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Le scelte migliori si disperdono nel desiderio di un impulso.
Rifletti, pensi, rimugini e crolli: scegli un destino, cerchi di farlo tuo – vuoi scappare, liberarti.
Nella conclusione, non cambia mai nulla.

Ero diventata la peggiore versione di me stessa e, visto ciò che ero sempre stata, era un traguardo che credevo quasi impossibile da raggiungere: a quanto pare, esiste sempre un peggio, ed è ciò che ero riuscita a guadagnare nei miei diciotto anni di percorso.
Una schiava prima ed una schiava dopo; un'anima in balia degli eventi, una triste passeggera di un destino invidioso e subdolo.

Non ero riuscita a conquistare nulla.
Nessuna famiglia, nessun amico, nemmeno qualcuno da considerare leale: ero sola nella mia bolla di speranze distrutte e sogni taglienti.

Sentivo la presenza del corpo caldo di Hvisterk al mio fianco – immobile, spento – e restavo in silenzio, contemplando ciò che era stato.

Ciglia lunghe, viso arrossato, labbra appena socchiuse.
"Potremmo semplicemente rimanere così per un po'" aveva detto prima di chiudere gli occhi e sospirare, finalmente vinto da una stanchezza contro cui aveva combattuto a lungo.
Un altro burattino della vita, uno scombussolato dal fato: Hvisterk sapeva nascondere con molto più talento le ferite che gli laceravano l'animo, mostrando un equilibrio che molti altri del suo sangue avrebbero potuto invidiargli.

Era un talento raro – il rendersi invisibile – ed io, in me, conoscevo il peso di quel potere: una vita passata nell'ombra, sorreggendo sulle proprie spalle il peso di sbagli altrui.
In un mondo reale, molto diverso, io e Hvisterk avremmo potuto considerarci simili, ma le mie erano mani da schiava e lui un principe dal cuore debole.
Fingevo di avere il potere di non vedere la verità.

Poi, mi alzai.
Era notte fonda e l'unica luce proveniva dalle poche braci rimaste nel camino – ovviamente gentile attenzione di Hvisterk – e, per quanto mi sforzassi, non udivo più i rumori della festa, probabilmente ormai assopita con l'insorgere dell'ubriachezza e i desideri notturni.
Ivar doveva esserci già dimenticato di me, a quel punto.

Lentamente, mi infilai le calzature e mi impossessai del mantello di Hvisterk – il ragazzo, ancora assopito, non si accorse della mia fuga, dandomi il tempo di guardarlo un'ultima volta.

Sembrava felice: così, ad un passo da ciò che aveva considerato a lungo solo un sogno nebbioso.
Sapevo di essere il suo desiderio, ciò che avrebbe potuto renderlo completo, se solo possibile, e, per un breve istante, mi ero addirittura presa la sconsideratezza di credere a tutto questo.
Lui era stato gentile, aveva osato per me, non chiedendo nulla in cambio, ed io temevo che non avrei potuto fare altro che rovinarlo.

Ero stata toccata dalla sventura e, ormai, non ero più destinata ad un lieto fine: tutto ciò che gli dovevo era il dono dell'abbandono.

Così mi ero imposta di credere.

Perciò lo abbandonai.
Quella notte presi la decisione di voltare le spalle a tutto ciò che erano rappresentati per me quegli ultimi mesi: la lotta, il sangue, il rapimento, i pagani.
Avevo combattuto, mi ero fatta forza per quanto possibile per riuscire ad affrontare ciò che mi era stato destinato ma, alla fine, avevo fallito, arrendendomi.

Ed ora, alla fine di tutto, non mi rimaneva che fuggire: solo che, nella lunga lista delle cose che avevo deciso di allontanare, continuavo a dimenticare l'ultimo nodo, quello invincibile.

"Gli spezzerai il cuore."

L'aria fresca colpì il mio volto in un prepotente schiaffo: mi lasciò senza parole, ma mai come il suono della sua voce al centro di quella notte silenziosa.
Ivar era poggiato al muro opposto a quello della porta della mia stanza: indossava abiti semplici ora – la sua sola casacca e i pantaloni da notte – e, con lui, le solite stampelle e lo sguardo piegato.
Il volto ruvido spezzato in due da un'unica luce esterna, quasi come un artiglio bianco a ferirgli l'immagine.

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