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I V A R

Il tempo era passato portandosi con sé ogni vana speranza.
Il fratello, il re, il futuro defunto – il mondo aveva esaurito la fortuna da donare al giovane Ivar e lui, che non si definiva uno stolto, vedeva la verità sempre più chiaramente.

Siggurd era morto, Ubbe e Bjorn erano in guerra contro di lui mentre Hvisterk – oh, Hvisterk – lui non osava nemmeno rivolgergli la parola.
E' comune pensare che tutti abbiano la famiglia che si meritano ma Ivar, per lungo periodo, aveva vissuto la violenza dei fratelli nei suoi confronti come una punizione; come l'ennesimo screzio della vita nei confronti di uno storpio.

Col tempo, era cambiato, iniziando proprio dal giorno in cui accoltellò Siggurd davanti a tutto il popolo. Ivar non ne aveva sofferto, non un singolo giorno, e, anzi, aveva vissuto quel momento come una svolta: lui era forte, lui poteva fare tutto, anche l'impossibile – anche uccidere i suoi ingrati fratelli.

Quel giorno, ebbe la conferma di ciò che era stato solo un sogno vano: lui era il diretto erede di Ragnar, l'unico meritevole di proseguire il suo regno.
Ed Ivar lo penso sempre, sino alla fine, anche quando quella irriverente ragazza dai capelli bruni piombò nella sua vita.

Thora era come lui; una forza della natura indomabile, una pelle ricoperta da un'armatura splendente necessaria per proteggere un cuore tanto fragile.
Ivar l'aveva amata con tutto il suo cuore; aveva trovato una via di fuga in lei – qualcosa che, almeno per un momento, l'aveva fatto sentire un ragazzo fra tanti, qualcosa da considerare normale.

Ciò l'aveva spaventato a morte.
Lui, che mai aveva ricevuto amore, ora si ritrovava a conoscerlo negli occhi di chi a sua volta amava: com'era possibile che gli fosse stata donata tanta fortuna? Cosa significava tutto questo?
Poi, comprese: non era altro che l'ennesimo gioco, l'ennesima tortura.

Gli Dei l'avevano messo davanti una scelta, una delle tante che avrebbero scritto il destino: vivere nella solitudine del trono o, invece, nella normalità che l'amore avrebbe condotto.
Thora non sarebbe mai rimasta al suo fianco se avesse scelto il trono e il trono non avrebbe mai accettato una regina inglese.

E aveva scelto, perdendo il suo cuore.

"Ivar."
Il ragazzo sollevò il capo, osservando la guardia di fronte a lui: a quell'ora della notte – o meglio del mattino, essendo da poco sorta l'alba – nessuno osava solcare la sala del trono.
Sperava di poter scappare, almeno per qualche ora – fingere per un poco che tutto fosse solo un incubo e che Thora, in realtà, non se ne fosse mai andata.

Lui l'aveva lasciata andare.

"Cosa succede?" Chiese, irritato: "i litigi fra ubriaconi non sono un mio problema."

"Non è questo," ribatté l'uomo, e, immediatamente, Ivar lo notò distogliere lo sguardo, quasi in imbarazzo.

"Cosa tenti di nascondermi così inutilmente?"

L'uomo cercò di ricomporsi e respirò, tornando a guardare negli occhi il suo re. "Questa notte è giunta una barca di ritorno dalle coste inglesi. Mio fratello era il timoniere e, giunto a casa, mi ha subito avvertito della sorpresa che lui e i suoi uomini avevano trovato a bordo – della loro ospite."

Ospite.
Drej guardava Ivar come se volesse comunicargli qualcosa con il solo sguardo, come se fosse quasi spaventato dal dover parlare ancora.
Ed Ivar forse capì – il suo cuore lo fece – ma si impose di non sperare fino a quando non ne ebbe la conferma.

Non poteva essere.

"La serva di tuo fratello, Ivar. La schiava inglese è tornata a Kattegat."

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