquanto dolce simile ad uno zio, vedendomi arrivare, mi ferma facendomi entrare nel suo ufficio con uno sguardo serio. Direi quasi di avergli visto una ruga spuntare sul viso pieno di segni del tempo sotto la lieve barba curata.
L'ufficio è uno spazio alquanto ristretto, asettico, ordinato. Questi i primi aggettivi che mi vengono in mente quando ci metto piede accomodandomi sulla poltrona beige scomoda e stretta. «Che cosa succede?» Chiedo sentendomi subito in ansia. Non mi è piaciuta la sua espressione quindi vado dritta al dunque. Meglio strappare velocemente il cerotto, continuo a ripetermi controllando la porta e i secondi passati seguendo le lancette dell'orologio rotondo appeso alla parete alla mia destra.
«Devo essere sincero con lei», inizia togliendosi gli occhiali per pulirli, prendendo una piccola pezza dal cofanetto che tira fuori dal cassetto della scrivania in stile moderno dietro la quale si è appena seduto a suo agio. Il camice sembra di una taglia più grande per la sua mole. «Stiamo facendo il possibile per la signora Marin ma... attualmente il nostro aiuto si sta rivelando inefficace. Soprattutto perché la signora si sta dimostrando ostile nei confronti della cura», rimette gli occhiali guardandomi attentamente con i suoi occhietti piccoli.
«Che cosa mi sta consigliando di fare esattamente?»
«Starle vicino. La signora Marin è tenace ma... abbiamo notato uno strano comportamento da parte sua.»
Le viscere mi si strizzano. Sento proprio uno spasmo. «Ovvero?»
«Sembra che lei voglia morire», dice a bruciapelo. Come se io fossi a conoscenza di tutto. «Anzi, ne abbiamo avuto la conferma.»
Sento una fitta al petto, il mondo inclinarsi. Non mi abituerò mai a questo. Conosco il pensiero di zia Marin, il modo in cui agisce e so esattamente dove sembra essere ricaduta. «Ha sofferto di depressione», dico balbettando. «Potrebbe essere ripiombata in questo stadio», provo a darmi da sola una spiegazione mentre dentro di me iniziano a scattare molteplici campanelli d'allarme. Mi agito interiormente trattenendo il fiato. Conto persino per non perdermi. Per non andare ancora nel panico.
Ultimamente mi è facile cadere nel baratro delle mie più profonde paure ed incertezze ed è difficile uscirne.
«Questo ci è stato riferito dalla signora quando le abbiamo fatto delle domande. Ascolti, se nota un comportamento strano...»
«È la seconda volta che dice questa parola. Che cosa ha fatto esattamente?» Non resisto all'impulso. Ho bisogno di sapere, subito. «Lei stai bene?»
Il dottore capisce il mio bisogno. Si affretta a spiegarmi come stanno davvero le cose. «La notte scorsa ha ingerito più di una pillola. Le ha nascoste sotto il cuscino. Siamo stati tempestivi grazie ai continui controlli. Non voglio metterla in allarme o continuare nel dettaglio perché sono sicuro lei possa capire quello che intendo dire e cosa questo significhi.»
Mi sta guardando intensamente. Le mie dita si stringono sui braccioli della poltrona. Sento il mondo crollarmi addosso, farsi indistinto. Respiro a fatica, il petto schiacciarsi sempre di più. Sento improvvisamente freddo. Non è di certo un freddo causato dal tempo là fuori. È un freddo che si insinua dentro di colpo, raggiungendo le ossa. Un freddo dettato dalle parole non dette, dalle frasi lasciate a metà, dai sentimenti, dalla delusione, dal senso di vuoto, di abbandono, dal dolore. Sento improvvisamente freddo. Fa male. Fa tanto, tanto male.
Il dottore si avvicina tempestivamente aiutandomi. «Respiri lentamente, così...»
A poco a poco, la nebbia si allontana e torno al presente, dentro questa stanza che puzza di disinfettante. Arriva infatti alle mie narici insistentemente facendo salire dentro una certa nausea. Sono di nuovo qui, in questo luogo in cui si muore. In un modo o in un altro si muore.
«Va meglio?» mi offre un bicchiere d'acqua.
Annuisco. «Si, mi scusi. Ultimamente mi capita spesso.»
«Lei è sempre così tanto sottoposta a situazioni di stress? I suoi genitori o i figli di sua zia... insomma un parente stretto non può occuparsi di lei?»
Nego. «Siamo solo io e lei. Non posso lasciarla proprio adesso», abbasso gli occhi martoriando le dita, sfiorando la collana con la foto all'interno di Nic e quella dei miei genitori che ho fatto aggiungere di recente. Trovo un certo conforto nel gesto, come se in qualche modo riuscissero ad infondermi coraggio, soprattutto la forza.
«Mi dica solo quanto è grave quello che ha fatto», stringo le mani dell'uomo dopo avere posato il bicchiere vuoto sulla scrivania.
«Abbastanza da essere costretti a farle una lavanda gastrica e nelle sue condizioni non è di certo la cosa migliore da fare», dice sincero. «Infatti la troverà pallida e magra.»
Lascio la presa alzandomi. «Mi occuperò io di lei. Le parlerò e deciderò quale sia la soluzione migliore. Ovviamente la parte medica la lascerò a lei e a chiunque sia intenzionato a prendersi carico di ogni suo raptus o momento di tristezza», sto gesticolando ampiamente e nervosamente. Sto evitando di immaginare qualsiasi tipo di scenario.
Il dottore annuisce intuendo il percorso dei miei pensieri. «Le affiancheremo uno psicologo e avrà anche un infermiere o un supervisore a farle da guardia», mi rassicura. «Saremo discreti, ovviamente.»
«Farò del mio meglio per essere qui a farle compagnia», lo avverto a mia volta. «Non succederà più.»
«Si, ma non si dimentichi di vivere. Non può salvare chi vuole morire e non vuole essere salvato, signorina», dice quando sono ormai alla porta.
Annuisco. «Grazie dottore», esco dall'ufficio appoggiandomi alla parete e lentamente scivolo a terra portando le ginocchia al petto scosso dall'affanno.
Vedo tutto muoversi ma io non riesco a farlo. Il tempo scorre lento e ogni cosa si appanna alla mia vista. Solo quando mi riprendo, ricomponendomi, raggiungo la sua stanza facendo finta di niente.
Busso e senza attendere risposta entro trovandola ancora a letto, in pigiama. Sta fissando fuori dalla finestra e ha una flebo attaccata. Gira il viso. I suoi occhi sono spenti, inespressivi. E non c'è cosa peggiore che vedere le persone a cui vuoi tanto bene svanire lentamente. Vedere la loro vita sfaldarsi e non avere il potere di fermare tutto.
Ripiombo nel passato, quando è successo la prima volta. Quando l'ho trovata stesa sul pavimento del bagno priva di sensi. Tutto si riduce a quei momenti che hanno segnato la mia vita. Da allora si è ripresa solo per non lasciarmi ad una casa famiglia e io, non le ho mai fatto pesare la vicenda. Forse avrei dovuto. Ho sempre tenuto dentro tutto. A volte penso che le persone continuano a ferirmi per vedere fino a che punto riesco a resistere. In realtà mi sento impotente, così tanto da non riuscire a evitare i pensieri che ormai da qualche minuto raggiungono la mia mente.
«Ciao», mostro un sorriso plastico nascondendo una lacrima, quella che rischia di farmi crollare. Ma non succederà. Ho fatto tanto, mi sono impegnata nell'ultimo periodo a fare andare tutto per il verso giusto.
Non mi sono fermata, non ho vacillato. Sono ritornata la Bambi di sempre. Quella che non arresta la corsa neanche se si sloga una caviglia. Quella impulsiva. Quella che deve essere forte per se stessa e per gli altri.
«Te lo hanno detto?»
Passa subito al dunque perché mi conosce. Parla piano. Un tono di voce spezzato dall'affanno. Annuisco non nascondendo il mio scontento.
In momenti come questi mi rendo conto di quanto siamo effimeri, privi di forza. Basta proprio un niente a mandarci giù, a schiacciarci. A non farci più rialzare. Rimaniamo inermi di fronte al dolore.
Ed è guardando zia Marin che mi rendo conto di non poterla trattenere ancora. Perché lei prima o poi si esaspererà reagendo male. Commetterà qualcosa di orribile, me lo sento. Ed è per questo che devo trattarla per come preferisce. Per questo devo offrirle il mio supporto.
«Che cosa posso fare?»
«Lasciami morire», risponde seccamente indicandomi una rivista sul tavolo basso accanto alla poltrona. «Lasciami morire in pace e non tornare indietro. Non tornare in questo posto triste.»
Con il tempo il dolore si insinua dentro e non se ne va più. Non ti abbandona. Con il tempo il dolore, forse, per te diventa facile gestirlo ma non se ne va più. Lo senti nel cuore, nelle ossa, nella mente. Non ti abbandona. Ti cambia. Forse adesso. Forse per sempre.
