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Quella notte avevo scelto di andarmene.

Davanti a lui, davanti a chi era stato l'inizio di tutto - ad Ivar: io avevo deciso di andarmene.
Era stato semplice, in realtà: un passo dopo l'altro sino alla porta e, infine, non era rimasto più niente.

Non mi ero mai voltata indietro, non avevo mai sprecato il mio tempo nel scegliere quanto fosse stata giusta o sbagliata quella scelta - mi ero ripromessa di non pensarci e così avevo fatto.

I primi tempi non erano stati facili: non avevo cibo con me, niente acqua, né rifugio o aiuti.
Ero sola, come avevo sempre voluto, ma non mi sentivo come l'eroina dietro cui mi ero sempre vista.

Ero un'ombra, un riflesso di quello che era stato un essere umano, ormai consumato dalla stanchezza, la fame e la vergogna.
Ed iniziò a piovere, poi nevicare, ed io avevo raggiunto le coste occidentali: ormai un cadavere ambulante, riuscivo a confondermi negli scarti dei carichi dei passeggeri.

Sino ad allora, mi ero riempita solo di acqua piovana, foglie e pochi frutti.
Non sapevo cacciare e, comunque, non avevo né armi né forza.

I miei abiti erano logori e spezzati, il mio viso sciupato e scavato, la mia pelle repellente.
Quando finalmente, un giorno, un pagano si accorse della mia presenza - accasciata fra vecchi stracci - quasi sorrisi nel vederlo terrorizzato.

Credeva fossi un demone, una maledizione mandata sulla terra dagli Déi per punirlo.
Inizialmente, quel mio gaio si mutò in sopravvivenza: stavo morendo e persino un pagano provava timore solo col mio aspetto - cosa potevo trarne? Potevo guadagnarci qualcosa?

Decisi di incarnare quella parte.
Riuscii a convincerli di essere un essere maligno, di essere una rovina: parlavo inventando un accento e una lingua inventata, mi muovevo con passi sconnessi e striscianti, quasi sempre nell'ombra.

Presto, tutti nel porto mi riconobbero come la strega e quel uomo spaventato si rivelò essere il comandante di una nave.
Lo costrinsi ad accogliermi a sé e, seduta davanti ad una cartina marittima, le mie mani puntarono l'unico posto di cui credevo non avrei mai sentito la mancanza.

Wessex. Alfred.

Persino quella volta, non ci pensai davvero: fu il mio cuore a parlare, la mia paura e la mia speranza. Di tutto il mondo, sentivo che mi sarei sentita al sicuro solo laggiù.

E così iniziò la mia risalita - in mezzo al letame, forse - ma comunque un'ascesa.
Potei mangiare e bere per la prima volta in settimane, potei dormire in un vero letto: su quella nave, nessuno osava avvicinarsi a me, ma non mi importava.

Tutto ciò che volevo, era scomparire, lasciare alle spalle Kattegat, i pagani, le lotte, Hvisterk, Ivar.
Volevo uccidere quella parte di me e abbandonarla su quella barca insieme alle spoglie della mia vecchia pelle: volevo rinascere, andare avanti.

Rifiorire.
Ci credevo, ci speravo, e non smisi nemmeno quando venimmo catturati dai soldati inglesi, arrestati tutti di ugual pena: essere pagani.
Aver fede non era mai stata cosa da me, ma, quel giorno, una nuova luce sembrava essere esplosa nel mio petto.

Avevo fiducia, pensavo di poter contare in quella luce che vedevo nel mio futuro.

"Ti ho trovato, alla fine," conclusi, tirando un breve sorriso: "o tu hai trovato me. Non importa, in realtà."

Alfred mi guardava dall'altro capo del letto - mani giunte, sguardo fisso, labbra serrate: improvvisamente, mi sentii quasi intimorità, giudicata.
Ero stata lontana per così tanto tempo - ero cambiata: cosa mi diceva che, davanti alla verità, quel mio caro e vecchio amico non mi avrebbe voltato le spalle?

Forse mi ero fidata troppo.

"Non ho dimenticato quel giorno," continuai, timida. "Quando-"

"Quando hai scelto di restare," mi bloccò, conoscendo le parole: "ancora oggi, non ne concepisco il motivo."

Un segreto, un segreto che sapeva di morte.
Era stata Judith, la madre di Alfred: mi aveva cacciata e reclusa, destinandomi a morte certa - alla fine, era stata lei a trovarsi senza testa.

"Ci sono cose che sfuggono da ciò che possiamo capire," sfiorai, tenendo a me le parole più dure: "è successo, le cose non cambieranno, ma ora sono qui e sono sincera."

Sentivo il profilo delle mie unghie premere sul palmo della mia mano, scavare nella pelle, cercando di distrarre la mia mente: per questo giochetto, avevo ormai perso tutta la sensibilità in quella parte di pelle.
Avevo passato molto tempo cercando di dimenticare ciò che era stato.

Infine, sospirai, crollando nel mio spirito. "Mi dispiace, Alfred. Mi dispiace per tutto ciò che è successo - perché hai sofferto, se è successo, e se non l'hai fatto, perché questo significherebbe che non sono mai stata quella persona che avrei voluto essere per te. Ti ho pensato, ti ho dimenticato, ti ho cercato, ed ora sei qui, ancora davanti a me e sento quanto mi sei mancato. Qui, ora, tu mi manchi: vorrei tornare indietro."

Lo volevo e non lo volevo.
Se nulla fosse accaduto, se non avessi mai conosciuto Ivar e il suo mondo, credo che sarei finita con l'accettare la mia vita, ma era successo e le cose non potevano essere cambiate.
Io lo ero, così come Alfred e tutto ciò che ci circondava e, ormai alla fine, mi rendevo conto di quanto tempo avessi sprecato denigrando una felicità che già possedevo.

E poi c'erano loro, i pagani.
Ivar, che avevo amato e perso, ed Hvisterk, che non era mai stato nulla, anche se avrebbe potuto: mi avevano segnata e continuavano a restare nella mia vita.
Li sentivo con me - pelle contro pelle, il ricordo di quegli sguardi, di quelle labbra secche. Ripensavo ad Ivar, al modo in cui mi aveva lasciata andare, senza mai opporsi.

Io non mi ero voltata ma, certe volte, mi chiedevo cosa sarebbe accaduto in caso contrario. Mi riempivo di quei se, di quelle speranze e di quelle illusioni: Ivar avrebbe abbandonato i suoi piani di conquista? Freydis? Per una volta, si sarebbe messo davvero al centro?

C'era stato qualcosa - una scintilla che non solo mi aveva colpito, ma poi distrutta: continuavo a chiedermi se fosse stato solo quello, solo un momento. Privo di significato.

E poi Hvisterk - lui l'avevo abbandonato, lasciandolo andare senza saluti, spezzando un inizio mai davvero sbocciato.
Non lo meritava, non Hvisterk, e, in fondo, quello restava il mio unico rimpianto.
Magari mi odiava.

"Sei davvero tu."

Scostai lo sguardo, notando il volto di Alfred, in confusione fra un sorriso infelice e la rassicurazione.

"Sopravvissuta alla disfatta, pressoché alla morte, e, comunque, sciocca. La vita non ti ha insegnato nulla, Thora."

Sospirò, scuotendo appena il volto, e, dopo un momento di indecisione, si allungò verso di me, stringendomi la mano. Era calda, morbida, così come la ricordavo: quel contatto, così agognato e mancato, quasi mi fece commuove.

Lui mi chiamava sciocca, ma a me non importava: non me ne sarei andata da quella stretta per nulla al mondo.

"Un giorno mi racconterai tutto," disse, cauto: "per ora, limitati a restare. Le cose miglioreranno, Thora. Torneremo a casa."

I suoi occhi erano sinceri, vivi e da bambino: mi sentivo già a casa.

Sorrisi, felice da quel momento ma, prima di riuscire a parlare, qualcuno bussò alla porta: era un valletto che, senza troppi sguardi, si schiarì la voce ed entrò nella stanza.

"Vostra Altezza, re Donovan chiede la sua presenza. E' urgente."

Corrucciai la fronte, insospettita da quella precisazione. Alfred lo notò e subito cercò di risolvere la situazione: si alzò, baciandomi la fronte e mi scompigliò i capelli.

"Niente di che, torno subito."

Mi sorrise ed io decisi di credergli: una sciocca.

Angolo

Capitolo pronto da 3 giorni, finalmente aggiorno 😂

La storia sta giungendo al termine, dovrebbero mancare circa 10 capitoli: siete pronti?

È forse giunta la fine fra Thora e i pagani? Cosa ne pensate?

A presto,
Giulia

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