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Ero rimasta sola.
Il mio desiderio, che era solo per loro – per salvarli – mi si era ritorto contro, lasciandomi totalmente inerme: Hvisterk non voleva vedermi; Ivar continuava nel suo sottovalutare il futuro attacco e, di nuovo, mi ritrovavo prigioniera dei pagani.
Scappare, rinascere, tornare – no, non era servito a nulla, ed erano lacrime insanguinate quelle a seguirmi ad ogni passo.

Sospirai appena e mi passai le mani fra i capelli, sopportando malamente l'insolente male alle tempie: Ivar mi aveva fatto dono della mia vecchia stanza e di alcuni abiti caldi per sopportare l'inverno. Non era stato lui ad accompagnarmi, ma la solita guardia barbuta che ora sedeva all'uscita, pronta a rincorrermi in caso di fuga.
Mi sentivo esausta ed il mio cuore faceva più male del solito.

Sollevai lo sguardo, sorpresa dal suono della maniglia in apertura. Era Drej, la guardia di Ivar, che sbuffò non appena mi vide.

"Vieni," gracchiò in un inglese faticoso.
"Come?" Chiesi, confusa.

Drej alzò gli occhi ed uscì dalla stanza lasciando la porta aperta, segno che dovevo sbrigarmi ad ubbidire. Ero tentennante – in realtà – ma presi comunque il mantello e lo seguii, restando a debita distanza.
Gli appartamenti della reggia erano insolitamente deserti, per quanto mattino inoltrato.
Le cose si fecero ancora più incredibili quando Drej spalancò la porta di ingresso, facendosi da parte.

"Esci."
Increspai la fronte, stupita. "Come?"

Drej si limitò a chiudersi la porta alle spalle, lasciandomi all'esterno in solitudine. Increspata, mi guardai intorno, non riuscendo a trovare un punto in cui orientarmi.
Come spesso accadeva, molti pagani non si mostravano se non all'ora di pranzo – quindi, notavo solo un piccolo gruppo di bambini che giocavano a sfidarsi con bastoni di legno; alcuni armaioli che affilavano delle asce nei loro studi e poche donne che parlottavano fra uno sbadiglio e l'altro.

Che diavolo stavo facendo?

"Thora?" Una bambina dalle ciglia nere mi guardava col volto piegato e lo sguardo incuriosito. Fra le mani, teneva un bastone di legno. Sorrise, afferrandomi per la manica, così che la seguissi.

"Cosa?" Chiesi, non capendo. Conosceva il mio nome? Che cosa voleva da me?

La piccola mi portò sino al suo gruppo di amici e, tirandomi con forza dal basso, mi costrinse a piegarmi sulle ginocchia.
"Tieni," blaterò con difficoltà, porgendomi un bastone.
Lo presi, non comprendendo, ma subito mi ritrovai a dover parare un fendente rapido e veloce, proprio diretto al volto.

Il bambino dai capelli biondi – il colpevole dell'attentato – mi sorrise malizioso, e subito ritentò, questa volta alla mia caviglia.
Seguendo i miei istinti, feci un balzo indietro e risposi alla minaccia: il bambino, che non avrà avuto più di dieci anni, rispondeva alle mie mosse come se fosse nato per farlo e dovetti attendere ben cinque colpi prima di riuscire a disarmarlo.

Sospirai pesantemente quando vidi il bastone cadere a terra, pressoché un miracolo.
Erano passati mesi dall'ultima volta in cui avevo affrontato uno scontro armato – avevo dimenticato quanto questo mi facesse sentire forte.
Tempo prima amavo tutto quello.

"Thora!" Esclamò il bambino in un rozzo inglese, stupefatto.
"Brava," aggiunse l'amica, sorridendomi incantata.

I loro compagni urlarono in mia festa e sbeffeggiandosi del compagno sconfitto dalla povera cristiana. Ci misi qualche istante, un momento in più per comprendere ma, infine, sorrisi.
Un fioco calore si era acceso nel mio cuore.

"Hai sconfitto un mio soldato."

Il sorriso scomparve dal volto dei bambini e, dopo un breve momento di confusione, tutti corsero via, lasciandomi sola con il ragazzo alle mie spalle.
Il vento spense il piccolo fuoco, portandomi con sé.

"Credevo l'avessi capito che ero diversa dalle altre," commentai, rimettendomi in piedi e affrontando il suo sguardo.
Ivar mi guardava sbruffone, non trattenendo nemmeno la soddisfazione nel vedermi così - per una volta libera dai pensieri.

"Temevo ti stessi stancando troppo in quelle quattro mura," disse, sereno: "devo aver pensato correttamente."
Feci cadere a terra il bastone e strinsi le braccia al petto. "Quindi anche questo è uno dei tuoi stupidi piani? Addolcirmi con i sorrisi dei bambini?"

Qualcosa nascondeva la verità.
Sorrideva, si atteggiava, non incurvava mai le spalle ma, ogni qual volta i nostri sguardi si incrociassero, non era forza quella che vedevo nei suoi occhi, né desiderio.
Sembrava...disperazione.
Non avrei mai potuto non riconoscere il dolore, non in lui.

"In realtà," sospirò, infine: "non esattamente."
Il suo volto si inclinò oltre alla mia spalla, attratto altrove – incuriosita, mi voltai, cercando di comprendere la motivazione dietro la sua distrazione. Immediatamente, il cuore mi si bloccò, lasciandomi senza fiato.

I bambini con cui mi ero scontrata non erano corsi a nascondersi, ma a chiedere aiuto ad una protezione amica: un ragazzo dai capelli scuri e il viso pallido.
Hvisterk.

Questo, sentendosi osservato, si voltò verso di me, inquadrandomi immediatamente in una nube di rancore. Le sentii, vivide e chiare, le spine del suo odio trafiggermi.
Il solo avermi vicino lo disgustava.

Se ne andò portandosi i bambini con sé, lontano dal pericolo che ormai rappresentavo.
Fu difficile impedirmi di crollare ancora.

"Ti perdonerà."
Tremante, mi voltai verso Ivar, trovandolo anch'esso rivolto verso Hvisterk. "Ha sofferto tanto, ma ti perdonerà. Lo conosco meglio di chiunque altro."

"Mi sta odiando," feci notare. "Mi sta odiando e me lo merito. L'ho abbandonato."
"Io l'ho fatto per primo."

Finse un sorriso, sgranandomi nell'azzurro dei suoi occhi. "Tutto è iniziato con me. Il tuo dolore, la tua felicità, la tua solitudine. Persino l'odio di Hvisterk. Io sono la causa di tutto."

Negli ultimi mesi, quelli erano stati anche i miei pensieri. Ivar mi aveva rapita, mi aveva fatta sua schiava, usata e gettata via – lui non aveva mai davvero concordato, mai davvero parlato – ed era stato difficile, per me, raggiungere la verità.

Ma, in quel momento, vedendolo così - sincero e disarmato - non potei che arrendermi.
Ivar pensava davvero quelle parole, in tutta quella tragedia, in tutto il dolore – ed io, in quelle parole, in quell'ammissione, non riuscii a non volergli bene.

Le mie dita sfiorarono la sua guancia, rubando un po' di quel gelo – Ivar, preso di sprovvista, rimase interdetto un paio di istanti prima di coprire la mia mano con la sua.

"Non è mai stata colpa tua," dissi, e lo pensavo davvero.
Quello fu troppo, troppo per il ragazzo.

Ivar traballò sulle sue gambe, quasi perdendo la presa sulle stampelle. Mi cadde addosso, abbracciandomi con forza e lasciando andare il suo volto fra i miei capelli.
Sentivo le sue unghie scavare nel tessuto dei miei vestiti, quasi a volermi inglobare nella sua pelle, per proteggermi come mai prima era riuscito a fare.
Sentii i suoi peccati defluire al vento, lasciarsi perdere mentre Ivar piangeva lacrime sincere e scomode, trattenendo a stento i singhiozzi.

Ed io mi aggrappai a lui come mai avevo fatto prima, non temendo del futuro o di ciò che sarebbe stato.
Vedevo solo Ivar, una figura a cui avevo dato il mio cuore e che mi aveva ferito, prima di essere distrutto a sua volta. Ci eravamo fatti male, tanto, ma non c'era mai stato un addio.
Quel giorno – nemmeno quel giorno – ci fu davvero bisogno di parlare: era tutto chiaro, proprio in quel silenzio beffardo.
Nel perdono, finalmente, avevamo trovato la pace.

-4 🖤

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