Vado prenderle la rivista sentendo un grosso nodo alla gola stringere ad ogni respiro fino a diventare una morsa continua. «Non è quello che sto facendo pur non essendo d'accordo?»
Vorrei essere capace di comportarmi come chi perde la calma. Vorrei urlare contro tutti, sentire sotto pelle come ci si sente a perdere il controllo, a lasciarsi andare. Invece continuo ad incassare, a fingere di stare bene.
Zia Marin sfiora la bandana che tiene in testa prendendo la rivista che le sto porgendo. Ha perso di nuovo i capelli. E so che cosa significa per lei questo. Ne abbiamo sempre parlato senza filtri, senza indugi. Siamo sempre state crude e dirette sull'argomento.
«Si, ma continui ad impedirmelo.»
«Per questo tenti di uscirne quando non ci sono? Credi che per me sarà facile quando mi chiameranno da questo posto chiedendomi di raggiungerti perché non ci sei più? Credi che gioirò? Che per me sarà una liberazione? Ti sbagli. Saperlo solo adesso, mi ha fatto tanto male. Io non capisco perché l'hai fatto quando già qualcosa ti sta uccidendo dall'interno e tu non hai il coraggio di combatterlo. Non capisco perché sei così disposta ad abbandonarmi», la voce si inclina e mi alzo dal bordo del letto spostandomi davanti alla finestra. Vedo il suo riflesso sul vetro e il mio cuore si stringe. Ma preferisco darle le spalle, solo così riuscirò a staccarmi da lei. Solo così riuscirò a lasciarla andare. Perché quando non ci sarà più saremo come adesso: io davanti e lei di spalle. Sarà profumo di ricordi nell'aria.
«Perché sono stanca. I dolori sono intensi e mi sono stancata di essere un peso che respira e senza capelli. Non cammino, non respiro bene e dormo male. Devo persino cagare accompagnata da qualcuno perché da sola non riesco a sedermi sulla tazza. Non è una cosa bella, Bi. Non mi sento più una persona ma un vegetale e io non voglio che tu mi veda ancora ridotta in questo stato», dice con fermezza. «Voglio che tu abbia altri ricordi di me.»
Mi volto a rallentatore. «Ma è successo. Non volevi ed è successo. Adesso sei ancora qui e tu non puoi ucciderti. Non prima di avere raggiunto il tuo giorno designato per morire... non prima del tuo tempo.»
Alza il labbro. «Credi ancora a questa cazzata?» dice brusca chiudendo la rivista. «Non esiste. Non c'è nessuno a decidere per me, per la mia vita. Siamo soli. Soli e ci ammaliamo», singhiozza. Finalmente sta avendo un crollo normale. Mi avvicino a lei abbracciandola. «Ci ammaliamo e moriamo», dice. «Ma io non voglio che mi vedi ridotta in frantumi», inorridisce al pensiero.
«Tu non devi preoccuparti per me. Ok? Posso farcela. Devi solo smettere di velocizzare i tempi perché io voglio esserci quando te ne andrai. Voglio guardarti e starti vicino, tenerti la mano. Perché tu non sei sola. Hai me. Hai ancora me.»
Mi guarda. «Bene. Sei sicura?»
«Si. Da oggi niente più tentativi di farti fuori o sarò io quella ad agire per prima.»
Sorride. «Non sarebbe male», replica. «Adesso però parliamo d'altro», dice guardandomi complice. «Il pagamento all'ospedale? Sei riuscita a chiedere una proroga? Non voglio andarmene con un peso sulla coscienza. Ne ho già troppi.»
Mi agito. È passata una settimana e non ho avuto il tempo e l'occasione di parlarne con lei. «È successa una cosa strana a tale proposito che mi ha fatto incazzare parecchio», porto una ciocca dietro l'orecchio.
Zia Marin attende curiosa. «Spara!»
Lecco le labbra. «Hanno pagato l'intera somma», dico d'impulso parlando velocemente. «E ho già restituito una parte dei soldi.»
«Bene, chi è stato?»
Abbasso il viso per capire e lei si affretta a chiedere: «Chi devo ringraziare?»
Mi agito. Assottiglia gli occhi. «È quel tizio con cui ti vedi di nascondo facendo chissà che cosa?»
Avvampo alzandomi. «No, io e...» spalanco gli occhi tappandomi la bocca poi passo le mani tra i capelli. «Bene, lo sai. Ma voglio anche farti sapere che sono ancora vergine, ok?»
