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Quella notte avevo mentito: in quegli occhi serrati, nelle mie labbra ferme, nel mio cuore traballante

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Quella notte avevo mentito: in quegli occhi serrati, nelle mie labbra ferme, nel mio cuore traballante.
Ivar era venuto da me, nascondendosi nelle ombre del mio silenzio, ed io lo avevo respinto.

Erano state parole dolci le sue, parole che mi avevano quasi  fatto credere che, nel fondo del suo cuore, ci fosse un briciolo di quella verità che avevo tanto cercato nella lunga fila di esistenze che mi avevano condotto a lui. Non era così, non lo era mai stato: l'animo umano era e resta una profonda illusione – forse la più dolce, ma pur sempre un'illusione.

Di saldo, nella vita, resta solo la morte.
Che triste consolazione.

Ed Ivar non era altro che una delle tante costanti, una meteora pronta a collassare in quello oscuro cielo che era diventato il mio cuore, perso per sempre.
Il suo amore, la sua insolenza, il suo dolore: mi aveva distrutto in tutti i modi ammissibili ad un figlio del cielo e, nonostante questo, la distanza sembrava l'unica ferita ancora aperta.

Certe persone non sono fatte per dire addio.
Possono essere abbandonate, possono essere  cacciate, ma lasciar perdere resterà sempre qualcosa di tanto distante dalla loro anima dal non riuscire nemmeno ad accettarlo.
Sono coloro che ne porteranno le vere ferite, un gruppo di persone in cui, nonostante tutto, Ivar non rientrerà mai.

Lui, che mi aveva permesso di affrontare il nemico per un puro vezzo, che di orgoglio era consumato il suo sangue, che mai avrebbe accettato di scendere a patti e perdere un poco di quella felicità che tanto lo ingelosiva.
Ivar mi voleva, ma mi voleva ai suoi patti, con i suoi sconti e le sue offerte, prestabilendo un unico prezzo da pagare: il suo.

E questo era ciò che la mia mente non avrebbe mai accettato: morire in favore di un'altra persona.
Perdermi nelle oscure presenze di un cuore ancora più fragile del mio, di una sfida persa in battaglia.
Quello non era mai stato il mio destino.

"Thora."

Il peso sul mio petto era scomparso, lasciando un tremendo alone di vuoto là dove le dita di Ivar mi avevano stretto con tanta fragilità. Nemmeno mi ero accorta che se ne fosse andato - svanito come vento.

"È mattino ormai," mi informò Hvisterk, seduto sul bordo del letto, ben distante dal mio corpo.

Lui, fra i figli di Ragnar, era quello che meno preferivo: sempre così fastidiosamente nel giusto, con le mani a posto e con una parola affilata sulla lingua insanguinata.
Hvisterk era abituato a restare nell'ombra, ad osservare quelle persone che, negligenti, perdevano di vista il vero pericolo.
Quel ragazzo sapeva come infliggere le sue ferite e, forse, anche come alleviarle.

"Non ho fame," blaterai, tastando con la lingua il mio palato arido. "Ho sonno, voglio dormire."

"Non sarà possibile."

Corrucciata, gli donai la mia completa attenzione.
Era insolente, certe volte quasi più dello stesso Ivar, e davvero non tolleravo quando mi guardava con quel suo sorrisetto storto e le sopracciglia leggermente sollevate.

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