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Sei mesi dopo

Sapevamo che sarebbero tornati.
Nessuno ne parlava apertamente, ma per il semplice fatto che sarebbe stato superfluo. I grand'uomini del regno sfoggiavano le loro armi lucenti e si dicevano pronti alla battaglia ma, nell'ombra, anche loro avevano preparato il loro carretto di viveri pronti a fuggire un attimo prima dell'invasione.
Ed erano arrivati.

Prima avevano colpito il regno del responsabile materiale - re Aelle di Northumbria –, colui che, per conto dell'amicizia di Ecbert, aveva spedito Ragnar nella fossa di serpenti, e poi erano risaliti alla fonte, a quella che era la mente dietro a tutto: lo stesso Ecbert, il nostro sovrano.
Lui aveva venduto Ragnar all'amico, aveva lasciato lo uccidessero, condannandolo alle pene dell'inferno.
Ecbert sapeva che sarebbe successo tutto questo; sapeva che ci avrebbero distrutto.
E così era stato, perciò, un attimo prima dell'invasione, aveva nominato suo figlio, Aethelwulf, re e aveva costretto in fuga tutta la sua famiglia, compreso il nipote Alfred.
Era consapevole che sarebbe giunta la sua fine e, così, era stato: dopo aver siglato un accordo con i norreni sulle terre da spartire e la protezione della sua famiglia, era riuscito a concedersi un ultimo desiderio. 
Gli avevano permesso di prendere una lama e, nella sua stessa piscina, tagliarsi le vene.

Strofinai gli occhi con forza, infastidita dalla polvere che precipitava dal soffitto di quel piccolo armadio soffocante. Credevo fossero passate ore, ma forse nemmeno un minuto, da quando la battaglia era cominciata ed ero sgusciata nelle camere di Alfred, non riuscendo ad abbandonare il suo fianco.

Non mi lasciare. Non posso lasciarti.

Chiusi i miei pugni sino a sentirne la pelle scalfirsi, sforzando la mia mente a pensare a un dolore diverso da quello dei ricordi.
E, poi, qualcuno aprì le porte della camera.

Subito mi misi in allerta, studiando dallo spiffero aperto fra le ante ciò che accadeva all'esterno: ormai, le urla e i suoi della battaglia erano cessati da diverso tempo, ed ero certa che fosse giunto il momento dei rinomati furti dei pagani.

Loro conquistavano, loro rubavano: non c'era mai qualcosa che fosse davvero loro.

Vidi due uomini in divisa da battaglia e con sacchi vuoti nelle mani – alla cinta, oscillavano le loro asce col filo coperto di sangue, lo stesso che sporcava i loro vestiti.

Si dissero qualcosa che io non capii, e iniziarono a girovagare per la stanza, aprendo cassetti e svaligiando quelle poche ricchezze che erano rimaste. Li osservavo senza fiato, sussultando ogni qual volta quale arredo finiva per terra e frantumato; poi, però, uno di loro si voltò verso l'armadio.

Inerte, mi accucciai nell'angolo più nascosto, respirando piano fra i numerosi vestiti pomposi. Sentii la luce bruciare sopra il mio capo quando il vichingo spalancò le ante, maneggiando con poca cura i tessuti: era così vicino che sentivo l'odore del sangue pungermi le narici, così come il sudore.

La sua ascia era proprio davanti a me, sotto i miei occhi. Avrei potuto toccarla. 

Improvvisamente, si fermò. Sgranai gli occhi e smisi di respirare, osservando le sue mani con l'ansia nel cuore: il tempo si era dilatato, e gocce di sudore gelido scendevano lungo la mia fronte.
Completamente disarmata, ero più che certa che fossi sul punto di morire.
Sarei morta, e Alfred non l'avrebbe mai saputo, non avrebbe pianto per me.

«Olej,» chiamò, riferendosi all'amico.
Velocemente, il mio sguardo provò ad andare oltre, e, fra le gambe socchiuse del vichingo, feci appena in tempo a vedere il collega prendere la sua ascia, che l'armadio era già stato spinto a terra, facendomi ruzzolare fuori. Battei la testa, ma non urlai.

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