Zia Marin ride divertita. «Sei rossa come un peperone», asciuga una lacrima dalla palpebra. «Devi proprio vederti», continua a ridere poi tossisce piegandosi lievemente in avanti con una smorfia. Le passo un tovagliolo per asciugarsi l'angolo delle labbra. «Comunque mi fa piacere sapere che non l'hai data a quel...»
«Nic mi rispettava», sbotto alzandomi, allontanandomi furente da lei mantenendo un tono di voce normale. «Non si è mai approfittato di me. Mai!»
Quando qualcuno parla male di lui, dentro di me scatta immediatamente qualcosa. «Nic non era un maniaco. Non era neanche un disonesto. Era tutto quello che potevo avere al di là della famiglia e di Dan. Era quello che mi faceva sentire amata in quei pochi minuti liberi che riuscivo ad avere. Si prendeva davvero cura di me e anche di te. Non dovresti distruggere la sua memoria in questo modo. Sei cattiva!»
Torna a farsi seria. «Mi dispiace Bi. Mi dispiace che hai perso ogni persona a cui hai tenuto e mi dispiace che me ne andrò anch'io e non ti vedrò mai sposare o avere dei figli. Mi dispiace, ok?»
Annuisco con gli occhi gonfi delle lacrime che non riesco a lasciare andare. Le tengo dentro accumulandole nel cuore.
«Quello che volevo dire è che sono orgogliosa di te perché hai aspettato quello giusto e non ti sei mai comportata come quelle ragazzine che pur di provare qualcosa o di imitare qualcuno hanno pensato di offrirsi al primo ragazzino incapace incontrato chissà dove.»
«Anch'io avrei potuto», le faccio notare.
«Ma non l'hai fatto. Questo mi dice tanto su chi sei e su chi stai diventando», mi fa cenno di avvicinarmi a lei.
Mi siedo di nuovo sul bordo del letto. La coperta color panna morbida e il suo plaid sopra emanano un calore piacevole sulla pelle. Mi stringe la mano. «Sei una donna. Ti ho visto crescere e fare cose che nessuno sarebbe mai stato in grado di fare. Sopportato cose che nessuno sarebbe mai stato in grado di reggere. Io ti devo tanto e lo so che non riuscirò mai a ringraziarti ma spero davvero che tu riesca a trovare la serenità e la felicità che cerchi perché lo meriti. Meriti il meglio, figlia mia», mi avvicina stringendomi in un abbraccio lento, che non spezza le ossa. «E se questo ragazzo ha fatto davvero quello che credo per te, per me, hai la mia benedizione. Non lasciartelo scappare. Ti conosco e so che hai paura di affezionarti per tutto quello che hai dovuto vivere, ma non puoi scappare per sempre.»
«E di Dan?»
Fa un cenno con la mano. «Non mi intrometterò più. Mi sarebbe piaciuto vederti insieme a lui perché siete sempre stati come una di quelle coppie che si fanno da spalla per tutta la vita, ma al cuore non si comanda e tu non sei il tipo da seguire le regole», dice staccandosi.
Le porgo il bicchiere d'acqua. «Zia Marin io...» sto per dirle tutto: dell'asta, del lavoro nel sito, dei video, di Travis. Tutto, ma veniamo interrotte. In camera entra un infermiere che le toglie la flebo. «Deve riposare signora Marin», dice chiudendole le tende e sistemandole bene il cuscino.
Non è molto alto. I suoi capelli sono rossicci alla luce. Un naso dritto e occhi verdi davvero grandi. Ha un accento inglese, movenze raffinate, delicate.
Mi guarda rivolgendomi brevemente la sua attenzione mentre si occupa di zia Marin con cura. «Lei è Bambi?» Chiede nascondendo la curiosità.
«Si, sono la nipote», rispondo mettendomi da parte mentre zia Marin alza gli occhi al cielo sbuffando.
«Sua zia mi ha parlato molto di lei ma è più bella di presenza», esclama.
«È impegnata», lo riprende zia Marin con rimprovero.
Sorrido. «Adesso devo andare», mi piego baciandole la fronte. «Torno domani. Posso portarti qualcosa?»
«Biscotti allo zenzero e nuove riviste. Se devo morire di noia almeno lo farò nel modo giusto», dice guardandomi con un sorriso.
«Va bene. Vedrò cosa posso fare», mi avvio alla porta. Prima di uscire dalla stanza mi volto a guardarla. Lei fissa la tenda con occhi tristi e stanchi e, ancora una volta mi si stringe il cuore.
Sentendomi asfissiata esco fuori dalla stanza, poi dalla clinica dove sento il bisogno di sedermi perché le mie gambe non sembrano più reggere bene il peso dell'angoscia.
È orribile quando senti ogni cosa della tua vita svanire lentamente. È orribile non provare niente se non uno strano senso di impotenza che ti spinge a mollare completamente la presa. Perché è inutile trattenere le cose, tantomeno le persone che non vogliono restare.
Le persone. Le persone sono sempre la ragione di tutto. Ti regalano un respiro, poi se lo riprendono. Ti amano, poi ti fanno sentire inutile, inadatta. Ti illudono, ti deludono, ti feriscono e poi vanno via. Prima o poi vanno tutti via.
Sblocco lo schermo del telefono chiamando, senza pensare, l'unica persona che riesce a capirmi.
«Ehi, sono in riunione ma se mi dai due minuti ti richiamo.»
Assaporo ogni sua parola rannicchiandomi nel calore della sua voce ormai familiare.
«No, volevo solo sentire la tua voce. Grazie per avere risposto nonostante la riunione. Buon lavoro», dico riagganciando in fretta per non distrarlo.
Alzandomi, prendo un lungo respiro. Riempio proprio i polmoni sentendo il petto bruciare, esplodere. Dopo essermi calmata, mi sposto verso Times Square.
Mi perdo tra la gente. Osservo le insegne colorate e luminose, i tabelloni pubblicitari in contrasto con il grigio. Attirata dalle vetrine entro persino in qualche negozio acquistando qualcosa. Lo faccio per distrarmi, per non riflettere troppo su ciò che realmente mi fa stare male e che con ogni probabilità mi distruggerà. Solitamente non amo fare shopping ma adesso mi serve come terapia antiurto per abituarmi ad una nuova perdita.
Perché alla morte di una persona cara non sei preparato. Non puoi prevedere quanto tempo esattamente ti rimane da passarci insieme. Fa male. Fa tutto male e non puoi perdere un minuto perché è prezioso.
Il mio telefono squilla. Esco dal negozio di oggettistica per rispondere, allontanandomi dalla confusione.
«C'è qualcosa che non va? Prima ho notato che hai usato un tono strano. Come se ti stessi trattenendo dal non piangere.»
Sorrido. «Ecco perché mi piaci», sussurro piano. «Si, sono andata a trovare zia Marin e sono venuta a conoscenza del fatto che questa notte ha tentato di morire», dico gesticolando con le buste in mano.
Sento lo scatto di una porta. Segue un breve momento di silenzio in cui cerco di capire se sia caduta la linea. «Che cosa? Adesso come sta?»
«Ha assunto una dose eccessiva di farmaci per farla finita ma sta bene. Mi ha anche dato la benedizione», rimugino proprio su questo priva di ilarità.
«Dove sei?»
«Avevo bisogno di un po' di compagnia e sono venuta nel posto... diciamo più caotico della città. Come è andata la tua riunione?»
«Bene», si rianima. Percepisco il suo sorriso. «Sono riuscito ad ottenere altri fondi per gli orfanotrofi», dice orgoglioso.
«Anche oggi hai salvato il mondo», esclamo con un sorriso.
Ride. «Non sono un supereroe ma si, ho fatto il mio dovere.»
«Sono orgogliosa di te!»
Inspira tornando immediatamente serio. «Andrai alla villa oggi?»
Annuisco come se potesse vedermi. «Si, devo guadagnare denaro se voglio pagare il debito che ho verso qualcuno», esclamo con sarcasmo. «Ovviamente ti restituirò i soldi usando quelli dei video», aggiungo.
Ride. «Tecnicamente solo quelli guadagnati dai video dove non ci sono io», risponde prontamente.
Sollevo il viso verso i grattacieli e sorrido sentendo meno il peso di quanto ho provato qualche ora prima. «Si, sto già accumulando il gruzzolo da inviarti. Sono positiva e spero di riuscirci entro la prossima settimana.»
Torno verso casa facendo il giro più lungo. In qualche modo sto rinviando molte cose, persino tornare nel mio ambiente.
«Non c'è fretta. Non devi per forza.»
«Lo so ma ne abbiamo già parlato e prima estinguo il debito prima riuscirò a sentirmi libera e senza vincoli di alcun tipo», rispondo pratica.
Sospira. «Ricevuto! Non ti contraddirò più su questo. Ho capito che ci tieni e non posso fermarti anche se vorrei tanto che non lo facessi.»
«Ma alla fine del lavoro avrò lo stesso il mio gruzzolo, così potrò fare qualcosa per me stessa. Quindi andrà tutto secondo i piani.»
«Hai già pensato come usare i soldi?»
«No, qualcosa mi verrà in mente. Attualmente voglio solo fare una cosa alla volta», esclamo.
«Posso fare qualcosa per te?»
«Che ne dici di raggiungermi e andare insieme alla villa?»
«Ci hai provato!»
Scuoto la testa con un sorriso. «Sto per entrare in casa, pranzare e poi andare al lavoro alla villa. Oggi terminerò la camera da letto.»
«Hmm... interessante. Se hai bisogno di omologare il letto mi offro volontario!»
Rido. «Ci hai provato!»
«Ho una chiamata in attesa. Mangia e non battere la fiacca», mi prende in giro.
«Non dimenticare il pranzo e non stressarti troppo. Non puoi salvare sempre tutti.»
Segue un altro momento di silenzio. Corrugo la fronte. «Travis ci sei ancora?»
«Si, si. Adesso... devo andare», risponde robotico.
«Ok», parlo allo schermo guardando la scritta della chiamata terminata quasi con sospetto. Perché ha reagito in quel modo?
Porto in camera gli acquisti. Metto in ordine il soggiorno e infine mi preparo una buonissima porzione di zucca con patate e salmone.
Sto mangiando avvolta nel silenzio quando sento bussare alla porta. Pulisco le labbra correndo ad aprire.
Il mio sorriso si spegne. Il mio corpo reagisce in automatico con un lieve balzo indietro e un verso strozzato dalla gola che diventa secca come deserto. Mi ritrovo appoggiata alla parete alla quale vorrei fondermi. Non avrei mai dovuto aprire così in fretta. Sto persino sperando con tutta l'anima che ciò che vedo non sia vero, perché non può esserci nulla di più atroce che vedere un amico ridotto in frantumi. Un rapido colpo al cuore, seguito da una scarica su per il corpo intero mi travolge. Davanti a me: Dan. Sono parecchi i lividi sul volto e non sembra dormire da giorni. Trema dal freddo stringendosi nel suo tranch consunto. Tira su con il naso rosso. «Posso entrare?» tentenna standomene impalato sulla soglia, insicuro guarda alle spalle.
Gli faccio cenno di entrare guardando io stessa fuori. È arrivato in auto quindi deve essere successo qualcosa qualche ora fa.
«Puzzi da morire», gli faccio notare arricciando il naso quando sento un odore sgradevole in grado di penetrante ovunque.
Annuisce. «Ho gli indumenti puliti in auto. Posso stare qui?»
La domanda mi coglie impreparata. «Prima devi spiegarmi che cosa ti sta succedendo e poi forse potrai dormire qui, sul divano.»
Vedendolo ancora impalato chiedo: «hai fame?»
Senza attendere preparo un piatto anche per lui. «Stavo pranzando prima di andare alla villa.»
«Non darò fastidio», dice con un tono basso fissando il pavimento.
Mi siedo sullo sgabello e lui mi raggiunge dopo esserti tolto il tranch. «Puzzo tanto?»
«Tra una puzzola e un maiale non saprei chi scegliere... forse una stalla o una pattumiera, un gatto morto al massimo.»
Ride ma con una smorfia smette toccandosi la mascella. «Mi farò una doccia, promesso.»
Caccio in bocca un pezzo di salmone. «Mi spieghi che ti è successo?»
Sfioro lo zigomo tumefatto sentendo sotto pelle una lieve scarica. La tensione si staglia intorno e dentro di me scatta uno strano istinto di protezione nei suoi confronti.
Dan prende un cubetto di zucca guardandolo quasi distratto. «Se te lo dico non ci credi», mangia voracemente emettendo un verso di apprezzamento. «Dio, mi è mancata la tua cucina.»
«A me sono mancate tante cose di te. Ma sono ancora qui in attesa di sapere che cosa hai combinato questa volta», lo guardo di sbieco alzandomi. Taglio delle fette di pane abbrustolendole con dell'aglio, un filo d'olio d'oliva e del formaggio grattugiato sopra.
Dan non smette di osservarmi mentre mangia come un bambino. «Mi prometti che mi credi?»
Corrugo la fronte sentendomi stranamente calma. «Si, spara!»
«Ho licenziato Patrick. Ho chiuso il locale.»
Sgrano gli occhi. «Che cosa hai fatto?» lo fisso incredula.
Annuisce dandomi ulteriore conferma. «Si, hai sentito bene. Ho chiuso con quel posto. Prima di licenziarlo gli ho dato ciò che gli spettava e poi ho venduto il lotto ad un uomo che ha intenzione di aprirci una sala giochi.»
Sono sbalordita. «E quelli come te li sei fatti?» indico i lividi.
Passa il dorso sotto il naso. «Conosci Pat», risponde alzandosi per posare il piatto dentro il lavello.
Ruba una fetta di pane mentre la rigiro sulla piastra. Non sente neanche dolore ai polpastrelli, abituato a toccare il cibo caldo. «Mi ha aspettato fuori e mi ha pestato ma a lui non è andata meglio», esclama alzando il labbro in un sorriso sghembo. I suoi occhi sono altrove, forse a quei momenti.
Batto le palpebre. «Che cosa gli hai fatto?» chiedo allarmata.
Deglutisce bevendo un sorso di Coca-Cola che recupera dal frigo. «Ho chiamato a raccolta tutte le ragazze che aveva usato. Lo hanno denunciato. Ovviamente tu devi starne fuori perché non voglio che se la prenda anche con te. Soprattutto con te», aggiunge.
La situazione mi sembra sempre più allarmante. «E? Continua!» lo esorto.
«E lo hanno arrestato con l'accusa di stupro e prostituzione. Ma a quanto pare nessuno ha trovato le prove per tenerlo in carcere. Ovviamente è uscito su cauzione. E... ha pensato bene di darmi il resto», indica lo zigomo. «Ha anche fracassato la vetrina del locale.»
Apro e richiudo la bocca. «Ti sta cercando», concludo.
Annuisce. «Senti, lo so che ho commesso molte cazzate ma volevo fare qualcosa di buono. Non è mia intenzione creare scompiglio nella tua vita. Starò pochi giorni qui poi tornerò al lavoro.»
Notandomi confusa si avvicina poi ci ripensa annusandosi con disgusto. «Ho tutto sotto controllo. Patrick non è il tipo che torna due volte indietro. Doveva solo fermi capire che sa come difendersi. Tutto qua», dice gesticolando. «Lo conosco. È stato solo un momento di rabbia. Deve essersi sentito pugnalato alle spalle, forse anche abbandonato senza preavviso.»
Ho troppe informazioni da elaborare. Interiormente mi agito, fuori non mostro emozione alcuna. «Questo sarà il primo posto in cui ti verrà a cercare», balbetto.
Nega. «No, non avrebbe il coraggio visto che oramai è solo. Non ha più nessuno accanto.»
Faccio una smorfia. «Dan, ti sei messo in un grosso casino.»
«Lo so. Ma non ti trascinerò dentro questa storia. Ok? Ho solo bisogno di un posto in cui stare per qualche giorno. Poi me ne andrò e sarà tutto come prima.»
Mordo il labbro. «Lo spero. Adesso vai a fare una doccia o appesterai casa mia e sarò costretta a bruciare tutto», indico il bagno.
Annuisce e dopo avere recuperato gli indumenti e un borsone si chiude in bagno per una doccia.
Rimasta sola in cucina, ho bisogno di sedermi per riprendermi dalla notizia. Questa proprio non ci voleva, mi dico. Tutto arriva e ti travolge. E non hai mai un preavviso. Non puoi prevedere niente. Le cose capitano e non puoi fermare il tempo per cambiarle.
Mi riscuoto cercando di non immaginare vari scenari in cui Patrick raggiunge questo posto causando chissà che cosa a Dan o a me. Tremo ancora al ricordo di quello che avrebbe potuto farmi.
Lavo i piatti e sistemo la camera dove prima viveva zia Marin per permettere a Dan di stare comodo.
Cambio le lenzuola sistemandogli il letto e spolvero un po' aprendo la finestra, ascoltando la musica per rilassarmi.
Mi sento travolga dagli eventi. Mi sento stanca come quando cadi a terra e non trovi nessuna mano tesa ad aiutarti. Mi sento in bilico, instabile.
«Mi era mancato vederti qui dentro impegnata a pulire.»
Mi volto. Dan avanza verso di me. Quando mi abbraccia rimango di qualche centimetro lontana da lui, quasi imbarazzata. «Dormirai più comodo qui», dico staccandomi in fretta, chiudendo le finestre da cui entra parecchia aria fredda.
«Grazie. Sarebbe andato bene anche il divano», dice grattandosi la nuca. «Non volevo invadere il tuo spazio.»
