VIII - Parte 1-

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Lafayette, 22 Luglio 1969

- Lascialo andare. Tornerà. Torna sempre e quando rimetterà piede in questa casa lo aspetterà una bella ramanzina...- la porta d'ingresso di quel prefabbricato con grandi listoni di legno della fredda tonalità di grigio e che soleva ancora chiamare casa, si chiuse con un tonfo secco alle spalle di Stephen L. Bailey e sua moglie Sharon.

L'ultima cosa che il bambino vide, prima di fuggire in strada correndo a perdi capo sull'erba umida di pioggia estiva, fu la cinta di suo padre, che avvolta attorno alla mano, penzolava grottesca lungo la coscia fasciata dal pantalone nero.

Corse, William, corse finché non sentì le gambe stanche, il petto bruciare e il respiro iniziare a mancare, ma continuò a correre costeggiando le abitazioni tutte troppo simili alla sua, saltando i rami e arbusti che affioravano dal terreno.

Inciampò e cadde su di una radice di quercia che usciva dalla terra, formando una sorta di cappio dove si infilò il piccolo piede del bambino, che perse l'equilibrio sbucciandosi un ginocchio. Si sollevò e le prime lacrime scivolarono copiose lungo le guance, mentre osservava rivoli di sangue scendere a imbrattare la pelle candida delle gambe nude, fino a inzuppare il calzino sollevato appena sotto al polpaccio.

Passò il dorso della mano sotto il naso, eliminando il muco che si era formato con il pianto e si voltò sperando di essere solo.

Era solo, Bill.

Era sempre solo e nella solitudine trovava conforto per quello che la vita gli stava offrendo.

Raggiunse zoppicando il parco dove soleva nascondersi, rifugiandosi nella sua tana segreta (così la chiamava), laddove gli arbusti e la fitta vegetazione a ridosso del fiume, creavano una alcova naturale . Si asciugò le lacrime che ancora scivolavano instancabili lungo il viso e, una volta sinceratosi di essere per davvero solo, si infilò tra gli arbusti, lamentandosi per il bruciore al ginocchio. Sedette in terra con le gambe raccolte al petto e con il ditino raccolse il rivolo di sangue fresco che aveva ripreso a scendere dopo che la ferita si era riaperta.

Singhiozzò, Bill, talmente forte da produrre un singolare risucchio nella bocca. Posò la fronte contro il ginocchio sano e prese a dondolarsi avanti e dietro, cercando riparo nel suo stesso abbraccio.

- Hey, bimbo. Perché stai piangendo? Ti sei fatto male al ginocchio!-

William sollevò la testa incontrando un paio di grandi occhi azzurri, celati dietro tonde lenti da vista. Era una bambina che lo guardava,  carponi, dall'ingresso del suo nascondiglio.

- Sono caduto- rispose asciugando gli occhi e tirando su col naso.

- Perché te ne stai nascosto qui dentro?- gli chiese lei, sedendosi al suo fianco, tirando a sua volta le gambe contro il petto per non graffiare la pelle con i piccoli rami e spini.

La guardò. Aveva lunghi capelli rossi intrecciati in una elaborata treccia che partiva dalla fronte e scendeva sulla schiena, arrivando quasi a sfiorarle i lombi. Aveva un bel viso dalla carnagione chiara, illuminato da efelidi che le conferivano un aspetto buffo ma al tempo stesso interessante. Non poteva essere però definita bella, quella bambina, perché i parecchi chili in più le conferivano un aspetto tutt'altro che sano, ed era per questo motivo che a scuola la vedeva sempre camminare a testa bassa, evitando di incrociare lo sguardo di uno o dell'altro pronto a deriderla. E non veniva derisa solo per il suo corpo tondo e goffo, quanto più per essere la figlia grassa di una madre obesa che faticava persino a camminare.

Don't Damn meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora