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Lui, che aveva il fuoco negli occhi,
mi sciolse il gelo nel cuore.

Lui, che aveva il fuoco negli occhi,mi sciolse il gelo nel cuore

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Wessex,
anno 869.

Il giardino puzzava di muffa e piscio stantio.
Nessuno ricordava più quell'amara bellezza, ormai lasciata al triste destino dell'abbandono della memoria.

Un tempo vi era stata la gloria delle rose in fiori e dell'erba fresca su cui camminare a piedi nudi; poi era giunta la guerra, e su quello stesso prato erano stati sparsi cadaveri.
Il sangue, come sale, aveva scacciato ogni cosa, sradicando la vita alle radici: oramai, non cresceva più nulla nella secca terra di quell'angolo di desolazione. Correva la morte, e nessuno l'avrebbe mai fermata.
Quella ti raggiunge sempre.

«Tienila alta! Non dimenticare la difesa.»

Le lame si scontrarono sopra le nostre teste, schioccando in un gelido rumore di ferro e grida. Fui la prima a ritirarmi, restando in difesa con la guardia alta.
Oltre il filo d'argento, vidi Alfred sorridere.

«Ti avevo detto di tenerla alta.»

Nemmeno si preoccupò di difendersi, sbeffeggiandosi della mia persona sia nelle parole che nei gesti: mi considerava così irrilevante da non prendersi nemmeno la briga di preoccuparsi. Ma, in fondo, perché un futuro re avrebbe dovuto temere una servitrice? Se il mio ego non fosse stato tanto gonfio, forse sarei riuscita quasi a comprendere quella legge di potere.

«Stai zitto

Lo attaccai senza gentilezza e senza la cura implicita di quel duello amichevole; quando vidi il sangue sgorgare dalla ferita sul suo volto, un'insolita frenesia mi punse il petto, costringendomi a godere di quel dolore.

La serva aveva ferito il principe che, se pur di buon cuore, non si oppose alla vendetta: mi attaccò violentemente, puntando più a disarmarmi che a ferirmi, e, confusa da quella strategia - opposta alla mia - non riuscii immediatamente a difendermi, finendo per rimanere bloccata.

Alfred mi prese la mano e me la spinse contro il petto, mentre la sua lama, lucida come i suoi occhi celesti, sfilava contro il mio collo pallido.

«Spalle al muro,» commentò lui, vincente. Le sue guance erano illuminate di un vivace rossore, mentre i suoi occhi, in cui notavo il mio riflesso imbronciato, brillavano come le lucciole estive sulla riva di un lago notturno. Sorrideva come un bambino appena scampato alla cinta del padre.
Strinsi i denti e appoggiai il capo contro il muro dietro di me, ammettendo la mia sconfitta.

«Stai sanguinando,» gli feci notare, cercando di velare il mio disappunto. Come difetto, la sorte mi aveva punito con l'orgoglio, e, di questo veleno, ero certa avrei patito per tutta la vita - soprattutto, se continuavo a vivere alle ombre dei reali.

«Sono bravo,» ribatté lui, zittendomi: «anche più di te.»

Lo fulminai con lo sguardo, soffrendo in silenzio. «Adesso basta.»

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