Mi sta guardando da sotto le ciglia, nel suo modo dolce e convincente di sempre. «Ma l'hai fatto quindi dormirai nel letto di zia Marin», ci guardiamo intensamente poi scoppiamo a ridere. «Ho cambiato le lenzuola una volta a settimana pur non essendocene bisogno, non preoccuparti. Inoltre... mi fa piacere che ci sia qualcuno qui dentro. Iniziava a pesarmi il vuoto in questa stanza.»
Dan soppesa il mio sguardo. «Non sarò un problema per il tuo amico, vero?»
«No, non stiamo insieme.»
«A chi vuoi darla a bere? Lo so che ti sei innamorata di lui», dice sedendosi sul bordo del letto.
Valuto attentamente ogni mia mossa nei suoi confronti. Non so se ho fatto bene ad accoglierlo in casa ma per me fa parte della famiglia che non ho mai avuto e se ha bisogno devo aiutarlo. Prendo posto accanto a lui appoggiando la testa sulla sua spalla.
«Ti ricordi quando con una pallonata hai rotto il naso ad un ragazzino?» rido.
Passa la mano sul viso. «Come dimenticarlo. Avevo una pessima mira», ride scrollando la testa prima di stendersi supino. Faccio lo stesso fissando il tetto. «A volte mi mancano quei tempi», sussurro. «Eravamo più liberi, spensierati. Un tantino scapestrati.»
«Già», dice inspirando chiudendo le palpebre. «Adesso guardaci», continua mettendosi su un fianco appoggiato al braccio. «Siamo cresciuti e non siamo cambiati di una virgola. Forse tu si...»
Sorrido. «Nella vita si cresce e ci si responsabilizza, Dan. Tu devi smettere di fare incazzare le persone sbagliate», esclamo alzandomi.
Sfiora il mio braccio. «Mi dispiace per tutto quello che ho fatto», lo dice in modo sincero, senza mai distogliere lo sguardo, senza mai avvicinarsi, destabilizzarmi. Lo dice come se fosse ancora l'amico che ho conosciuto.
«Lo so. Adesso riposati. Hai l'aria distrutta», dico avviandomi alla porta.
«Bam...» un altro piccolo nomignolo, un altro ricordo associato ad esso insieme a lui.
Mi volto. «Come farai con il lavoro?»
«Mi prenderò qualche giorno. Non ti lascio in casa mia da solo. Non voglio ritrovarla ridotta in macerie», mostro i denti e lui intuendo torna a sdraiarsi. «Mi perdonerai mai?» Chiede con un filo di voce.
«Forse l'ho già fatto», mormoro tra me. «Forse», rispondo ad alta voce senza coraggio di proseguire. Perché il pensiero di essere ferita ancora una volta mi destabilizza.
Sono ancora molto arrabbiata con lui. Forse per questo non sono riuscita a completare la frase. Ma, adesso, davanti ai suoi occhi che non si rendono conto di ciò che mi trasmettono, di ciò che esprimono, provo solo una forte tenerezza che mi fa venire voglia di abbracciarlo. Il cuore, in questo istante mi si stringe così tanto da assumere la forma di una pallina di vetro. Così fragile. Così prossima a frantumarsi.
Chiudo la porta sistemandomi sul divano dopo avere recuperato il portatile e una confezione di snack da sgranocchiare mentre lavoro alla grafica di una locandina per la mostra di un artista in uno dei locali affittati in centro per l'esposizione. In questo modo mi distraggo da ogni pensiero, da ogni paranoia su zia Marin, adesso persino su Dan che rischia davvero grosso.
Sono così concentrata da alzare lo sguardo sull'orologio solo al tramonto. Dentro la cartella ho sufficienti locandine. Mi sale persino il vomito a guardarle. Abbasso lo schermo del portatile sul tavolo basso e stiracchiandomi come un gatto per sciogliere i muscoli, mi alzo per prendere una bottiglia d'acqua. Mi sento assetata, indolenzita e stanca.
Sento due colpetti alla porta. Poso la bottiglia accanto al frigo avanzando all'entrata a passo felpato. Controllo dal vetro non aspettando nessuno a parte il peggio. Rilasso subito i muscoli tesi aprendo la porta all'uomo sorprendente della mia vita. «Ho pensato di portare la cena per farmi perdonare. So che è ancora presto ma possiamo guardare un film o parlare di ciò che vuoi», dice sfiorandomi le labbra per un bacio.
Sto per replicare quando dalla stanza esce Dan, a torso nudo.

♥️🎄

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