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Ivar non dormiva mai veramente

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Ivar non dormiva mai veramente.
Sembrava, ma non era così.

La bellezza gli era stata dipinta con colori d'oro sul volto, e, in quei momenti di quieto torpore, mi ritrovavo a contemplarla di nascosto, così da essere certa di non rischiare di alimentare quel suo ego traballante e meschino.
Ivar chiudeva gli occhi sempre prima di me, così da convincermi di essere - magari - libera di compiere qualche atto indegno. Era una finta, ovviamente, e mi era bastato osservarlo per capirlo: fintantoché restavo ben ferma fra le coperte, il suo corpo era immobile e flaccido, abbandonato a sé stesso ma, non appena tentavo la mia mossa, notavo i muscoli delle sue braccia irrigidirsi e le dita vagare sul suo cuscino, pronte ad acchiapparmi.
Doveva essere stancante - pensavo - prendersi tanto impegno per sorvegliare a vista d'occhio una semplice schiava, ma Ivar lo faceva, e questo sembrava davvero da lui.

Sospirai, cauta, e mi voltai, osservando la brace silenziosa nel camino, ormai quasi estinta. Era notte fonda e Ivar sembrava perso in un sonno profondo, sempre rivolto nella mia direzione.
Anche quella sera, mi aveva guardata spogliarmi e infilarmi al suo fianco, senza nemmeno pretendere: in realtà, non era mia intenzione dargli soddisfazione, ma sapevo quanto fossi costretta a quei piccoli momenti di goduria per tenere cara la mia incolumità.
Lui non aveva mai provato a toccarmi in quel modo, ed anche questa era una sorpresa: forse era a causa della sua infermità? In fondo, Sigurd lo aveva deriso rimarcando la sua incapacità di rendere felice una donna.
E, allora, la domanda continuava a tornare: perché non mi aveva ancora uccisa?

La mia mente volò ad Alfred.
Pensavo a lui sempre, certo in ogni momento di lucidità: mi mancava in modo straziante, e avrei dato tutto pur di saperlo al sicuro.
Ritornò anche il ricordo di quella notte, dell'attacco dei pagani, e di ciò che accadde fra noi.

Resta con me.

Chiusi gli occhi, spezzata indelebilmente. Cosa avevo fatto? Perché ero finita in tal modo?
Iniziavo a non riconoscermi.

«Ho fame,» esclamai, tutto d'un tratto, mettendomi a sedere. Cercai le mie pantofole e la vestaglia, coprendomi il corpo. «Tornerò fra poco.»

Ivar nemmeno aprì gli occhi, ma le sue dita si erano strette intorno al mio cuscino. Non aveva bisogno di parlare, sapevo esattamente ciò a cui stava pensando: non potevo scappare.
Cauta e con una candela fra le dita, percorsi i corridoi assonati del castello, ben ricordandone l'intreccio: sapevo perfettamente dove andare e non erano certo le cucine.

«Joanne,» chiamai, socchiudendo la porta in legno. «Joanne, sono io.»
Un piccolo bitorzolo tremante sbucò dalle lenzuola del casto letto, adocchiandomi con gli occhi della morte.

«Thora?»
Sorrisi, felice, e mi avvicinai alla cuoca, lasciando la piccola candela illuminare il suo volto sudato e stanco. Aveva dei lividi.

«Santo cielo,» confessai, sfiorandole il volto: «cosa ti hanno fatto?»

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