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Quindi, aspettai un'altra ora prima di fare ritorno nella mia stanza

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Quindi, aspettai un'altra ora prima di fare ritorno nella mia stanza.
Non per paura, quella non troppo, quanto l'estremo senso di smarrimento di quel momento.
Ivar sarebbe stato arrabbiato, di questo ero certa, e, probabilmente, nemmeno mi avrebbe ascoltato, fin troppo sicura della sua posizione.

Ed io? Io ancora non sapevo se volevo perdonarlo. Ero confusa, disabilitata, quasi il mio stesso corpo si rifiutasse di seguire il mio volere.
Era difficile, davvero, restare impotente davanti ad una persona capace di smuovere il tuo intero mondo.

Un mazzo di margherite fu la prima cosa che vidi, una volta entrata nella stanza. Erano bianche e legate con un cordino semplice, mal annodato.
Le sfiorai, beandomi della freschezza di quei petali, ed un sorriso sfuggì al mio controllo.

Ivar aveva raccolto dei fiori per me. 
Sconvolta, mi sedetti sul letto, non sapendo bene che fare - così impotente.
Quel semplice gesto mi aveva stravolta ancora, riportandomi all'unica realtà: Ivar non era semplicemente crudele.
Era anche buono, testardo, forse cinico. In poche parole, un umano complesso e dedito alle sorprese.
Ed io avevo sbagliato tutto.

Colpita da un lampo di consapevolezza, mi diressi veloce verso l'armadio, cercando un mantello. Proprio in quel momento, venni colta sul fatto.

«Cerchi qualcosa?»

Un cigolo leggero mi fece capire che Ivar era tornato e, notando le sue nocche bianche intorno alle maniglie delle stampelle, capii che dovevano aver sopportato una lunga camminata. Mi aveva cercata?

«Il mio mantello,» affermai, senza timore.
Un lampo di angoscia spezzò il volto di lui, ricordandomi la sua debolezza. 

«Oh, quindi te ne stavi andando,» commentò, dirigendosi verso il letto. La struttura di metallo intorno alle sue gambe cigolò ad ogni passo. Era sempre sul punto di mollare.

«I corridoi sono freddi,» ammisi, nonostante la sua distanza: «non sarei venuta a cercarti senza un mantello.»

In quell'affermazione, Ivar avrebbe potuto morirci. Sì, lo avevo ammesso: sarei andata a cercarlo.
Senza attende un'ordine, mi avvicinai a lui, prendendo a sbottonargli la camicia. Le mani mi tremavano, consapevoli di quel momento di tensione, ma finsi comunque di non notare il suo sguardo.

Ivar non voleva perdersi nemmeno un istante della mia presenza, così spaventato dall'idea di vedermi andare via ancora. Piano, alzò una mano, sfiorandomi in una timida carezza i capelli. Lo guardai, attonita e compresi che stava attendendo una mia reazione nel più totale smarrimento.
Temeva che lo allontanassi o, peggio, che avessi paura di lui.

«Thora,» chiamò, ma io lo fermai subito, portando una mano alle sue labbra.
«Devo chiederti una cosa,» ammisi, ed ero seria. Ivar allontanò la mano, già aspettandosi un litigio, e strinse le labbra.

«Quindi?»

Sarebbe stato più facile parlare o morire?

«Cosa è capitato alle tue gambe?»
Ivar aggrottò le fronte, visibilmente sorpreso da quella domanda.
Lo aveva fatto: il mio cuore aveva vinto sulla mia mente. Razionalmente, il mio intento sarebbe stato parlare e, magari, trovare un accordo, ma il mio cuore aveva preferito la vendetta.
Perché gli avevo chiesto della sua disabilità?

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